"Settantasettini" si riferisce in generale a quelli che c'erano nel 77. "Reduci" sono poi i protagonisti come gli antagonisti, o viceversa. Sono già intervenute diverse persone con posizioni variegate e non vale la pena di catalogarle. Io comincio ad avere ricordi consapevoli dai campionati mondiali di calcio d'Argentina dell'anno successivo, ricordo Tardelli e Bettega, per fortuna [SGA].
venerdì 17 febbraio 2017
Reducismo di professione: ex settantasettini divenuti assai ricchi raccontano le canne di gioventù e la continuità della propria inclinazione reazionaria
"Settantasettini" si riferisce in generale a quelli che c'erano nel 77. "Reduci" sono poi i protagonisti come gli antagonisti, o viceversa. Sono già intervenute diverse persone con posizioni variegate e non vale la pena di catalogarle. Io comincio ad avere ricordi consapevoli dai campionati mondiali di calcio d'Argentina dell'anno successivo, ricordo Tardelli e Bettega, per fortuna [SGA].
Lama cacciato dall’ateneo di Roma Il Pci nel Palazzo, gli indiani in strada
Quarant’anni fa, mentre l’Italia sta per entrare nel periodo più cupo degli Anni di Piombo nasce l’ultimo movimento”rivoluzionario”, che chiuderà per sempre la stagione del ’68
Giovanni De Luna Busiarda 17 2 2017
Fatti una pera, Luciano fatti una pera»…Sulle note di Guantanamera fu questa la colonna sonora della «cacciata» di Luciano Lama dall’Università di Roma. Era il 17 febbraio 1977. Lama era segretario generale della Cgil, il sindacato più forte e organizzato. A cacciarlo furono gli studenti della Sapienza, diventata il centro della protesta contro la riforma avviata dal ministro Franco Maria Malfatti che minacciava di cancellare la liberalizzazione dei piani di studi in vigore dal 1968.
Il comizio di Lama avrebbe dovuto essere un confronto aperto tra due anime della sinistra che sembravano irriducibilmente contrapposte. A dispetto delle intenzioni degli organizzatori, però, la situazione degenerò subito: il servizio d’ordine dei sindacati caricò gli studenti che reagirono, in una rissa furibonda che lasciò sul terreno circa 60 feriti e un senso di profondo sbigottimento.
Tra quella giornata e il rapimento di Aldo Moro, tra il 1977 e il 1978, la violenza politica raggiunse il culmine. Furono giorni convulsi e spietati, affollati da immagini cruente (lo sparatore solitario di via Larga, a Milano, negli scontri che portarono all’uccisione dell’agente Custra, il corpo di Roberto Crescenzio, bruciato nel bar Angelo Azzurro, a Torino) che hanno a lungo legittimato la definizione di «anni piombo» riferita a quel decennio. Oggi, però, sotto la cappa plumbea di quelle uccisioni è possibile scorgere i lineamenti di mille altre storie. Alcune che finirono, altre che cominciarono.
Gli indiani metropolitani
Tra i protagonisti della cacciata di Lama a finire per prima fu proprio la storia del movimento del ’77. Troppe anime convivevano in uno spazio politico troppo esiguo. L’ala creativa degli indiani metropolitani a fianco ai duri dell’Autonomia operaia; le femministe che esaltavano i valori delle differenze di genere insieme ai difensori dell’egualitarismo e della centralità della classe operaia; l’impegno sfacciato per il soddisfacimento dei «desideri» individuali, insieme alle rivendicazioni per il soddisfacimento dei «bisogni» collettivi. Con l’assassinio di Moro, il terrorismo prosciugò tutto quello che poteva esserci allora a sinistra del Pci. La costellazione del ’77 si disintegrò e nella diaspora si intrecciarono i percorsi più diversi: la disperazione della tossicodipendenza, la ricerca di una nuova spiritualità religiosa, il ritorno nel privato e il rifiuto della militanza e, soprattutto, la resa al fascino delle armi, l’illusione tragica che la P-38 potesse sostituirsi a una totale mancanza di prospettiva politica.
