lunedì 28 ottobre 2013

Il prof. Ginsborg è tornato agli studi storici


Dopo aver rinunciato a portare la sinistra italiana al potere assieme a Marco Revelli, per fortuna [SGA].

Paul Ginsborg: Famiglia Novecento, Einaudi pagg. 684 euro 35

Risvolto
Dall'unica donna nel governo rivoluzionario di Lenin, Aleksandra Kollontaj, alle denunce futuriste di Marinetti della famiglia come null'altro che una tenda beduina; dalla battaglia di Mustafa Kemal contro la famiglia tradizionale musulmana agli sfollati della guerra civile spagnola e alla famiglia «modello» nazista di Joseph Goebbels: un percorso comparativo di straordinaria forza che racconta le vite memorabili di donne e uomini di fronte ai terribili avvenimenti novecenteschi.

Questo libro stabilisce un collegamento costante tra la storia della famiglia e la piú ampia e drammatica storia della prima metà del Novecento. Finora nessuna storia del XX secolo aveva posto al centro della propria analisi la famiglia né aveva esaminato i momenti chiave della rivoluzione e della dittatura attraverso le lenti della vita familiare. Ginsborg attinge a un repertorio sterminato di fonti e letture per mettere insieme immagini e storie che fotografano le dinamiche familiari e il loro contesto sociale e politico. Coniugando storia sociale, narrazione biografica e storia della cultura, Ginsborg concentra la sua indagine comparativa su cinque paesi: la Russia, nel passaggio dall'Impero allo Stato sovietico; la Turchia, dall'Impero ottomano alla Repubblica; l'Italia fascista; la Spagna della rivoluzione civile; e la Germania, da Weimar allo Stato nazista. Costruendo ogni capitolo come una piccola biografia di un personaggio emblematico - da Halide Edib e Margarita Nelken, ad Aleksandra Kollontaj; dal gerarca nazista Goebbels al futurista Marinetti e al comunista Gramsci - lascia intravedere sullo sfondo la vita familiare degli stessi grandi dittatori - Stalin e Hitler ma anche Atatürk, Franco e Mussolini. Emerge un quadro in cui le risorse delle famiglie - affetti, rete, solidarietà, segreti e lealtà - si fanno sentire anche quando il loro mondo sembra totalmente schiacciato dai regimi dittatoriali.
       

Le mutazioni familiari
Intervista a Paul Ginsborg «Un’altra lente per la Storia»


Lo storico anglo-italiano racconta la sua ultima sfida: una nuova lettura culturale dei grandi eventi nella prima metà del ’900 in Europa «Esiste per me una catena d’oro che lega una famiglia non familistica, una società aperta e uno Stato sano»
intervista di Rachele Gonnelli l’Unità 27.10.13


LA STORIA DEL NOVECENTO HA TANTE DECLINAZIONI. C’È LA STORIA DIPLOMATICA, POLITICA, SOCIALE, DI GENERE, QUELLA DELLE DONNE, E COSÌ VIA. MA LA STORIA DELLA FAMIGLIA FINORA È STATA LARGAMENTE TRALASCIATA. Paul Ginsborg per spiegare il perché di questa dimenticanza «non so se si può parlare di dimenticanza o forse di una vera e propria cecità, perché diamo la famiglia per scontata» racconta la risposta avuta da una sociologa spagnola. «Mise le mani a rete sugli occhi e mi disse: vedi, siamo così vicini alla famiglia che non riusciamo a vedere attraverso la grata».

Ginsborg per la verità, a cui piace intervallare grandi affreschi storico-culturali a microstorie (Salviamo l’Italia è del 2010), ha da sempre messo al centro della sua indagine questo attore sociale. E del resto uno dei suoi primi lavori è stato L’Italia del tempo presente, dedicato ai rapporti tra famiglia, Stato e società in Italia negli anni 80 e primi 90 del secolo scorso. Ora si pone un obiettivo più ambizioso «probabilmente il mio più ambizioso», ammette che è mettere la grande Storia novecentesca, della prima metà del secolo, la più travagliata sia per gli individui sia per gli Stati-nazione, sotto la lente delle dinamiche familiari. Il libro uscirà tra circa un mese, sempre per Einaudi, e parlerà non solo dell’Italia principale campo di ricerca dello storico inglese trapiantato in Toscana ma anche di altre quattro nazioni nei momenti più tragici e epocali, di più profonda trasformazione: la Russia dei soviet, la Turchia di Ataturk, la Spagna della guerra civile, la Germania dell’avvento del nazismo. Non si tratta di una ricerca archivistica, ma piuttosto di un vasto lavoro basato su metodologie diverse, da quella comparata al diritto di famiglia, dalla letteratura alla pittura, dai diari alle corrispondenze epistolari. Concentrando l’attenzione anche sulle vicende di alcuni personaggi storici di secondo piano, da Alexandra Kollontaj a Joseph Goebbels, «scelti per quello che hanno scritto sulla famiglia o per storie familiari particolarmente affascinanti».

