venerdì 24 febbraio 2017

Per l'Amazzonia e per la Pecunia. Miliardari di tutto il mondo, unitevi e parlate con Repubblica, con la sinistra italiana e con Flavia Gasperetti che si sente "élite"






Sono élite e me ne vanto
Ci attaccano. Per le competenze, le idee, il buon governo. Perché siamo politicamente corretti. Basta sentirsi in colpa. Contrattacchiamo. Siamo meglio di loroFlavia Gasperetti pagina99.it

Corriere della Sera


È il giorno di Orlando. Ma «la base» si muove e il Pd perde altri pezzi 

Democrack. Oggi il ministro annuncia la corsa nel più combattivo circolo di Roma Errani dà l’addio al partito, ma resta commissario alla ricostruzione. Emiliano già a muso duro contro i due avversari A giorni l’esordio di piazza della «nuova cosa»

Daniela Preziosi Manifesto 23.2.2017, 23:59 
Sarà il giorno di Andrea Orlando. Stando a un tam tam cresciuto nelle ultime ore, l’occasione sarà questo pomeriggio alle 18 in un incontro al popoloso e combattivo circolo Pd Marconi, quello degli «indomabili» non precisamente renziani. Per il ministro la stretta sui tempi è stata obbligatoria. La commissione congressuale ha ingranato la quarta e per venerdì avrà già pronta la data delle primarie, con ogni probabilità il 9 aprile, e il regolamento. I militanti avranno tempo fino al 28 febbraio per tesserarsi, ma chi non vorrà farlo potrà comunque votare alle primarie, come ricorda in queste ore il candidato Michele Emiliano. Ma soprattutto Orlando deve battere sul tempo l’avvio della scissione degli ex Pd: deve tamponare la vena aperta sul fianco sinistro del partito. Da cui cominciano a uscire non solo i dirigenti di area ex ds – la sua base congressuale di elezione – ma anche militanti e interi circoli. 
Ieri mattina una nuova riunione fra bersaniani e ex Sel ha sancito la road map delle due scissioni parallele e convergenti: venerdì, al massimo sabato la presentazione dei nuovi gruppi. Alla camera siederanno alla sinistra della presidente Boldrini, sopra gli scranni di Sinistra italiana, alla quale resteranno 13-14 deputati. Per reagire allo smacco, c’è chi ipotizza la riunione fra Si, civatiani e ex M5s (che siedono nel misto); ma da Possibile arriva una smentita. 
Quanto al nuovo gruppo, ancora non c’è una decisione sul nome. Al ’dalemiano’ «Uguaglianza e libertà» i bersaniani rilanciano con una sigla che faccia riferimento più diretto al «centrosinistra», per indicare tutto lo spettro politico in cui si vuole pescare consenso. Resta ancora qualche nodo da sciogliere: nel nuovo gruppo le componenti dovranno stringere un gentemen’s agreement sui voti al governo: gli ex Sel hanno alle spalle quattro anni di opposizione, e per cambiare atteggiamento verificheranno se ci sono «fatti nuovi» nell’agenda sociale del premier Gentiloni. 
Anche se con il passare delle ore torna in auge la possibilità di votare presto, anzi prestissimo. L’elezione del nuovo segretario Pd già il 9 aprile autorizza più di un sospetto sulle intenzioni di Renzi: voler precipitare il voto a giugno. L’ex segretario sfrutterebbe il traino della campagna per la gazebata. Non a caso proprio nella direzione della ricerca dell’incidente parlamentare oggi i dem di tutte le parrocchie leggevano le parole del reggente Matteo Orfini sulla Stampa: da dove ha chiesto di fermare le privatizzazioni e di mettere la fiducia sulla legge per lo ius soli. L’iniziativa ha fatto insospettire Forza Italia e imbufalire Ncd. 
L’ipotesi di voto anticipato, smentita dal capogruppo Ettore Rosato («Non è sul tavolo») è considerata verosimile anche dagli scissionisti Pd, che proprio sulla durata del governo avevano chiesto garanzie a Renzi, senza riceverne. La nuova ’cosa’ potrebbe pesarsi subito in una campagna elettorale. «Stiamo ricevendo tantissime telefonate e in molte località, dove si andrà al voto in primavera, in tanti sono pronti a presentare già nuove liste», spiega un bersaniano di rango. Sabato gli ex Sel riuniranno a Roma i dirigenti per mettere subito in moto la macchina della loro base. Altrettanto faranno gli ex Pd la prossima settimana. Ma molti i militanti dem hanno già cominciato a organizzare autonomamente la propria uscita dal partito (dal Nazareno fioccano smentite). E dall’Emilia Romagna arriva una defezione di peso: Vasco Errani annuncerà il suo addio sabato a Ravenna. Manterrà però la carica di commissario alla ricostruzione post-terremoto. Da Palazzo Chigi si fa sapere che «la stima» resta e che nessuno chiederà le sue dimissioni da un incarico ancora ben lontano dall’essere portato a termine. 
La preoccupazione è quella di evitare la sensazione di un’operazione solo di palazzo, spostando i riflettori, quelli che resteranno accesi, sui territori. Fra dieci giorni, al massimo fra due settimane, un evento ’di popolo’ segnerà l’esordio di piazza del nuovo partito-movimento. 
In parlamento però i numeri ancora ballano: sono dati in uscita dai 18 ai 23 deputati, almeno in questo primo scaglione, in testa naturalmente gli ex segretari Bersani e Epifani, l’ex capogruppo Speranza, l’ex responsabile organizzazione Nico Stumpo, l’ex responsabile delle donne dem Roberta Agostini. Restano invece nel Pd il bersanianissimo Andrea Giorgis e forse anche il giovane Enzo Lattuca. Che si siederanno insieme ai 17 ex Sel di Campo progressista più tre deputati provenienti dal misto. Al senato invece gli uscenti sono 12. Lì non ci sono vendoliani in uscita: Uras e Stefano, anche loro vicini a Pisapia non sono mai entrati in Sel e siedono nel misto.