Pure qualcosa rimase, soprattutto per quanto riguarda i linguaggi adottati da quel movimento. Gli sberleffi ironici («i lama stanno in Tibet», era la didascalia di un gigantesco pupazzo innalzato durante il comizio alla Sapienza), la rottura con il noioso lessico della sinistra tradizionale, la creatività di alcuni slogan anticiparono il modo in cui si sarebbe raccontata l’Italia «da bere» del decennio successivo. Le «radio libere» rivoluzionarono il modo stesso di fare comunicazione: i cronisti di Radio Alice, a Bologna, raccontavano le manifestazioni dall’interno, erano essi stessi militanti, pienamente coinvolti e in grado di trasmetterne tutta la carica emotiva. Alla mediazione pedagogica della Rai si sostituiva una narrazione senza filtri, anticipando il modello che avrebbe dominato nella televisione nei decenni successivi, fino alla «Vita in diretta» di oggi. Fu così per la pubblicità, fu così per il giornalismo.
Le fabbriche
Ma anche per l’altro dei due duellanti quella giornata assume oggi il carattere di una svolta. Nel ’77 il sindacato era al massimo del suo potere; da difensore legale del salario e delle condizioni di lavoro si era trasformato in un soggetto politico che sui temi della casa, della sanità, dei trasporti, della scuola, del territorio, era l’interlocutore privilegiato per qualsiasi governo e qualsiasi maggioranza. Pure, solo tre anni dopo, nel 1980, la sconfitta dei «35 giorni della Fiat» segnalò l’inizio di un declino sancito dall’esito rovinoso del referendum sulla scala mobile del 1985. Per quel sindacato che, nel ’69, sotto la spinta dei movimenti aveva affiancato alle tradizionali Commissioni Interne i nuovi Consigli di fabbrica, che aveva aperto con «i delegati» una nuova stagione della rappresentanza sui luoghi di lavoro, la scelta dello scontro frontale alla Sapienza («Via, via la nuova polizia», gridavano gli occupanti) fu come tagliare il ramo dell’albero su cui si era arrampicato.
Anche per il Pci - che fu in realtà il principale ispiratore della «sfida» di Lama - quel giorno finì un pezzo della sua storia. Contrasti duri con il movimento c’erano stati anche nel ’68. Allora, quelli del Pci, e del sindacato erano i «revisionisti». Specularmente, quelli del movimento erano gli «estremisti». Tutto restava però nel solco della tradizione novecentesca e queste definizioni appartenevano ai classici della letteratura marxista. Nel ’77 ci fu invece una rottura linguistica radicale: agli sberleffi si replicò con condanne senza appelli: «quelli del ‘77» erano feccia, «il fondo del barile», «diciannovisti» eredi dello squadrismo fascista. Fu una scelta consapevole: sotto la duplice spinta della «solidarietà nazionale» e della lotta al terrorismo il partito si fece compiutamente «Stato», ritirando la passerella gettata tra le istituzioni e i movimenti, rinchiudendosi nel «palazzo» descritto da Pasolini e candidandosi a essere travolto, insieme agli altri partiti, dalla grande slavina che avrebbe sancito la fine della Prima Repubblica.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
“In mezzo all’odio di quella piazza ho perduto le illusioni della gioventù”
Gianni Riotta si trovò da giornalista tra i contestatori alla Sapienza “Illusi di aver sconfitto ’il regime’, stavano andando verso il baratro”
Gianni Riotta Busiarda 17 2 2017
Nella primavera del 1977 avevo 23 anni, un anno dopo me ne sentivo addosso 40. Come un ragazzo, di mestiere capo della Cultura al quotidiano
Il Manifesto
, sia invecchiato tanto in dodici mesi, si capisce contando i passi che, dall’assalto del movimento 1977 al comizio del segretario Cgil Luciano Lama, a Roma, portano all’assassinio del presidente Aldo Moro, primavera 1978. L’Italia era perfino più confusa di adesso. Una Dc divisa tra cinismo di Andreotti e speranze utopiche di Moro si poteva votare solo, implorava Montanelli, «turandosi il naso»; il Psi di Craxi aveva idee nuove ma non alleati; il Pci di Berlinguer proponeva «l’austerità» a un paese che voleva crescere, deprecando a parole l’Urss ma votando contro la Nato in Parlamento e accusando i giovani di essere squadristi fascisti, «diciannovisti». La tv a colori era considerata, dal Pri di La Malfa, lusso decadente da proibire in una nazione grigio ferro.