La famiglia come campo d’indagine. Perchè questa scelta?
«Mi sono dato il compito di rimettere, o meglio di mettere per la prima volta, tutte le tematiche della famiglia in rapporto con la Storia con la esse maiuscola, in modo da far emergere le caratteristiche di fondo delle grandi trasformazioni che hanno interessato gli Stati-nazione nella prima parte del ’900. Credo sia fondamentale riuscire a connettere la famiglia con la società civile e questa allo Stato. È ciò che si può chiamare la “catena d’oro”. Serve una famiglia che non si chiude agli interessi solo della famiglia in sé, in conflitto con le altre, serve poi una società civile che offra possibilità di esprimersi in associazioni e azioni collettive e serve uno Stato sensibile a queste domande sociali, non clientelari, per una redistribuzione della ricchezza, che è il problema principale del nostro tempo. Purtroppo la sinistra ha stentato molto a capire l’importanza di questa connettività, di questa catena d’oro. Il primo convegno sulla famiglia del Pci data 1964, tardissimo. Invece di riflettere sul ruolo e la funzione della famiglia per decenni si è delegato il tema ai democristiani di turno. La famiglia in Italia e in Europa troppo spesso è stata preda del familismo. La sua strategia rischia di fermarsi ai suoi consumi, alle sue vacanze, a priorità ristrette. Invece di connettersi alle associazioni della società civile, di occuparsi almeno in minima parte dei grandi temi brucianti del secondo ’900 come l’ambiente, l’equità e anche le responsabilità verso l’altra sponda del Mediterraneo, come si vede dalle tragedie dei migranti di questi giorni». Anche lei pensa che la famiglia sia l’istituto immanente, unica malta di una società frantumata?
«Dipende dal tempo che si prende in esame. La famiglia in Europa nella prima metà del ’900 era semplice, dominata da problemi di sopravvivenza, dovendo reggere a livelli di violenza statale e non senza precedenti come durante la Prima guerra mondiale, le guerre civili, le carestie. Aveva un livello di connettività più forte e esteso, penso alla famiglia mezzadrile o alla famiglia padana delle lotte bracciantili dei primi del secolo. Oggi è una famiglia long and thin, lunga, dove i figli restano per tanto nella casa dei genitori, e ristretta, dove trionfano strategie famigliari basete troppo spesso sul consumo e sulla passività. A volte penso che la condizione della famiglia italiana oggi sia persino drammatica. Perché c’è un esercito di disoccupati giovani e anche di disoccupati di mezz’età senza mezzi di sussistenza che sono sempre più dipendenti dalle famiglie. Sono impressionanti le cifre della diminuzione del risparmio familiare negli ultimi cinque anni. Significa che si stanno prosciugando la pensione e il tesoretto del nonno, le riserve messe da parte negli ultimi 40-50 anni, per sostenere figli e nipoti. Non so quanto ancora il sistema della famiglia italiana possa resistere. Finite queste risorse i figli e i nipoti potrebbero passare dalla passività alla rabbia. Come nella Germania degli anni ‘29-33 quando di fronte alla pressione di questa massa di disoccupati, quando le famiglie non ce la fecero più, la rabbia fu incanalata verso l’ebreo, il rom, l’omosessuale».
La famiglia è ritenuta responsabile nel male e nel bene di gran parte dei caratteri tipici degli italiani. Ma soprattutto del familismo patriarcale, da cui si dipana non solo l’arretratezza della condizione femminile ma anche il clientelismo e in un ultima istanza la mafia. Anche per lei è questo Giano bifronte?
«Sì, penso sia un’espressione corretta. È un luogo di forti passioni, grandi generosità fra generazioni e grandi egoismi. Con la restrizione del mercato del lavoro e l’approfondirsi della crisi che dura ormai dal 2008 gli elementi criticabili come il familismo e le clientele, che fanno riferimento a obiettivi strettamente a breve termine di una famiglia singola contro le altre, si vanno rafforzando».
Dal Risorgimento al fascismo agli anni Settanta, non è forse che a ogni vero mutamento sociale abbiamo assistito a una scomposizione e ricomposizione della famiglia?
«No. Nel Risorgimento come dice Tancredi nel Gattopardo tutto doveva cambiare per rimanere uguale. È anche vero che molte grandi figure risorgimentali avevano situazioni familiari insoddisfacenti o inesistenti, da Mazzini a D’Azeglio allo stesso Cavour. L’unico con una famiglia diciamo “normale” era Daniele Manin. Si dedicavano alla causa e non alla famiglia, questo è vero. Nel fascismo il quadro interpretativo è però totalmente differente, il regime è subordinato alla Chiesa cattolica che pretende e ottiene con il Concordato l’affermarsi del modello cattolico della famiglia in ogni angolo della penisola. Negli anni 60 e 70 del ’900 è ancora diverso. I giovani meridionali lasciano la casa per trovare impiego nelle grandi fabbriche fordiste del Nord e mutano priorità: dalla famiglia all’amicizia. Ma è una parentesi. Negli anni 80, quelli del postmoderno, tutte le fratture si ricompongono e di nuovo la famiglia torna al primo posto. Perché la trasformazione immaginata non si è realizzata. Il ’68 pur avendoci lasciato tracce bellissime, con le sue aspettative di trasformazione della società e anche dei legami interpersonali, è una sconfitta e una chimera, sia in Europa che negli Usa. E si torna indietro. Anche allora la sinistra, più o meno radicale, non riflette sulla famiglia. A partire dalle teorizzazioni di David Cooper sulla morte della famiglia c’è chi sperimenta nuove forme del vivere insieme, per una nuova connettività: le comuni. Ma sono esperimenti falliti in tutti i Paesi nel giro di 5-10 anni. Non ho simpatia politica e culturale per queste teorizzazioni. Ciò che è rimasto da quella battaglia generazionale è una maggiore libertà sessuale dei figli e un modello di famiglia rinegoziato».
Anche il berlusconismo riguarda la famiglia. Nel senso che la lascia più sola davanti alla tv?


