Comincia finalmente la presidenza di Donald J. Trump. Con cinque settimane di ritardo, The Donald ha cambiato tono nel suo primo discorso al Congresso. Da ieri è il presidente degli Stati Uniti. Prima è stato qualcosa di diverso: il capo del suo popolo contro l’establishment di Washington.
Ma mentre vincere le elezioni contro l’establishment si è dimostrato possibile, fare il presidente contro la propria maggioranza al Congresso sarebbe una scelta suicida. Per attuare almeno alcune delle riforme che ha promesso, Trump ha bisogno dell’appoggio repubblicano alla Camera. Da ieri, sta tentando di guadagnarselo. Il vero interrogativo è se si tratti di un nuovo inizio o di una falsa partenza.
Gli osservatori di Washington parlano di un accordo fra Steve Bannon, consigliere principe di Trump alla Casa Bianca, e Paul Ryan, speaker della Camera dei rappresentanti a maggioranza repubblicana. Dopo cinque settimane alquanto erratiche, la Casa Bianca ha deciso di venire a patti con il Congresso. Da parte sua, la guida parlamentare di un Grand Old Party in crisi esistenziale ha deciso che, per mantenere la maggioranza repubblicana nel 2018, ha bisogno di una presidenza che funzioni. Trump è al tempo stesso troppo forte e troppo debole per essere abbandonato al proprio destino. Vedremo nelle prossime settimane se l’intesa reggerà. Dai toni del discorso al Congresso, si può prevedere che Trump resterà fedele a se stesso sui punti che potremmo definire «identitari» (Muro con il Messico, sicurezza interna, etc) mentre assumerà posizioni più pragmatiche e convenzionali in politica estera, incluso il valore della Nato come deterrente nei confronti della Russia. Il perno della cooperazione con il Congresso sarà di tipo economico. Sarà cioè concentrato sulla riforma fiscale, con la de-regulation del settore finanziario e la riduzione delle tasse sulle imprese; e sulla ricerca di alternative alla Obamacare. La cosa, come noto, appare tutt’altro che facile, viste anche le divisioni esistenti fra i repubblicani. Ma in un discorso di tono presidenziale e a tratti emotivo, Trump ha evitato come il diavolo i dettagli. Lo schema delle riforme economiche resta vago anche su un punto decisivo per i repubblicani «fiscalmente conservatori»: come evitare che il grande progetto di investimenti nelle infrastrutture proposto da Trump non si traduca, insieme allo stimolo fiscale, in un deficit federale fuori controllo. La soluzione, per ora, non è neanche sulla carta. Trump ha parlato in modo generico, ma al tempo stesso molto più ottimista che in passato, di nuovi spazi creati dalla crescita potenziale, dal rimpatrio delle imprese americane e da dazi – ma questa parola non è mai stata usata - sulle importazioni. È una ricetta a metà, che combina un po’ di liberalismo alla Reagan a un po’ di nazionalismo economico alla Trump. La scommessa del leader dei Repubblicani è che il primo volto prevalga sul secondo.
La convinzione dei Democratici, naturalmente, è che Trump non potrà che restare fedele a se stesso. Il candidato «jacksoniano» (definizione storica del populismo americano) non riuscirà insomma ad evolvere; e le sue parole presidenziali resteranno delle parole. La polarizzazione è tale, nell’America di oggi, da rendere impossibile qualunque compromesso, anche su temi come gli investimenti nelle infrastrutture. Per i Padri fondatori del sistema costituzionale americano, questa frattura del sistema politico sarebbe impensabile. Ma è una realtà che rispecchia la divisione della società, in un clima culturale che mescola il basso gradimento per Trump ad elementi di contestazione in stile Anni 60, a sberleffi reciproci degli avversari sui «social network» e al tifo da stadio. Esiste qualche lenimento possibile?
Il «candidato del popolo» contro tutti deve essere ormai il presidente degli Stati Uniti. Non a caso ha cominciato la sua evoluzione dal Congresso, il primo organo menzionato dalla Costituzione americana per servire il popolo sovrano. Se questa evoluzione terrà, Trump potrà anche evitare di ripetere uno degli errori principali compiuti da Obama durante la sua presidenza – lo scarso coinvolgimento delle due Camere.