La scissione perde pezzi in Parlamento Molti bersaniani rimangono nel partito 

Ma Errani, commissario al terremoto, abbandona i dem 

Andrea Carugati Stampa
Tre giorni dopo l’annuncio del divorzio in casa Pd, i numeri della scissione continuano a ballare. Nell’ala bersaniana, che dall’Emilia festeggia l’arrivo di Vasco Errani (commissario alla ricostruzione post terremoto), ci sono ancora dubbi, lavori in corso, defezioni. Martedì sera i parlamentari della sinistra si sono riuniti dopo la direzione dem, con alcuni ancora alla ricerca di uno spiraglio per evitare lo strappo. Prima della cena alcuni bersaniani, come il professore torinese Andrea Giorgis, hanno annunciato di voler restare nel Pd: «Per il momento non seguirò i compagni, la vittoria di Renzi al congresso non è affatto scontata», ha detto il deputato che in un primo momento era stato individuato come capogruppo. Con lui dovrebbe restare nel Pd anche la deputata Maria Luisa Gnecchi. In bilico altri parlamentari come Michele Mognato, Andrea Maestri, Paolo Fontanelli ed Enzo Lattuca. «Ci sto ancora pensando, non è una scelta facile», spiega Lattuca. Per tutta la giornata di ieri gli uomini macchina della nuova forza bersaniana, Nico Stumpo, Davide Zoggia e Danilo Leva, hanno lavorato per convincere i dubbiosi, con telefonate e lunghi colloqui nei corridoi della Camera. «Devo parlare con i miei sul territorio», la risposta di molti. Secondo le ultime stime, dalla sinistra dem dovrebbero uscire 18-19 parlamentari; altri 17 lasceranno Sinistra italiana guidati da Arturo Scotto. In totale circa 36-38 deputati che entro domani daranno vita al gruppo dei “Democratici e progressisti”, questo il nome più probabile. 
In Senato l’asticella dovrebbe fermarsi attorno alla dozzina. Non sarà della partita Massimo Mucchetti, uno dei protagonisti delle battaglie di questi anni contro le riforme di Renzi. Anche Walter Tocci, tra i frontman del No al referendum, dovrebbe restare nel Pd, come Luigi Manconi e Silvio Lai, mentre è in uscita Felice Casson. Resta con i dem l’ex civatiani Sergio Lo Giudice. Alla Camera non si muovono, almeno per ora, Rosy Bindi e la fedelissima Margherita Miotto. Barbara Pollastrini si definisce ancora «inquieta» e aggiunge: «Devo riflettere».
Ieri mattina, alla Camera, abbraccio simbolico tra Bersani e Ciccio Ferrara, anche lui ex Pci: le loro strade si erano separate quasi trent’anni fa, al momento della svolta di Occhetto. «Finalmente ci siamo ritrovati». Ma per il nuovo gruppo nasce subito una grana: il rapporto col governo Gentiloni. Chi esce dal Pd intende continuare a sostenere l’esecutivo, mentre gli ex Sel non lo faranno. «Ci sarà una articolazione di posizioni tra di noi, quello che conta di più è la scommessa per un nuovo soggetto della sinistra», spiega Scotto. Ieri prove generali: sulla fiducia al Milleproroghe le due truppe si sono mosse diversamente. Ancora più a sinistra prove di fusione per un nuovo gruppo tra i 14 rimasti in Sinistra italiana con Fratoianni, i civatiani e alcuni ex M5S. L’obiettivo è superare quota 20 deputati.
La macchina del congresso Pd si è avviata già a pieno regime. Tra oggi e domani la commissione incaricata di scrivere le regole terminerà il proprio lavoro, entro il fine settimana una nuova direzione ufficializzerà la data delle primarie. L’obiettivo di Renzi, sostenuto anche da Orfini, è di votare il 9 aprile. Emiliano e Cuperlo spingono per andare più avanti, ma difficilmente si andrà oltre la fine di aprile. Oggi il ministro della Giustizia Andrea Orlando ufficializzerà la sua candidatura a segretario, sostenuto con tutta probabilità anche da Gianni Cuperlo e Cesare Damiano. 
Già in campagna elettorale Michele Emiliano: «Se vinco le primarie dimagrisco di 20 chili, da 120 a 100», ha promesso a Un giorno da pecora su Radio 1 Rai. 
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“Negli Usa cerco idee per battere i populismi e rilanciare la sinistra” 

