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L’ultimo treno dello Zar
Il primo giorno di marzo Nicola II è nella carrozza al binario dove abdicherà
EZIO MAURO Rep 1 3 2017
PSKOV L’ULTIMA reggia dell’ultimo Zar, nell’ultima notte, è quella carrozza salotto al centro del treno imperiale fermo nel freddo e nel buio del primo giorno di marzo 1917 sul binario di Pskov, dove giunge alla sua stazione finale la storia di una dinastia cominciata 300 anni prima. L’Imperatore della Russia è in viaggio dalle cinque del mattino dell’altroieri. Comandante in capo dell’Armata Imperiale al terzo anno di una guerra disastrosa era nella sua “ stavka”, il gran quartier generale dell’esercito a Mogilev, dove riceveva da giorni notizie allarmanti sui disordini in strada a Pietrogrado.
Quando lunedì un ufficiale cosacco gli ha fatto l’ultimo rapporto dalla capitale con l’incredibile notizia dei reparti dell’esercito scesi in piazza coi dimostranti (persino il fedelissimo reggimento Preobrazhenskij, che ha sempre avuto la sacra corona nelle insegne), ha deciso di tornare in famiglia e ha dato l’ordine di partire subito per la residenza imperiale di Zarskoe Selo, dov’erano i suoi. I ragazzi avevano la rosolia, tutti a letto, Alix l’imperatrice era preoccupata per lui, solo e lontano: «Tutto ci è avverso — scrive la Zarina in una lettera disperata al marito, portata per 274 chilometri da un corriere a cavallo — . E gli avvenimenti si sviluppano con una velocità folgorante».
La luce di due lampade è accesa nel vagone letto della Corona. Binari divelti, stazioni poco sicure, bande in movimento, voci confuse hanno consigliato al battaglione ferroviario un percorso alternativo per la sicurezza del Sovrano e del seguito che viaggia su un altro convoglio, il treno B. È un tragitto dall’impero al caos. Alle stazioni, dove arrivavano sempre i governatori locali per salutare lo Zar con l’inchino, adesso i ferrovieri non vogliono farlo proseguire, lo deviano da una destinazione all’altra e il conte Frederiks, ministro dell’imperial casa, gli racconta che è colpa di un ponte malandato e pericoloso. Infine si decide di cercare la protezione dello stato maggiore del fronte settentrionale, a Pskov, comandato dal generale Ruzskij. Arrivando, il treno si ferma per cautela al chilometro 1,8, quel punto della storia dove oggi — cent’anni dopo — tutto appare come allora, nel vuoto ingannevole della campagna. Non c’è una casa, solo le rotaie tra gli alberi e i cespugli. Forse Nikolaj II vide questa enorme garitta di legno vuota, con le finestre per controllare dall’alto, d’inverno, gli scambi e i binari che sembrano puntare infiniti verso la distesa di una Russia immutabile. Prima, quando la locomotiva si era fermata a Malaja-Viscera per far rifornimento d’acqua, lo Zar era sceso a passeggiare in uniforme, con il cappello a visiera e la fascia bianca sul petto. Per la prima volta non c’era nessuna Guardia d’onore. L’ultimo omaggio lo rendono ignari i contadini di Staraja Russa, che quando il treno rallenta passando alla stazione vedono lo Zar attraverso il finestrino, per un attimo, e si tolgono il cappello.
Adesso l’Imperatore guarda dal vetro gelato la stazione grigia di Pskov, le colonne e gli archi, e non sa ancora che questa sarà la sua ultima tappa reale, dopo 23 anni di trono. Fuori qualcuno ha acceso cinque fuochi sulla piattaforma, il riverbero rosso si mescola con la seta verde che ricopre le pareti del vagone. Gli ricorda il color malva del salotto dell’imperatrice, nel palazzo Aleksandr, i mazzi enormi di lillà nella sala d’angolo al Palazzo d’Inverno dove prima del ballo sfilavano marescialli di Corte e ciambellani decorati con la gran chiave d’oro, guardie a cavallo con l’aquila sul colbacco, lancieri in cremisi e ussari con gli alamari dorati, coppieri e gran scudieri, dignitari caucasici coi preziosi sul pugnale, in attesa che si aprisse la porta dei Romanov con l’annuncio di “Sua Maestà Imperiale”. Tutto questo finiva sul binario morto di una ferrovia che portava chissà dove nella notte russa, e in un vagone tre volte più piccolo del salotto di palissandro dove normalmente faceva colazione. Un divano, due poltrone, una sedia e una scrivania. Sopra, la penna con cui tra poche ore sottoscriverà l’atto di abdicazione firmando Nikolaj II, per grazia di Dio Autocrate di tutte le Russie.