I prossimi mesi ci diranno se il cambiamento di stile inaugurato dal discorso al Congresso sarà anche un cambiamento di sostanza. All’America, e anche all’Europa, converrebbe. Per ragioni storiche, interne e internazionali, l’analogia con Reagan è forzata. L’America non è affatto quella che Jimmy Carter lasciò a Ronald Reagan all’alba degli Anni 80: è un vantaggio per Trump ma esistono dubbi legittimi sul funzionamento dello stimolo fiscale in una situazione di quasi piena occupazione. Esiste, come ovvio, un’altra differenza importante con l’epoca Reagan: invece che alla guerra fredda con la Russia, Trump sembra guardare piuttosto al confronto economico con la Cina. Ma è un’analogia che aiuta comunque a sottolineare un punto essenziale per capire il nuovo Presidente: il suo livello di ambizione economica è particolarmente alto. Ed è quello che conta, insieme all’euforia di una Borsa americana che guarda all’evoluzione della presidenza, insieme alle scelte della Federal Reserve. La riuscita o il fallimento di Trump si misureranno, in tempi brevi, sull’economia. Il Congresso sarà decisivo; dopo avere vinto contro l’establishment di Washington, The Donald ne ha vitale bisogno per non perdere la sfida della presidenza.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
La svolta di Trump: “Ora serve unità”
Nel primo discorso a senatori e deputati il presidente apre ai repubblicani moderati e anche ai democratici Fra le promesse, demolire l’Obamacare: spazio agli investimenti in infrastrutture, come voleva HillaryFEDERICO RAMPINI Rep
«Pensate alle meraviglie che possiamo realizzare se liberiamo i sogni del nostro popolo». Donald Trump in versione solare. Nel suo primo discorso al Congresso a Camere riunite, abbandona i toni dark, parla perfino di speranza come faceva un certo Barack Obama. «E’ finito il tempo in cui si pensava in piccolo. Le contese meschine sono alle nostre spalle». Legge al teleprompter, non attacca i media, tutti lo trovano presidenziale: è la prima volta a 40 giorni dal suo insediamento. Bandita la parola “carneficina” (di persone uccise dalle gang, o di posti di lavoro maciullati dalla globalizzazione) che aveva usato a ripetizione nell’Inauguration Day.
Dietro la novità di stile c’è anche un po’ di sostanza. Trump offre dei “deal”, degli affari, un po’ a tutti: certo alla sua maggioranza repubblicana, ma c’è anche qualcosa per l’opposizione democratica, e per gli alleati europei (sia pure in un discorso dove in 60 minuti la politica estera è quasi del tutto assente). Anche se i democratici in aula devono fare muso duro perché la base vuole un’opposizione a oltranza, Trump gli lancia subito due temi di comune interesse. «Mille miliardi di investimenti in infrastrutture», è un obiettivo simile ai programmi elettorali di Hillary Clinton e Bernie Sanders. E grazie a Ivanka Trump fa capolino il «congedo parentale retribuito », roba da welfare europeo ma raro privilegio nelle aziende americane, un’altra idea che proponeva Hillary. C’è perfino un accenno – molto vago – ad una «riforma positiva sull’immigrazione» che secondo i più ottimisti può preludere a qualche tipo di sanatoria per alcune categorie di immigrati irregolari, magari selezionando i più qualificati. C’è una promessa di «aria e acqua pulita», un sorprendente slogan ambientalista, difficile da conciliare con lo smantellamento dell’Environmental Protection Agency. Fumo verde negli occhi?
Agli europei Trump regala un inatteso disgelo sul tema delle spese militari. Aveva polemizzato più volte su quel Patto Atlantico dove il grosso degli oneri li sostengono i contribuenti americani mentre gli europei si godono una sicurezza pagata da altri. Adesso annuncia che il suo messaggio è stato ricevuto dagli europei «e già stanno affluendo nuovi finanziamenti ». Non è vero, ma chi se ne accorgerà? Trump canta vittoria, dichiara missione compiuta, tanto i suoi elettori non controllano.
Ai parlamentari repubblicani riserva il grosso dei suoi regali. C’è ovviamente la demolizione della riforma sanitaria di Obama («un disastro che sta implodendo»), un tema sacro per il Tea Party e la destra più oltranzista. Al posto di Obamacare? «Più scelta, meno costi, e cure migliori». Bingo. Fosse così facile. E’ dai tempi di Lyndon Johnson, 1964, che ci provano tutti e nessuno ci riesce. Dietro la vaghezza dei propositi spunta quel che piace ai repubblicani: ulteriore privatizzazione di un sistema già ultra-privato. Deducibilità fiscale a fronte delle tariffe assicurative esose: un sistema che favorisce i redditi medioalti.
«Massiccio sgravio fiscale». Qui siamo in pieno revival di Ronald Reagan. Dolce musica per le orecchie dei repubblicani. E tuttavia è proprio su questo terreno che i lavori parlamentari riservano incognite e pericoli. Tasse e spese le vota il Congresso, non il presidente. C’è una robusta ala di falchi anti- deficit nella destra, che nel 2011 e 2012 arrivarono vicini a paralizzare il bilancio federale e strapparono da Obama varie misure di austerity tra cui i tagli automatici, a pioggia, una mannaia che non risparmia neppure le spese militari. A costoro bisognerà fare ingoiare il «riarmo più grande della storia » nonché il maxi-piano per ammodernare le infrastrutture fatiscenti. I mercati vogliono credere che Trump farà un miracolo, e il Dow Jones ha polverizzato ieri il nuovo record storico, superando la barriera dei 21.000 punti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessun commento:
Posta un commento