Renzi a San Francisco: “Dopo il referendum siamo tornati al passato” 

Paolo Mastrolilli Stampa
Sono passate da poco le otto, quando Matteo Renzi torna in albergo dalla sua corsa mattutina: 15 miglia sul lungomare di San Francisco, indossando il colore azzurro dell’Italia. Il cellulare è rovente e continua a squillare senza tregua, ma lui è «sereno e sorridente, lontano ottomila chilometri dalle polemiche». È venuto in California per staccare la spina e «ossigenare il cervello», ma soprattutto per cercare le idee con cui riproporsi alla guida del paese, rispondendo alle ansie della gente che hanno provocato l’ondata populista cominciata in Gran Bretagna con la Brexit, e proseguita negli Usa con Trump. «Il punto di questo viaggio - spiega Renzi, mentre con Marco Carrai va alla Apple per incontrare Tim Cook e Luca Maestri - è politico». 
«Dopo il referendum sembra che si sia tutto bloccato: si torna al proporzionale, si torna alle scissioni, si torna alle esperienze che vengono dal passato. Il che è rispettabile, perché lo avevamo detto che il referendum rappresentava un appuntamento importante e un nodo. Però mentre noi stiamo a discutere da tre mesi di come si fa il congresso del Pd, come si muove Sel, come Berlusconi e Salvini vanno d’accordo, fuori c’è un’Europa che continua ad essere il punto fondamentale in un mondo che viaggia a una velocità straordinaria. Allora ho cercato di togliermi dalle polemiche, anche perché non sono più il presidente del Consiglio, e non sono più il segretario del Pd, in attesa del Congresso. Quindi ho deciso di andare un po’ a rinfrescare la mente, così come sono andato da solo a visitare Scampia e le periferie in Italia. Non sono venuto in California a fare il fighetto. Sto cercando di ossigenare il cervello, e in quattro e quattr’otto abbiamo messo su questa roba di due giorni e mezzo, incontrando Elon Musk di Tesla, Tim Cook della Apple, il fondatore di Airbnb, Stanford, la comunità italiana. Io avevo iniziato la mia prima visita da premier negli Stati Uniti dalla West Coast, non da East. Stanford ad esempio è un punto di riferimento fondamentale per il rapporto tra le università e il lavoro, le università e le aziende. Nessuna delle grandi compagnie della Silicon Valley che tutti conosciamo esisterebbe, se non ci fosse stata la straordinaria forza di Stanford e delle altre grandi università. Questo è il tema che mi sta a cuore: il rapporto tra le università e l’innovazione, e il messaggio positivo dell’innovazione».
Renzi inquadra la sua riflessione nei cambiamenti epocali in corso: «Oggi siamo in una fase in cui la gente vede l’innovazione come un pericolo, ma lo diceva anche quando Gutenberg aveva inventato la stampa, o all’epoca della rivoluzione industriale. Secondo me la rivoluzione digitale è un passaggio simile a quelli, ed è chiaro che nel breve periodo le preoccupazioni, in particolare del ceto medio, sono forti. Ma la scommessa per un paese deve essere quella di investire sul futuro, non evitarlo. Noi italiani abbiamo molti cervelli, alcuni anche qui, tranquillamente in grado di essere protagonisti del tempo che cambia».
