giovedì 23 febbraio 2017
Olocausto palestinese: i deboli piacciono non violenti e negri da cortile
L'Intifada combattuta a colpi di non violenza
MICHAEL CHABON E AYELET WALDMAN Rep 22 2 2017
Da mesi Issa Amro, nato nella città di Hebron e illustre sostenitore palestinese della resistenza non violenta, aspetta di sapere quando sarà processato e giudicato da un tribunale militare israeliano. È stato accusato di una serie di reati che vanno dalla partecipazione a manifestazioni non organizzate all’“offesa a un soldato”. Le due accuse più gravi a suo carico parlano di aggressione a una coppia di militari e al coordinatore per la sicurezza di un insediamento. In entrambi i casi, risalenti il primo al 2010 e il secondo al 2013, l’esercito afferma che Amro ha preso a spintoni i suoi antagonisti. Amro respinge le accuse e fa notare che in entrambi i casi è stato lui a subire conseguenze fisiche. Le forme di crudeltà insensata sono del tutto comuni nella vita nei territori occupati, ma da nessuna parte sono più frequenti che a Hebron.
al checkpoint e ha trovato la ragazza rannicchiata e tremante. Si è inginocchiato accanto a lei e le ha parlato, dicendole che se avesse cercato di pugnalare un soldato sarebbe morta di sicuro. Lei ha risposto «non mi interessa, tanto per me non c’è speranza ». Amro le ha allora fatto presente che la sua morte non avrebbe aiutato la Palestina e che la sua comunità aveva bisogno di lei. Le ha parlato dei molti modi con i quali ci si può opporre a un’occupazione senza far ricorso alla violenza. «Non mi ha creduto » ricorda Amro, «ma ho iniziato a farle un esempio dietro l’altro ». Alla fine lei gli ha consegnato il coltello e lui l’ha affidata alla polizia palestinese. Da allora Amro ha ricevuto altre chiamate di aiuto per sventare atti violenti. Tra gli altri casi, c’è stato anche quello di una giovane donna che gli ha scritto su Facebook dicendo di volersi armare di coltello e andare incontro al martirio per il bene della causa palestinese. Anche in questo caso, Amro è riuscito a farle cambiare idea perorando la causa della non violenza: ha subito contattato gli amici della giovane, che sono riusciti a fermarla.
Questo dunque è l’uomo che ora rischia di scontare una lunga condanna in un carcere militare israeliano per reati che comprendono un battibecco da scuola infantile con parole che non ha mai pronunciato e un’aggressione della quale dice che non avrebbe potuto macchiarsi. L’accusa deve ancora rispondere alla mozione presentata dal suo avvocato di far cadere quattordici delle diciotto imputazioni a suo carico, sulla base di un “abuso di giustizia” e del fatto che esse sono
state criticate da più parti.
Agli occhi del mondo l’impegno di Amro per la non violenza lo ha reso un portavoce di particolare rilievo e visibilità per il suo popolo. L’anno scorso ha ricevuto le visite di alcuni membri del Congresso americano e, pur essendo imminente la data originaria fissata per il suo processo, è andato in Belgio dove ha conosciuto il presidente del Parlamento europeo e ha preso la parola davanti all’assemblea dei parlamentari.
Esistono palestinesi che uccidono, che indossano giubbotti imbottiti di esplosivo per farsi saltare in aria, usano autobombe, aggrediscono a coltellate soldati e civili israeliani. Issa Amro non appartiene a questa categoria: al contrario, il suo impegno nei confronti del movimento che considera la resistenza non violenta l’unica strada percorribile per indurre un cambiamento duraturo, è la migliore speranza di pace per palestinesi e israeliani.
Se Israele perseguita e persegue penalmente organizzatori comunitari come Amro, alla gioventù palestinese non resterà nessun modello al quale fare riferimento per capire come dissipare frustrazione e disperazione. Gli unici rimasti saranno come Mohammad Tarayreh, che il 30 giugno 2016 si è intrufolato nell’insediamento di Kiryat Arba alla periferia di Hebron, ha fatto irruzione nella camera da letto di Hallel Yaffa Ariel, una tredicenne israeliana, e l’ha pugnalata a morte. A furia di incatenare il pugno alzato della resistenza, lasceranno libera soltanto la mano che impugna il coltello.
© 2017, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti
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