domenica 2 dicembre 2012
Ancora sugli accademici italiani e le leggi razziali
di Angelo d’Orsi
il Fatto 1.12.12
Paesi che hanno attraversato i totalitarismi novecenteschi hanno
affrontato tutti il trauma della transizione democratica. Che fare di
coloro che si erano compromessi con i passati regimi? In Italia le cose
sono andate in modo morbido, non per una sorta di originario carattere
degli italiani – bontà, allegria, leggerezza, generosità, virtù che
potrebbero anche essere lette come sciatteria e pressappochismo; la
causa fondamentale fu politica, e legata al desiderio di Togliatti di
pacificazione, per ricostruire il paese in una sorta di larghe intese
con il mondo cattolico, largamente compromesso con il fascismo.
Risultato? A differenza della Germania che avviò un ripensamento
dell’esperienza, in Italia una poderosa amnistia lavò con i crimini
anche la coscienza.
NONDIMENO ciò che non è stato fatto dalla politica è stato compiuto, sia
pure lentamente, dalla storiografia. L’ultimo risultato in ordine di
tempo emerge da un libretto di Barbara Raggi (Baroni di razza. Come
l’università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi
razziali, con prefazione di Pasquale Chessa, Editori Internazionali
Riuniti), un lavoro che, va detto, non ha tutte le carte in regola sul
piano scientifico, ma interessante e vivace, che affronta, in modo un
po’ random, le vicende relative ad alcuni personaggi coinvolti, sia pure
non direttamente nelle vesti oscene dei carnefici, nella politica
razziale dal 1938 in poi. Ma, sottolinea la Raggi, impietosamente, e non
sempre con argomenti del tutto persuasivi, essi furono colpevoli allo
stesso modo. Soprattutto l’autrice mette il dito non tanto sulle loro
colpe, quanto su quelle dell’accademia italiana, che con grande
prontezza raccolse quei suoi “figli” sottoposti ai rigori
dell’epurazione, almeno nei suoi primi tempi, prima che ci si ponesse
una pietra su.
Il libro si sofferma su alcune figure, quali Giacomo Acerbo, Nicola
Pende, Gaetano Azzariti, Sabatino Visco, Antonino Pagliaro, Alessandro
Ghigi e qualche altra comparsa. Si tratta di esponenti di varie
discipline, da quelle giuridiche a quelle biologiche, tutti coinvolti, a
partire dal ’38, o nella teorizzazione del razzismo, o nella sua
applicazione pratica, o ancora nella gestione dei provvedimenti di
discriminazioni volti a “salvare” gli ebrei o per meriti “patriottici”
(provvedimenti assai ridotti di numero), o a dichiarare “non ebrei”
coloro che certificavano variamente di esser tali, in un umiliante
esercizio di autonegazione. La realtà è che larga parte del mondo
universitario, fra protagonisti e comprimari, fu coinvolta nella
politica razziale del fascismo, e anzi sulle “teorie” della razza si
costituirono carriere accademiche, con apposite cattedre, riviste,
trattati.
UNA DISCUSSIONE priva di qualsivoglia valore scientifico, che, a
dispetto di dispute accanite, tra studiosi obnubilati nel cupo cielo del
razzismo, finì nel nulla; ma i suoi effetti pratici nondimeno furono
esiziali, per le vite, i beni, la dignità delle persone. Ripercorrere le
tappe di questo cammino verso l’abisso è già di per sé un utile
esercizio (morale, non soltanto intellettuale), ma più innovativo è il
libro quando racconta le astuzie di costoro che, giustamente cacciati
dall’insegnamento (talora addirittura condannati a lunghe pene detentive
o addirittura a morte), vi rientrarono ricorrendo a un tessuto di
complicità nel mondo universitario. Fu la logica del cane non mangia
cane. E questa barricata autocorporativa fu persino più forte della
volontà politica. Il caso di Giacomo Acerbo valga per tutti: autore
della famigerata legge che diede ai fascisti minoranza in Parlamento la
maggioranza assoluta dei seggi, relatore del d. l. del 1938 che
istituiva in luogo della Camera dei deputati quella dei Fasci e delle
Corporazioni, ministro, fu presidente del Consiglio superiore per la
demografia e la razza, nel cui ambito elaborò un concetto di razza fatto
per piacere insieme al duce e alla Santa Sede, pubblicando nel ’40 un
inconfondibile Fondamenti della dottrina fascista della razza. Ma Acerbo
ebbe la buona sorte di votare contro Mussolini nella notte fatale del
25 luglio. Ciò gli valse sì la condanna a morte al Processo di Verona ma
anche da parte dell’Alta Corte italiana; sfuggito alla prima,
amnistiato dalla seconda, ingaggiò un lungo braccio di ferro con la
Commissione per l’epurazione e con lo stesso ministero della Pubblica
Istruzione per essere reintegrato. E la vinse, grazie precisamente al
sostegno unanime della sua facoltà (Economia) e della sua università (la
Sapienza). Alla torta fu poi il presidente della Repubblica Antonio
Segni ad aggiungere una ciliegina, conferendo nel 1962 al prof. Acerbo
la medaglia d’oro per i “benemeriti della scuola”.
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