Negli Usa le paure del ceto medio hanno determinato la vittoria di Trump alle presidenziali, e ora in Europa sono in programma elezioni in Olanda, Francia e Germania, dove il populismo potrebbe dare la spallata definitiva all’Unione Europea. La California è il cuore della resistenza a Trump, e anche la culla dell’innovazione che potrebbe dare risposta alle ansie da cui nasce il populismo? «La risposta al populismo potrebbe stare nella crescita favorita dall’innovazione - risponde Renzi - a condizione che ci aggiungiamo un pezzo mancato anche nella mia narrazione: come garantire un sistema di protezione a chi si sente tagliato fuori. Qui non è un argomento, perché da un lato esistono comunque i numeri di Barack Obama che sono pazzeschi in termini di crescita economica, e dall’altro non c’è la cultura del Welfare come da noi. Però in Europa e in Italia c’è, e noi dobbiamo rivoluzionarla ancora. Quando viene proposto, ad esempio dai Cinque stelle, il reddito di cittadinanza a tutti, è un messaggio sbagliato perché favorisce il ripiegamento su se stessi. Posso anche non cercare lavoro, tanto ricevo comunque lo stipendio. Invece il messaggio deve essere: mettiti in gioco, provaci. Poi, se non ce la fai, io ti do’ una mano. Non è un reddito di cittadinanza per tutti, ma un paracadute per chi non ce la fa. In cambio fai formazione, lavori. Bisogna dare un messaggio di stimolo, di forza. Il punto è come. L’innovazione va posta davanti ad un paese come l’Italia con questa narrazione positiva. Basti pensare solo a tutta la ricaduta che la rivoluzione digitale potrebbe avere per le piccole e medie imprese, ma ancora non è stata affrontata come avremmo dovuto e potuto». Renzi già sente le critiche degli scettici, e le previene: «Non voglio fare la parte del positivo, l’ottimista, evviva. Sto dicendo che qui c’è un pezzo di mondo che corre. La California produce il 50% del pil degli Usa, che è molto più grande del nostro, ed è generato dalle aziende nate qui. Allora mi chiedo: facciamo l’elenco delle aziende più grandi nate in Italia negli ultimi 20 anni? È più facile contare quelle andate via. Vogliamo avere solo uno sguardo di rassegnazione e ritiro, o vogliamo provare a trovare soluzioni innovative? Questo è il mio ragionamento». Quindi Renzi vorrebbe che il congresso del Pd discutesse queste idee, per riproporsi come forza di governo capace di dare un futuro all’Italia: «Io penso che il Pd sia una grande cosa. Ora fa notizia perché litiga, ma sta facendo una cosa bella: discute al suo interno e prepara un congresso democratico. La cosa strana è che in Italia lo facciamo solo noi. Gli altri hanno un modo diverso di agire, e di conseguenza noi facciamo notizia. Però è impossibile che questo dibattito nel Pd sia soltanto sulle regole, è cruciale e fondamentale che sia sulle idee. Perciò al Lingotto lavoreremo solo su questo. Penso al tema del terzo settore e del sociale, all’innovazione, ma anche a come si fanno le cose già esistenti, dall’università alla scuola. Credo che ragionando su quello che funziona e quello che non va, si possa scrivere una pagina nuova». Superfluo, quindi, chiedergli cosa pensa della candidatura di Emiliano alla segreteria, o la data delle primarie: «Non fatemi parlare più di politica, l’ho fatto già troppo. Cerchiamo invece di immaginare un futuro migliore per l’Italia».
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Rispunta il piano election day politiche e comunali l’11 giugno Lo spettro di primarie “nulle” 
L’ex premier accelera ma teme lo stallo: se nessun candidato raggiunge il 50%
il leader sarà eletto in assemblea con il rischio di un asse anti-Matteo