Su quel treno finiva anche una tirannia, come la chiamavano i bolscevichi, certamente un potere assoluto, sordo e chiuso da tre secoli su se stesso, una dinastia che sposava con l’autocrazia più cieca la vocazione imperiale della Russia, un regno riluttante con un sovrano renitente fin dal primo giorno, spaventato com’era all’idea di una responsabilità a cui suo padre Alessandro III non l’aveva preparato e tuttavia convinto di essere strumento sacro di una missione divina. Finiva l’angoscia di una biografia reale terrorizzata da se stessa, dall’autoprofezia di sventura («sono nato nel giorno di Giobbe») ai segni nefasti che hanno accompagnato il regno, come la catena dell’Ordine di Sant’Andrea che gli scivola a terra proprio mentre suonano tutte insieme le campane delle centouno chiese di Mosca, quando sta per porsi in capo la corona, o come le porte chiuse del monastero della Trinità quando arrivano in visita i giovani nuovi sovrani, quasi che il beato Serghej, il santo più venerato di Russia, non li volesse accogliere.
Suggestione e realtà si uniscono infine in un destino funesto con la festa rituale dopo l’incoronazione, quando lo zar distribuisce alla popolazione doni, birra, dolci e pan pepato e la folla si accalca sul campo di Chodynka spingendosi fino a calpestarsi e soffocarsi, trasformando il battesimo imperiale in una tragedia sotto gli occhi di tutti. In un Paese in cui la tradizione dice che «lo Zar può essere soltanto sanguinario o insanguinato », il cammino reale di Nikolaj sembra segnato fin dall’inizio, anche perché incredibilmente la sera stessa il sovrano e la moglie partecipano al gran ballo in loro onore organizzato dall’ambasciatore francese, mentre la città conta 1.282 morti e più di diecimila feriti e i reali aprono le danze con la prima quadriglia. Finché, nove anni dopo, si arriva alla “Domenica di sangue”, il 23 gennaio 1905. Il pope Gapon guida migliaia di operai e contadini con le sacre icone e i ritratti dello Zar davanti al palazzo d’Inverno non per una ribellione ma per una supplica al Sovrano, chiedendo protezione per il popolo e denunciando le difficili condizioni in cui vive. Il pope garantisce che “batjuska” Nikolaj — lo Zar che è come un padre — li aspetta. Ma l’imperatore spaventato dall’Okhrana, la polizia segreta, ha lasciato il palazzo per Zarskoe Selo, le truppe aspettano la folla all’ingresso della piazza, sparano su uomini, donne e bambini, il massacro lascerà mille morti nella neve. Gapon giura davanti al sangue: «Vendichiamo i nostri fratelli, sia maledetto dal popolo lo Zar e tutta la sua genia di serpenti». «Dio mio — scrive Nikolaj nel suo diario — che dolore, che pena».
In una terra di superstizioni e prodigi lo Zar non cerca nemmeno di sfuggire alla leggenda del fato funesto che lo insegue davanti al suo popolo, con la Russia che vedendo per la prima volta la futura Zarina in lutto al funerale del padre di Nikolaj, stabilisce fin da quel momento e per sempre che «la morte l’accompagna». Conservatore ostinato fino al penultimo atto dell’autocrazia ricevuta dal padre come involucro di garanzia del potere imperiale, l’Imperatore si oppone ad ogni riforma (il nonno aveva abolito la schiavitù della gleba nel 1861) proprio per il dovere di consegnare intatta la potestà zarista assoluta e autosufficiente a suo figlio. Nello stesso tempo, e quasi per paradosso, rifugge agli sfarzi e ai riti di corte, con eccezione delle parate militari, preferendo rifugiarsi nella sua famiglia e ritornando semplicemente padre e marito, le due cose che probabilmente gli piacciono di più e sa far meglio. Con Alix l’Imperatrice ha un’intesa profonda, testimoniata da quei biglietti con una coroncina dorata in alto, su cui la Zarina scriverà al marito 653 lettere. «Mio amato, angelo caro — dice l’ultima, firmata la sera del 4 marzo in due copie, affidate per sicurezza a due cosacchi della scorta, Solovev e Gramotin, nascoste entrambe sotto la sella, — ho paura di pensare a quello che stai sopportando, è una cosa che mi rende pazza».