Io mi sentivo come Franz Tunda, protagonista di un libro Adelphi tradotto nel 1976, Fuga senza fine di Joseph Roth: «Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo» e non ero il solo, la politica stuccava, la famiglia tradizionale a pezzi, le speranze del Concilio spente dal declino di papa Paolo VI. I ragazzi del movimento erano belli, i fotografi Lucas e D’Amico li riprendevano con ricci, bandiere, borse di Tolfa. I maschi erano vivaci, alla Zanardi nei fumetti di Pazienza, le ragazze dolci e dure, femministe come in Ricomincio da tre di Troisi, due eroi del tempo, presto volati via, da veri romantici.
La politica c’entrava poco, la futura senatrice Rina Gagliardi mi spiegava seria «Il 77? È uno stato d’animo». Non ero sicuro, a me sembrava pesasse la cappa della Guerra Fredda, da mio padre, cattolico, avevo imparato a detestare Stalin, Il Manifesto organizzò a Venezia d’estate il primo convegno «di sinistra», con l’intervento di autorevoli dissidenti sovietici, e ne fui felice. A rompere ogni illusione libertaria furono i «duri» del movimento, che al corteo dell’undici marzo, mettono a ferro e fuoco Roma, tra lacrimogeni della polizia e rivoltellate terroriste. Uno di loro, smilzo, col passamontagna nero, sfondava all’Altare della Patria una 500 con un piede di porco, di quelli a punta biforcuta cari a Gambadilegno. «È una 500!» gli gridai ingenuo, «macchina da pendolari». Soppesò l’arma, negli occhi sotto il cappuccio un lampo, volentieri mi avrebbe usato da bersaglio. Al liceo avevo incrociato Concutelli, neofascista poi killer del giudice Occorsio. Paura? Tanta, ma come il mio adorato principe Andrej Bolkonskij in Guerra e Pace ripetevo per farmi coraggio, «Paura? Io non posso avere paura». Mi tirò fuori Stefano Bonilli, cronista poi fondatore del Gambero Rosso, tirandomi via per il colletto senza complimenti pose fine al mio demenziale dibattito.
Quel 17 febbraio era in corso un’agitazione dei giornalisti – tutti erano sempre in sciopero, anche i diplomatici - e quindi i reporter erano tanti, in una chiara mattina, quando Lama, leader Cgil malconsigliato dal Pci, salì su un camion nel piazzale dell’Università romana per «Parlare agli studenti». L’ala «creativa», zoccoli Dottor Scholl’s e gonne a fiori, lo attendeva con pupazzi e slogan buffi, «Lama in Tibet», Autonomia operaia con le spranghe, un pugno di terroristi con la «baiaffa», revolver nel gergo della mala. Lotta Continua accusava Lama di rasoiare gli operai, «Lama-Bilama» recitavano vignette ironiche. La provocazione partì dal servizio d’ordine del Pci, una sventagliata di schiuma da un estintore. Erano ex edili, abituati a scazzottarsi con fascistelli pariolini, non si aspettavano la carica militare che li spazzò via inesorabile. A stento salvarono Lama. L’ateneo rimase agli occupanti, circondati da polizia e blindati. Gli studenti si illusero di avere inflitto al «regime» una sconfitta campale, gli Autonomi pensarono di avere in pugno l’Università, i terroristi reclutarono tra i più accesi militanti.
La foto di Tano D’Amico vede me reporter, unico a volto scoperto, ultimo a sinistra accanto alla povera Karmann Ghia spider. Pensavo, «È finita una sinistra. Altre ne verranno, questa è finita». Troppo sangue, troppo odio, presto troppi morti. Uscimmo nel pomeriggio, solo sventolando la tessera rossa dell’ordine.
Un anno, dopo i murales degli «Indiani Metropolitani» erano ingrigiti da smog e paura, io mi sentivo 40 anni. Carlo Rivolta, cronista di Repubblica morto a soli 32 anni, elegante come un divo con il trench beige, mi ammonì «Ti odiano, mi odiano, ci odiano: hai capito?». A 24 anni, forse, non avrei capito l’odio. A 40 acquisiti sì. Mi fu subito chiaro, per esempio, che le lettere di Moro dal carcere Br erano sue, e non mi accodai al coro ipocrita «Non è lui l’autore!». Una sera, alla trattoria Cesaretto, un amico mi chiese incredulo «Dunque se sapessi dove le Br tengono Moro chiameresti la polizia?». Sì risposi sereno, adulto per l’orrore visto in prima linea. L’amicizia finì davanti a quel quarto di rosso, per sempre. Non credete dunque ai diari nostalgici di questi giorni. Il 1977-1978 non invecchiò solo me, ma tutta Italia, e quel veleno, sottile, ancora vola in aria.
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