martedì 25 giugno 2013
Il partito che più ha redistribuito ricchezza verso l'alto si sorprende per la disuguaglianza in Italia
La disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è un fattore recessivo
L’economia ferma dei troppo ricchi e troppi poveri
di Carlo Buttaroni l’Unità 24.6.13
Per
il premio Nobel Joseph Stiglitz, quando le disuguaglianze sociali
crescono, s’innesca una spirale negativa. Nei Paesi dove i ricchi sono
sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri il prodotto interno lordo
tende a decrescere. Quando si afferma una grande «classe media»,
invece, la prosperità si diffonde.
Stiglitz, analizzando il caso
degli Stati Uniti, rileva come nei due periodi storici in cui l’1% dei
ricchi è arrivato a concentrare nelle proprie mani il 25% della
ricchezza complessiva è poi scoppiata una terribile recessione. È quanto
accaduto sia nel ’29 che nella crisi esplosa nel 2008. Due crisi,
diverse nelle origini e negli effetti, ma unite significativamente dal
fatto che, alla vigilia di entrambe, la polarizzazione della ricchezza
aveva raggiunto quella che sembra sempre più una soglia che diventa
molto pericoloso oltrepassare. Ancora, nel corso del 2010, quando
l’intera nazione americana era nel pieno della battaglia contro la
crisi, la piccolissima percentuale di popolazione super-ricca continuava
a guadagnare il 93% del reddito aggiuntivo creato nel frattempo dalla
fragile ripresa (da questa spaventosa disuguaglianza nasce nasce il
movimento Occupy Wall Street, all’insegna dello slogan «Siamo il 99%»).
Il
problema principale di tutte le economie avanzate e altamente
industrializzate, secondo l’analisi di Stiglitz e Krugman, è
rappresentato dalla debolezza della «domanda aggregata», cioè la domanda
di beni e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso.
Premesso che la porzione di reddito spesa per l’acquisto di beni e
servizi è, per forza di cose, maggiore nei redditi bassi, la
diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è diventata un problema
strutturale. Questo perché non è semplicemente un portato delle forze
del mercato, ma dipende dalle scelte di politica economica che,
incentivando le rendite finanziarie e sfavorendo gli investimenti
produttivi, hanno orientato le scelte imprenditoriali e industriali in
tale direzione. Meno investimenti produttivi significano un’economia
meno dinamica e meno florida, minata alla base delle sue prospettive di
crescita. A risentirne, inevitabilmente, è la «struttura» produttiva di
un sistema Paese, cioè la sua «economia reale».
I DUELLANTI
L’analisi
di Stiglitz è una bomba lanciata nelle retrovie neo-liberiste che
partono dall’assunto opposto, e cioè che le diseguaglianze non inficiano
in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto i
patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genera un cosiddetto
«effetto a cascata», che dai vertici della piramide fa discendere la
ricchezza fino ai livelli più bassi, portando un arricchimento generale e
una maggiore crescita. E quanto più lo Stato rimane estraneo a questo
processo «naturale», liberamente guidato dalle spontanee forze
economiche, tanto maggiore è il vantaggio che ne traggono l’economia e
lo sviluppo del Paese (idea alla base della deregulation dei mercati
finanziari, ed economica in generale). Stiglitz ritiene, invece, che il
prodotto interno lordo dei paesi segnati dalle maggiori diseguaglianze
nella distribuzione complessiva della ricchezza cresce con grande
difficoltà e discontinuità, andando incontro a veri e propri crolli. Il
motivo di questo fenomeno non risiede nella moralità del pensiero
egualitario, ma in un ben individuato meccanismo economico chiamato
propensione al consumo. Contrariamente a quanto generalmente si crede,
infatti, nei ricchi tale propensione è più bassa, mentre il vero motore
dei consumi è il ceto medio, non solo perché rappresenta una platea più
ampia, ma anche perché è portato a convertire in consumi una percentuale
proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito rispetto ai
ricchi. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi delle
economie avanzate per far ripartire l’intera economia (insieme a un
aumento delle esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che
favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza e il
rafforzamento della classe media. Esattamente l’opposto di quanto
avvenuto finora.