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
La data delle primarie il 9 aprile serve a cogliere due obiettivi. Risolvere in fretta il congresso «perché la discussione è cominciata già da tre mesi e il Pd ha bisogno di una guida legittimata al più presto», ha detto Matteo Renzi prima di partire per la California. Ma soprattutto permette di coltivare ancora il sogno delle elezioni anticipate a giugno. Per l’esattezza l’11 giugno, con un election day che comprende anche le amministrative. Un sogno o meglio una suggestione. «Una provocazione » la definisce un renziano. Eppure, nonostante l’evidenza dei fatti, Renzi vuole sempre “sognare”.
Per questo ieri, durante la riunione della commissione per il congresso, è rispuntata l’ipotesi del 9 aprile mentre è finita nell’ombra la data del 7 maggio, gradita da Michele Emiliano e Andrea Orlando, l’altro sfidante certo. Ma il 9 ha il pregio di tenere aperta la finestra elettorale di giugno. Più come messaggio all’intero sistema politico che come obiettivo davvero raggiungibile. Messaggio rivolto a tutti. Al governo di Paolo Gentiloni che proprio ad aprile è chiamato a varare una manovra correttiva sulla quale Renzi ha molti dubbi. E al Quirinale, che non gradisce il voto anticipato e semmai aspetta una correzione della legge elettorale. Ecco il punto: prima si elegge il segretario dem e prima gli altri attori della scena faranno i conti con lui.
Renzi ha studiato il calendario. Per votare l’11 giugno, le Camere andrebbero sciolte intorno al 18 aprile, ovvero il giorno dopo la Pasquetta. Possibile? È un salto carpiato triplo avvitato. Il nuovo segretario del Pd infatti entrerebbe in carica non il 9, ma il 13 o il 14 quando si celebrerà l’assemblea nazionale del Pd chiamata a ratificare l’esito dei gazebo. In soli cinque giorni, con il week end di Pasqua in mezzo, Paolo Gentiloni dovrebbe dimettersi e Sergio Mattarella firmare il decreto di scioglimento. Ci vorrebbero, dunque, numeri funambolici. Ma l’accelerazione c’è e ha una spiegazione di fondo. A Renzi importa poco che sia proprio lo scenario evocato dalla minoranza per motivare la scissione, ovvero che dietro lo scontro sulle date il vero traguardo sia chiudere l’esperienza dell’esecutivo Gentiloni prima del 2018.
Gia domani o sabato la direzione varerà il regolamento congressuale. La commissione lavora a rotta di collo sulla base delle vecchie regole. Il reggente Matteo Orfini fa sapere che anche la parte preliminare, le cosiddette convenzioni, potrebbero subire uno sprint. Se i candidati sono soltanto tre, non serve eliminare, attraverso il pronunciamento degli iscritti, altri sfidanti per le primarie aperte. La corsa si può fare. E quando il Pd avrà un segretario legittimato dal voto di milioni (ipotetici) di italiani, sarà difficile per il sistema fare finta di niente. O sfruttare l’attuale debolezza di un leader sconfitto al referendum, dimessosi da Palazzo Chigi e dal suo partito.
L’altra soluzione preferita da Renzi, il 23 aprile, toglie di mezzo il voto a giugno, ma risponde alla necessità di avere presto il leader del Pd. E di tornare a dare le carte. Sempre che l’ex premier vinca, ovviamente. La candidatura di Orlando viene vissuta molto male dal cerchio ristrettissimo dei renziani in collegamento con la California. Esorcizzata con un pronostico infausto per il ministro della Giustizia: «Arriverà terzo. Gli conviene?» E condita con un avvertimento non troppo sibillino: «Se arriva terzo, lo sa che i posti in lista per le elezioni sono riservati solo ai primi due?».
Questa è l’accoglienza per il Guardasigilli sui telefonini connessi con gli States. Ma i più attenti tra i renziani fanno anche altre osservazioni. «A meno che la candidatura di Orlando abbia un altro obiettivo finale: fare in modo che nessun candidato prenda il 50 per cento alle primarie ». In quel caso, che non è assolutamente da escludere, a scegliere il leader non saranno più i cittadini, ma i delegati nell’assemblea nazionale eletti con le liste collegate agli sfidanti. Alleanze e maggioranze verrebbero scombussolate. E un accordo tra Emiliano e Orlando butterebbe fuori Renzi da Largo del Nazareno. Con tutti i sogni delle elezioni a giugno e non solo.
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Tra pressing e tormenti al via i gruppi scissionisti ma non è la grande fuga 
Il dilemma del giovane Lattuca: “Mi sta scoppiando la testa” Non più di 20 i deputati, 13 i senatori. Nel nome “progressisti”

