Il filologo denuncia l'oligarchia finanziaria. E difende De Felice
domenica 28 aprile 2013
Luciano Canfora è diventato socialdemocratico negli anni Settanta
Luciano Canfora: Intervista sul
potere, Laterza
Canfora, l'antico gioco del potere che avvicina Pericle e Angela Merkel
Il filologo denuncia l'oligarchia finanziaria. E difende De Felice
Il filologo denuncia l'oligarchia finanziaria. E difende De Felice
di Paolo Franchi Corriere 27.4.13
Storico del mondo antico, filologo classico, saggista e dotto polemista,
Luciano Canfora non ha bisogno di presentazioni ai lettori del
«Corriere della Sera». Per scrivere di questa bella Intervista sul
potere in uscita per Laterza, e delle risposte che vi dà alle domande
(spesso puntute, mai corrive) di Antonio Carioti, più che soffermarsi
sulla sua biografia politica e intellettuale, è forse il caso di tenere
ferme due sue affermazioni di carattere generale.
La prima riguarda lo «sforzo di chi scrive la storia», che, a giudizio
di Canfora, «deve consistere nel capire le ragioni di chi viveva allora,
non nel giudicare il passato secondo i criteri di oggi». La seconda
concerne quel «pensiero analogico» che Canfora trova rispettabilissimo
fin da quando, sedicenne, lesse le pagine in cui Tucidide descrive come
un regime democratico, nell'Atene del V secolo a.C., si suicida votando
in assemblea i provvedimenti destinati a esautorarlo, nei giorni stessi
del suicidio della Quarta Repubblica francese di fronte a quello che, ai
suoi occhi di sostenitore convinto della democrazia parlamentare, resta
ancora «il colpo di Stato» del generale Charles de Gaulle. A rendere
utile e magari necessaria la ricerca di un nesso «non velleitario» tra
vicende storiche di epoche diverse, sostiene Canfora, non è tanto
l'immutabilità della natura umana, quanto piuttosto la ripetitività
delle dinamiche politiche.
L'assunto è, fuor di dubbio, interessante. Anzi, affascinante. Anche se
molte delle tesi sostenute sulla sua scorta nell'intervista curata da
Carioti, che spazia in modo affascinante dall'antichità greca e romana
alla crisi italiana dei nostri giorni, passando per la rivoluzione
americana e soprattutto quella francese, Napoleone, il Risorgimento,
l'Ottobre sovietico, Gramsci, Stalin, Roosevelt, il fascismo, il
nazionalsocialismo e molto altro ancora, non sono sempre, almeno agli
occhi di scrive, convincenti.
Cito (volutamente) alla rinfusa. Davvero la Cina attuale è un
«gigantesco nazionalsocialismo»? Davvero Giovanni Paolo ha incarnato il
«socialismo feudale» di cui parlò Karl Marx? Davvero Enrico Berlinguer e
il suo Pci si mossero entro quell' orizzonte socialdemocratico che fin
dagli anni Settanta (con buona pace di chi lo considera un
veterocomunista) Canfora considerava acquisito e imprescindibile?
Davvero, per contestare i limiti (o peggio) della costruzione europea,
si può tracciare un parallelo tra il disegno a suo modo (e che modo!)
«europeista» di Adolf Hitler e la politica di Angela Merkel?
Queste e altre consimili affermazioni, con tutto il loro ricco corredo
storico e filologico, restano delle più o meno felici provocazioni
intellettuali. Che però hanno l'indiscutibile merito di provare a farci
ragionare fuori dal chiacchiericcio e da schemi ideologici deboli e già
consunti prima ancora di essere compiutamente formulati. Un esempio per
tutti. Si può discutere, e del resto da tempo si discute, sulla tesi
secondo la quale la rivoluzione russa e quella cinese sono state
soprattutto le forme assunte dalla modernizzazione in quegli sterminati
Paesi. Non si può, o non si dovrebbe, più mettere in discussione né il
fatto che siano state tappe essenziali di una storia che non è finita,
con buona pace di Francis Fukuyama, nel 1991 (senza Ivan il Terribile e
Pietro il Grande non si capisce Stalin, senza Stalin non si capisce
Vladimir Putin; e ci sarà pure un motivo se l'icona di Mao Zedong
sovrasta tuttora indiscussa la Cina) né il nesso che le lega ad altre e
opposte rivoluzioni del Novecento (il fascismo e, soprattutto, il
nazismo) così come a Roosevelt e al New Deal.
«Nessuna esperienza storica può essere valutata come se fossimo il
padreterno con intorno gli angeli del giudizio universale. Vale per il
fascismo come per il comunismo», dice Canfora ricordando gli «attacchi» e
le «strumentalizzazioni senza senso» di cui fu oggetto Renzo De Felice,
reo di aver studiato il fascismo come era giusto che fosse,
rifiutandosi cioè alla logica di un «giudizio monolitico e uniforme»: e
su questo è davvero difficile non convenire.
Qualche parola, infine, sulle conclusioni cui giunge Canfora. Secondo il
quale il rapporto, sempre conflittuale, e comunque incerto e instabile,
tra democrazie e oligarchie volgerebbe ormai tutto a vantaggio delle
seconde, giacché sarebbero organismi non democratici, ma tecnici, legati
al grande potere finanziario sovranazionale, a dettare le regole e le
finalità stesse del gioco: inutile sorprendersi se, in un simile
contesto, dilagano populismi vecchi e nuovi (grillismo compreso) nei cui
confronti, peraltro, Canfora non dissimula un profondo fastidio
politico e intellettuale.
Per quanti, non pochi, elementi di verità questo giudizio contenga (chi
scrive resta convinto del fatto che il divorzio tra la sinistra, la sua
storia e il suo popolo rappresenti da decenni uno dei più potenti
fattori di crisi democratica), il suo catastrofismo, e anche il suo
carattere semplificatorio, balzano agli occhi. È vero, Canfora non si
sottrae affatto al realismo, anzi, si chiede pure perché mai, di fronte a
elezioni che hanno consegnato a ciascuno di loro grosso modo il 25 per
cento dei voti, non solo il Pd e il Pdl, ma pure il Movimento 5 Stelle,
non facciano insieme un governo. Ma è, in fondo, una domanda retorica. I
perché, o almeno i suoi perché, li conosce benissimo. E in questo libro
li ricostruisce. Passando attraverso non venti, ma duemilacinquecento
anni e passa anni di storia.
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