martedì 25 giugno 2013

Paolo Franchi, ex redattore di Rinascita, e un esempio di paragone storico ad minchiam

a proposito dell’intervista di Casaleggio su La Lettura del Corsera di domenica scorsa

Nell'era digitale come ai tempi di Lenin la democrazia diretta resta un'utopia

di Paolo Franchi Corriere 25.6.13

Nell'intervista rilasciata a Serena Danna per la Lettura, Gianroberto Casaleggio indica alcuni testi di riferimento indispensabili, a suo giudizio, per capire la rivoluzione digitale. Prometto che li leggerò. Ma mi permetto pure di suggerire a Casaleggio di leggere, o di rileggere, Stato e Rivoluzione. È ovvio, tra l'agosto e il settembre del 1917, quando scrisse questo pamphlet (un mito per generazioni di giovani rivoluzionari, un testo a dir poco imbarazzante per generazioni di funzionari di partito), Lenin la rivoluzione digitale non poteva neanche immaginarla. Ma la democrazia diretta, quella che, secondo Casaleggio, grazie alla Rete riuscirà finalmente a imporsi su scala planetaria, gli stava a cuore, eccome. L'imminente dittatura del proletariato avrebbe avuto nei Soviet, il suo organo di governo, anzi, di autogoverno. Nell'assemblea dei Soviet (il futuro Soviet supremo) la funzione esecutiva e quella legislativa si sarebbero combinate. E tanti saluti all'assenza di vincolo di mandato: ogni collegio elettorale avrebbe avuto il diritto insindacabile di revocare in qualsiasi momento i propri rappresentanti. Per questa via, alla lunga, lo Stato si sarebbe estinto. E nel frattempo anche una cuoca avrebbe potuto, e dovuto, imparare a gestirlo. Magari a rotazione.
Intendiamoci. Le purghe staliniane non erano già scritte in Stato e Rivoluzione. E può darsi benissimo che, quasi un secolo dopo, la rivoluzione digitale apra alla democrazia diretta prospettive più luminose. Ma forse sarebbe bene ricordare, per sommi capi, come andò a finire in quella circostanza non propriamente secondaria nella storia del mondo. Già sette mesi dopo la rivoluzione d'ottobre i menscevichi e i socialisti rivoluzionari furono espulsi dai Soviet. Per un breve periodo vi furono riammessi, nei giorni più difficili della guerra civile contro le armate bianche. Poi ne furono di nuovo e definitivamente cacciati, e di loro cominciò ad occuparsi attivamente la Ceka. Nel febbraio del 1921 i marinai rivoluzionari di Kronstadt insorsero per rivendicare il ripristino della democrazia sovietista, la fine dello strapotere bolscevico, la libertà di parola e di associazione per tutti i partiti socialisti (degli altri partiti, ovviamente, non si parlava nemmeno). A reprimerli nel sangue provvide Leone Trotzkij, che di lì a una ventina d'anni sarebbe stato a sua volta assassinato. Delle fortune dell'autogoverno dal basso negli anni di Stalin — anche se milioni di uomini che vivevano e soffrivano fuori dai confini dell'impero continuavano a pensare all'Urss come al «Paese dei Soviet» — è ovviamente inutile dire. Quanto a quelle della cuoca e delle sue ambizioni di governo, Nikolaj Bucharin avanzò i suoi dubbi, chiamiamoli così, già nell'aprile del 1918, sul Kommunist. Lenin aveva scritto cose giustissime, ci mancherebbe: «Ma cosa accade quando per ogni cuoca c'è un commissario nominato per darle costantemente degli ordini?».
Intendiamoci di nuovo. Casaleggio e Beppe Grillo con Lenin e Stalin, Trotzkij e Breznev, non c'entrano nulla. Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non comprendere che la crisi incalzante (di legittimazione, di rappresentanza, di decisione) della politica da una parte, la Rete dall'altra hanno determinato, e sempre più determineranno, su scala mondiale, uno scenario letteralmente inedito, e potenzialmente sconvolgente. Rapidamente cambiano tutti, ma proprio tutti, i paradigmi sulla cui scorta abbiamo ragionato sin qui, e indietro (per dire: alla politica orgogliosamente «separata», ai grandi partiti di massa, ai giornali di un tempo) non si torna. Chi si ferma è perduto, avrebbe detto quel tale. Solo che non basta camminare, e nemmeno correre. Bisognerebbe avere un'idea ragionevole (e, se possibile, democratica) su dove si vorrebbe arrivare: a quali società, a quali istituzioni, a quali forme di organizzazione del consenso, e magari anche del dissenso. La storia, in proposito, come sempre non ci insegna nulla. Più precisamente: ci insegna, o dovrebbe insegnarci, quali trappole sarebbe meglio, molto meglio evitare. L'ideale della democrazia diretta universale, tanto nobile quanto irrealizzabile nella sua versione anarchica, in tutte le altre versioni, compresa quella di Casaleggio è, temo, una di queste.
Molti dei perché li ha esposti, sul Corriere, Augusto Barbera, che pure non è né un conservatore né un nostalgico della vecchia politica; e, prima ancora, Stefano Rodotà, che non è «un ottuagenario beneficiato dalla Rete», secondo la graziosa definizione di Grillo, ma uno che sul complesso rapporto tra Rete e democrazia ha molto da insegnare a chiunque. Qui vorrei proporne solo uno ulteriore, suggeritomi dall'intervista di Casaleggio. Secondo il quale «il concetto di leadership è estraneo alla democrazia diretta», tanto è vero che i movimenti che la praticano sono per definizione leaderless, senza leader. In molti casi, come quello, citato da Casaleggio, di Occupy Wall Street, è vero. In altri, come quello a noi più vicino del Movimento Cinque Stelle, no. La leadership c'è, eccome, e gli eletti del movimento vi sono legati da un vincolo inscindibile, quasi mistico, mettendo in discussione il quale si autoconsegnano al ruolo dei traditori: ma nessuno sa, può o vuole dire da chi, come e quando sia stata conferita, né se sia contendibile, e in quali forme. I congressi del Pcus, a paragone, erano dei modelli di democrazia.  

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