TOMMASO CIRIACO Rep
Telefonini staccati, sguardi sospesi, gastriti. E una domanda: «Ma tu ti scindi?». Cuore del Transatlantico, primo giorno dell’operazione “grande fuga”. I bersaniani si vedono poco, stanno pianificando il balzo fuori dal Pd. Sono pochi, per adesso. Una ventina, se va bene. Addirittura qualcosa in meno, mentre il “ragioniere” dello strappo Nico Stumpo brucia l’i-Phone a furia di martellare potenziali transfughi. È tutto un dubbio, un tentennare, un dissimulare: «Ho scritto al mio amico La Forgia - sussurra la renziana Alessia Morani - gli ho chiesto se molla per davvero». E lui cos’ha risposto? «Non ha risposto». Per paradosso va meglio al Senato, tredici firme già marchiate con il fuoco. Nel nome, il nuovo contenitore richiamerà un concetto caro a Giuliano Pisapia: “Progressisti”.
Per un giorno intero non si dà pace Enzo Lattuca, il più giovane deputato dal dna bersaniano. I giornalisti gli stanno addosso. «Non ho ancora deciso, mi esplode la testa a furia di rifletterci». Lo chiama mezzo mondo, perché potrebbe diventare a sorpresa capogruppo
(in alternativa si ipotizza Danilo Leva o Francesco Laforgia). Ma il territorio lo bombarda di sms. «Ho piena fiducia in te - scorre sul telefonino - Farai con sofferenza la scelta giusta». Non sempre funziona così. Alcuni sono costretti a rompere amicizie lunghe. «Compagni che stimo - premette Andrea Giorgis, fino a ieri capogruppo in pectore hanno deciso di lasciare il Pd, ma io non li seguirò ». Sornione, monitora i flussi il capogruppo Ettore Rosato. «Non giudico, rispetto tutti». Gli tocca interpretare anche i segnali. Un esempio? Michele Mognato - dato in uscita - si presenta a una riunione e nel dubbio viene depennato dalla lista degli addii.
Momenti difficili, ma senza pathos, perché tutti i rancori possibili hanno già solcato questo partito. Il volto sorridente di Alfredo D’Attorre lo dimostra: «Avevo scommesso sull’esplosione del Pd e ho vinto. E comunque penso che noi e i dem, divisi, faremo prendere più voti al centrosinistra». Davvero? «Ma certo - giura Gianni Melilla - come in molte separazioni: all’inizio è tosta, poi si pensa ai figli. I nostri sono i lavoratori e i cittadini».
Per adesso la sfida è soprattutto tra scissionisti delle due sponde. Il sogno è toccare insieme quota quaranta deputati, ma ancora non ci siamo. La pattuglia che si richiama all’ex sindaco - guidata da Arturo Scotto - è una falange: in 17 sono pronti ad andare via. Poi c’è Laura Boldrini, che andrà nel Misto. E della partita fanno parte anche due dem che stanno però con l’ex sindaco di Milano. I bersaniani invece fanno parecchia fatica: oltre ai big come Speranza, Bersani ed Epifani, ci sono altri dodici nomi certi. Più altri due - Toni Matarrelli e Michele Ragosta - che però sono amici di Pisapia. Gli indecisi li scuote invece Epifani: «Vieni con noi - è l’appello telefonico che ripete a tutti - ricostruiamo il centrosinistra e poi torniamo assieme, ma senza Renzi».
Senza Renzi, per adesso, bisogna scegliere un nome. Del riferimento al “progressismo” si è già detto, ci hanno ragionato ieri i big nella sede della Fondazione di Massimo D’Alema. A Bersani piacerebbe anche l’idea di giocare con “democratici”, comunque di richiamare le radici uliviste. Certo, “Progressisti e democratici” produce un acronimo improponibile: Pd. Enrico Rossi, a dire il vero, aveva rilanciato con “Democrazia e lavoro”, ma l’hanno stroncato: fa un po’ troppo anni Settanta. Ne riparleranno oggi, in un mega raduno delle truppe. Lunedì, poi, nasceranno i gruppi.
E poi c’è una storia nella storia. Sinistra italiana pare resista sul territorio, ma perderà 18 parlamentari su 31: un’ecatombe. Quel che resta del gruppo si raduna su un divanetto. «Ne resterà solo uno», scherza Giorgio Airaudo. «Come ai bei vecchi tempi di Depretis... », sorride Giovanni Paglia. Tutta colpa del trasformismo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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