L’ha voluta sposare contro il parere dello Zar suo padre, nella freddezza del popolo per “la tedesca”, nell’antipatia della corte per una sovrana che la rifiutava e non concedeva confidenza, preferendo chiudersi in un misticismo religioso nevrotico pieno di segni, di auspici e di presagi coltivati e utilizzati dalla tonaca nera di Rasputin: ingigantendo da un lato il senso di colpa per l’emofilia (allora incurabile) trasmessa da Alix come “malattia dei re” allo zarevic Aleksej, e sfruttando dall’altro la tentazione della Zarina di muoversi come una seconda Caterina, manovrando gli affari di Stato. Ma adesso è sola nel palazzo di Zarskoe Selo, con “Baby” — come in famiglia chiamavano l’erede imperiale — che chiede notizie del padre e lei che risponde «Dio solo sa cosa sta accadendo», perché i telegrammi tornano indietro con la scritta blu “destinatario sconosciuto”. Quando esce di casa si accorge che i soldati non fanno più il saluto ai comandanti, fumano in faccia agli ufficiali, finché la guarnigione si ribella, coi suoi 40 mila uomini dal mantello grigio e l’antiaerea, si sentono spari vicino al palazzo e anche il canto della Marsigliese. Persino la Guardia d’onore dello Zar se ne va portando via le bandiere, quei soldati con le mostrine imperiali che Alix conosce per nome ad uno ad uno e che si facevano fotografare la domenica nel parco scambiandosi per gioco il saluto militare con lo zarevic. Terrorizzata, manda un messaggero dal Granduca Pavel per avere notizie e chiedere aiuto, ma il capitano quando scende da cavallo trova il palazzo spalancato, deserto, con la servitù in fuga. L’Imperatrice è persa nel vuoto di un impero che sta finendo, attorno a un trono ormai spoglio, con lo Zar lontano che sta per diventare semplice cittadino e lo zarevic malato che non sarà mai re, non raggiungerà ormai più l’eredità di quella maestà imperiale per cui era stato atteso e invocato per dieci anni dopo il matrimonio dei due sovrani, tra medici, santoni, voti, preghiere, suppliche e il Te Deum finale.
A quello stesso Dio si rivolge Nikolaj nel treno fermo sul binario imperiale dove consuma le sue ultime ore da Zar chiedendo aiuto al Signore per la moglie lontana, senza notizie, con le linee del telefono bloccate e i telegrammi che funzionano solo attraverso la rete delle ferrovie, con il macchinoso apparato Hughes. Il Sovrano attende ancora notizie dal generale Ivanov, l’eroe di guerra che sta viaggiando verso Pietrogrado con il battaglione San Giorgio, pronto a mettersi alla testa di reparti lealisti distaccati dal fronte con l’ordine di soffocare la rivoluzione. Ma il rapporto che il comandante della capitale Chabalov invia al generale è da bandiera bianca: asserragliate nell’Ammiragliato sono rimasti quattro compagnie della Guardia, cinque squadroni di cosacchi, due batterie di artiglieria, tutto il resto sta coi ribelli, con bande di soldati che girano la città per disarmare gli ufficiali e tutte le stazioni in mano agli insorti. A Kronstadt il vice-ammiraglio Kuros informa che non può contrastare la rivolta perché i suoi uomini se ne sono andati. L’ammiraglio Nepenin aggiunge che i marinai della flotta del Baltico si sono sottomessi alla Duma. A Mosca il comandante Mrozovskij spiega che i rivoluzionari hanno in mano la città e l’artiglieria è con loro, mentre il “gradonachalnik” (il governatore) è fuggito. Quei rapporti arrivano a Pskov, assediano il vagone imperiale fermo come una rappresentazione della fine.