Oltretutto la crescita della disuguaglianza coincide
con il depotenziamento della cittadinanza sociale e della
partecipazione politica che, fino a vent’anni fa, in Italia come in
Europa, era considerata un traguardo dello status inclusivo proprio del
ceto medio. Ci ha pensato la crisi a spazzare via questa speranza, con
il risultato che anche la democrazia si è indebolita nelle forme e nei
contenuti.
Adesso viene da chiedersi cosa altro serva per avere la
consapevolezza della necessità di politiche completamente diverse,
redistributive ed espansive, in grado di far ripartire la domanda
interna? Quali ulteriori prove occorrono per comprendere l’urgenza di
politiche per il lavoro fondate sulla qualità sociale, sui diritti che
sostengano le famiglie e il ceto medio? E chi è più visionario: chi
pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada del «rigore»
con road map irrealizzabili o chi ritiene come Stiglitz emolti
economisti premi Nobel che occorre mettere al centro politiche
economiche che superino i paradigmi hanno portato alla situazione
attuale? Se è vero che la crisi parte da lontano e affonda le radici
nella globalizzazione, è altrettanto vero che ciò che la nutre non è
l’interconnessione planetaria, ma l’arretramento della politica dal
governo dalle grandi questioni economiche e sociali. Ed è anche su
quest’aspetto che Stiglitz, Krugman e altri economisti, più o meno
indirettamente, affondano le loro critiche. Aver sottoposto i cittadini a
sofferenze incredibili sulla base di teorie e scelte politiche
sbagliate.
D’altronde l’inizio del nuovo capitalismo finanziario
mondiale prende avvio agli inizi degli anni 70 con la scelta (politica)
del governo statunitense di sospendere la convertibilità in oro del
dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del
1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Fu quello il fischio
d’inizio della fase espansiva delle teorie iperliberiste, ispirate al
pensiero di Milton Friedman che, negli anni 80, hanno trovato
interpretazione nelle politiche conservatrici di Ronald Reagan e
Margareth Thatcher, centrate sulla deregolamentazione del mercato, la
privatizzazione delle aziende pubbliche, l’alleggerimento della
struttura statale e dei sistemi di protezione sociale. La famosa
deregulation, cioè l’abbandono del mercato da parte dello Stato,
lasciandolo quindi libero di trovare il proprio punto di equilibrio,
autoregolandosi, autolimitandosi e autocomponendosi. La promessa è stata
mancata, ma gli effetti di quell’impostazione si fanno sentire, con il
ritiro della politica dall’economia, dalla produzione, dall’occupazione,
de-territorializzando i processi economici staccati sempre più dalle
grandezze reali dell’industria. Processo, questo, che ha lasciato spazio
alle dimensioni finanziarie della ricchezza, senza che queste abbiano
necessità di passare attraverso investimenti nelle attività
imprenditoriali e industriali, separando la finanza dalla produzione e
assegnando all’economia una dimensione prima cartacea, poi telematica.
La rottura della relazione tra capitale e lavoro è stata una conseguenza
inevitabile. Come inevitabile è stato il progressivo distacco
dell’economia dal territorio e dalla dimensione nazionale, che di quel
legame ha sempre costituito l’aspetto politico. Negli anni 80 ha preso
avvio un processo di progressiva indipendenza dell’economia finanziaria
dal palinsesto pubblico e in particolare dallo stato e dalla legge. Un
processo presto diventato insofferenza per la politica, il territorio, i
confini, il limite, la legge e il diritto: elementi avvertiti come
ostacoli al consolidamento del potere della finanza. Una finanza che, in
questi anni, ha preteso sempre più «mano libera», rivendicando il
potere di invadere i mercati con un rovesciamento dei rapporti di forza
non solo tra capitale e lavoro ma anche tra capitalismo e democrazia.
È
questa la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente
uscire dalla crisi: dare uno stop alle politiche del rigore che
alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario.
Occorre il coraggio di rovesciare i paradigmi che hanno guidato le
scelte di politica economica negli ultimi anni, mettendo al centro la
questione sociale, il lavoro, i diritti. E per fare questo è necessario
un passo avanti della politica. Forse occorre persino una nuova Bretton
Woods. E questa sì, sarebbe una rivoluzione.
I grafici sono tratti da
«Dati del Rapporto BES 2013, il benessere equo e sostenibile in Italia»
realizzato dall’ISTAT e dal CNEL.
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