Entra nel salotto ferroviario dello Zar il generale Ruzskij e lo invita a fare tutte le concessioni utili a salvare la corona davanti al precipizio: gli eventi non concedono scampo e non c’è più tempo da perdere. Mentre il suo mondo sta già crollando, L’Autocrate firma un “Manifesto” pronto da giorni, in cui concede ciò che non ha mai voluto concedere: un governo provvisorio «con la fiducia del Paese», un’assemblea legislativa che prepari una «nuova legge fondamentale per l’Impero». Ma il generale sa che a Pietrogrado tutto sta precipitando, e il “Manifesto”, non uscirà mai dal treno. Quando Ruzskij si consulta col Capo della Duma, Rodzjanko, capisce che tutto adesso è inutile: «È ormai chiaro — dice il Presidente — che nessuno di voi si rende conto di quello che sta succedendo. Ci troviamo di fronte ad una delle rivoluzioni più terribili che siano mai scoppiate. Le passioni popolari sono incandescenti, le truppe sono completamente demoralizzate e stanno trucidando gli ufficiali, l’odio per l’Imperatrice ha toccato il limite estremo. Quello che avete pensato è insufficiente e la questione dinastica esige una soluzione immediata». Un altro generale, il Capo di stato maggiore Alekseev, fa la mossa in più, decisiva. In una sorta di golpe telegrafico, invia un messaggio con l’ultimatum della Duma ai comandanti in capo di tutti i fronti, il caucasico, il rumeno, l’occidentale, alle flotte del Mar Nero e del Baltico, ponendo il tema dell’abdicazione dello Zar «per impedire la disgregazione dell’esercito e salvaguardare il futuro della Russia e della dinastia».
Nel primo pomeriggio di giovedì 2 marzo arrivano le risposte dai reparti in guerra che partono tutte, sempre, dal giuramento di fedeltà all’Imperatore per chiedergli in realtà subito dopo di abbandonare il trono: lo «implora in ginocchio» dal Caucaso il Granduca Nikolaj Nikolaevic, «per salvare la Russia e l’erede», gli rivolge una «sincera supplica dettata dall’amor di patria» il generale Brusilov aiutante di campo, mentre «l’infinitamente devoto suddito » generale Evert gli conferma che l’abdicazione «è l’unico mezzo per fermare gli orrori dell’anarchia ». Sono le due quando il generale Ruzkij mostra al Sovrano i dispacci militari. Parlano chiaro. L’esercito lo ha abbandonato e gli impone di lasciare la Corona al figlio, sotto la reggenza del Granduca Mikhail, com’è scritto nell’atto ufficiale preparato dal generale Alekseev. La profanazione è avvenuta, manca solo la risposta. «Ho acconsentito», scriverà Nikolaj II nel suo diario.
Soltanto due parole, già al passato, per siglare una tragedia personale accettata sperando inutilmente di fermare una tragedia più grande. Il dovere di fronte all’esercito, incarnazione della patria da difendere, è quello che più pesa sull’Imperatore. L’impotenza davanti al caos dominante lo sovrasta. Il monito della Zarina, scritto in una lettera, lo tormenta: «Tu sei l’Autocrate senza il quale la Russia non può esistere». Con l’educazione imperiale nella quale ha coltivato la sacralità dello scettro, per lo Zar è meglio rinunciare al trono che doverlo condividere con un parlamento: l’autocrazia si spezza insieme con la sovranità, perché è ciò che la rende un diritto- dovere divino, un obbligo morale nei confronti della dinastia passata e futura, un impegno religioso davanti alla Russia e alla storia. Nikolaj II può rinunciare ad essere Zar, ma lo Zar non può rinunciare ad essere autocrate. Con i telegrammi dei generali in mano, l’Imperatore non smette di fumare, poi si alza in piedi, sosta a lungo davanti al finestrino e infine si volta facendosi il segno della croce: «Ho preso la mia decisione, chiedo a tutti di servire sinceramente e lealmente mio figlio». Il conte Frederiks, che è anche capo della Guardia di Palazzo, vuol far arrestare i generali, l’ammiraglio Nilov invita lo Zar a resistere con ogni mezzo. «Non c’è altro da fare — risponde Nikolaj — . Tutti mi hanno tradito ». Ma la Duma chiede che due suoi emissari siano presenti alla firma dell’abdicazione e riportino il documento ufficiale a Pietrogrado. Bisogna dunque aspettare che arrivino dalla capitale i due delegati, Guckov e Sulgin, la Russia è grande, anche la fine deve attendere che le distanze tra i poteri si colmino.
Passano sei ore sulla piattaforma di quella stazione, a Pskov, dove la storia ha deciso che tutto doveva compiersi. E il sovrano, già dimissionario ma non ancora auto-deposto, rivela l’ultimo dubbio angoscioso della sua pena. Fa chiamare il medico di corte che lo accompagna, il dottor Fedorov, si chiude con lui nel vagone e affronta il segreto di Stato della malattia emofiliaca dello zarevic Aleksej: ha tredici anni, in quali condizioni riuscirà a regnare, quali rischi potrà correre, cosa si può fare per proteggerlo adesso che deve salire al trono? Non bisogna illudersi, risponde il medico, il male dell’erede è incurabile, avrà sempre bisogno di precauzioni straordinarie, ma il problema è che probabilmente suo padre e sua madre saranno esiliati e lui verrà separato da loro e dovrà provvedere da solo a se stesso. Il destino del padre e del figlio si toccano, nell’ultimo giorno, all’ultima fermata, nel buio del marzo di Pskov. Ufficialmente, soltanto una lapide sovietica appesa all’interno della stazione, davanti ai binari, ricorda che proprio qui si è deciso tutto perché qui si è incrociato il destino dei Romanov e della rivoluzione. Ma immediatamente fuori, se si entra nella “Cappella celeste” la storia si riapre e il cielo torna a toccare la terra come vuole la fede russa più antica. Tanto che la famiglia imperiale oggi è di nuovo al posto d’onore di fianco all’altare, disegnata come un’immagine sacra, riunita tutta insieme sotto la croce: con le vecchie che entrano, s’inchinano e la baciano cent’anni dopo, per poi pulire il vetro con lo straccio e con l’olio delle icone sante e benedette.
Ma quella notte del 2 marzo, tutto deve ancora avvenire, e adesso Nikolaj è solo davanti all’inevitabile che aspetta la sua ultima decisione sovrana. Il potere assoluto e l’impotenza finale si congiungono nella scelta. Nel gelo del binario, tra i fuochi accesi dai servitori di corte, lo Zar scende dal treno a far due passi con la “cerkeska”, il mantello grigio dei cosacchi, e vede arrivare le luci di una locomotiva che conduce una sola carrozza. Tende la mano ai due uomini della Duma che attendeva, li porta nel suo salotto, si siede accanto al tavolino accostato alla parete e li ascolta mentre con imbarazzo chiedono la sua rinuncia al trono, tormentando il cappello, coprendosi il viso con le mani. Il sovrano alza un braccio, li ferma: «Ho deciso di abdicare. Fino alle 3 di oggi pensavo di farlo a favore di mio figlio, poi ho cambiato idea a favore di mio fratello Mikhail. Spero, signori, che comprenderete i sentimenti di un padre ». Firmò il testo dattiloscritto su un modulo del telegrafo, concluse chiedendo «al signore Iddio di aiutare la Russia», scrisse l’ora in cui aveva preso la decisione da solo — le tre del pomeriggio — anche se ormai era mezzanotte appena passata. Fingendo di averlo siglato alle due, quando ancora era l’Imperatore, consegnò agli uomini della Duma il decreto di nomina del nuovo Capo del governo, il principe L’vov, come gli avevano chiesto. Guckov se ne andò stupito di non vedere «l’ombra di un’emozione» in un uomo «dai nervi d’acciaio» ma «con una diminuita capacità di percezione». In realtà non era così. Quando restò solo, spogliato dalla corazza della regalità, Nikolaj ebbe il tempo per fare i conti con il sentimento finale della giornata più tremenda della sua vita, annotandolo sul diario: «Sono partito da Pskov con una penosa sensazione, mi sentivo un sopravvissuto. Attorno a me tradimento, viltà e inganno ». In più, un incrocio della storia che l’ultimo Zar non poteva conoscere: proprio a Pskov aveva scelto di abitare Lenin, dopo la fine del suo esilio a Susenskoe.
Mikhail, spaventato, dirà no alla Corona su richiesta della Duma che lo incontra alle undici del giorno dopo, a casa della principessa Putjatin a Pietrogrado, da dove uscirà a mezzogiorno la rinuncia del Granduca che invoca «la benedizione del Signore » e prega tutti i cittadini (non più sudditi) della Russia «di sottomettersi al governo provvisorio», lasciando il trono zarista definitivamente vuoto. La monarchia dei Romanov finiva così in un appartamento borghese di via Millionny, al numero 12. Proprio mentre il treno imperiale lentamente e finalmente poteva muoversi, compiuto il destino dell’ultimo zar. Correndo sui binari che tagliavano la neve per tornare a Mogilev dal quartier generale e soprattutto dall’Imperatrice Madre — in realtà verso l’incognito — Nikolaj ora dormiva a lungo, dopo aver letto un libro su Giulio Cesare. Come ha scritto Vasilij Rozanov nell’Apocalisse del nostro tempo, si era così sbriciolato un mondo: «L’impero si è letteralmente disintegrato un giorno feriale, un mercoledì qualunque. Dio ha sputato e ha spento la candela ».
4. Continua. Le puntate precedenti sono uscite il 9 dicembre 2016; il 13 gennaio e il 3 febbraio
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