«È complicato. Diciamo che il berlusconismo ha rafforzato il modello che veniva dagli Usa negli anni 80, per rafforzarlo lo ha interpretato potenziando il modello di famiglia basato sul familismo e sul clan. Vorrei dire che la famiglia non è più sola di prima ma ho paura che sia così»

105 27-10-2013 l' unita' 21 



Un saggio di Ginsborg racconta la vita quotidiana tra rivolte e regimi, inclusa quella degli stessi tiranni

Novecento La famiglia che resiste ai cataclismi di un secolo
di Simonetta Fiori Repubblica 9.12.13


Per Marinetti era un’istituzione “assurda” e “preistorica”. Quasi sempre un carcere. Una “grottesca pigiatura di anime e nervi”, di cui liberarsi al più presto. La moglie, però, andò a cercarsela nella buona borghesia piemontese, le chiese la mano alla maniera di un signorotto dell’Ottocento — invocando tutti i suoi avi più lontani — mandò le figliole dalle suore a Trinità dei Monti e impedì loro di frequentare artisti bohémien. Un caso isolato, quello dell’inventore del futurismo?
Proviamo ad affacciarci in Spagna, più o meno negli stessi anni. Ecco la bella Margarita Nelken, teorica della rivoluzione nella vita pubblica e privata. Credeva nel libero amore e fino alla fine gridò il suo furore contro “l’ipocrita farsa” della famiglia borghese: quella stessa che faticosamente aveva messo in piedi e poi tanto le sarebbe mancata, in uno dei quartieri più eleganti di Madrid. E la povera Inessa Armand, protagonista dell’emancipazione femminile nella Russia infuocata dalla rivoluzione? Alla fine s’adattò al ruolo dell’amante, molto compianta da Lenin dopo la prematura morte, ma pur sempre subalterna nella convenzionale triangolazione con la paziente moglie Krupskaja.
La famiglia? Difficile abbatterla o scioglierla in una forma di vita sociale superiore, ancora più complicato invaderne i confini fagocitando segretezza, amore, amicizia. Non ci riuscirono le più grandi rivoluzioni del Novecento né i totalitarismi che in qualche caso ne scaturirono. Fallirono dittatori e leader carismatici, splendide amazzoni della libertà sessuale e ardenti teoriche di nuove relazioni sentimentali. Ne furono sconfitti anche i movimenti libertari, sperimentando presto a proprie spese che un ambiente affettivamente senza legami aggrava le pene d’amore anziché curarle. Se dovessimo trovare un filo conduttore per le quasi settecento documentatissime pagine che Paul Ginsborg dedica all’istituzione famigliare nella prima metà del Novecento, uno potrebbe essere proprio questo: qualsiasi utopia anarchica, progetto sovversivo o ideologia rivoluzionaria sono destinati ad arrestarsi sulla soglia di casa. Perché a smentirli interviene o la realtà storica realizzata, oppure — più banalmente — gli stessi comportamenti personali dei protagonisti, quasi tutti obbedienti a una inesorabile legge: rovesciatori d’altari in pubblico, tradizionalisti nel privato (Famiglia Novecento, Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, traduzione di Emilia Benghi, Einaudi).
È un affascinante racconto storico, denso di paradossi e contraddizioni tra legislazione e vita reale, quello che affiora da decennali studi sul campo di Paul Ginsborg. Un ampio affresco che copre popoli e culture assai variegate - Russia, Turchia, Italia, Spagna, Germania - colti sempre in un momento di drammatica transizione, tra rivoluzione e dittature del secolo scorso. Un lavoro innovativo che riporta in primo piano un soggetto ingiustamente escluso dalla storia. Gli esiti di questo sguardo capovolto? La conclusione dello storico inglese — e non mancherà certo discussione — è che nessuno dei regimi novecenteschi, neppure il più terribile, può essere definito totalitario, proprio perché non riuscì mai a essere così “onnicomprensivo” e “distruttivo” nei confronti delle famiglie. Nessuno, insiste Ginsborg, eguagliò il livello di controllo fisico e mentale descritto da George Orwell. Ci si avvicinarono i nazisti e Stalin, più distanti Mussolini e Franco, ma c’è sempre una zona che resiste. Momenti di “privacy e intimità”, “codici segreti”, “strategie e solidarietà” che sfuggono al controllo del tiranno.
E a proposito di tiranni, il merito dello studioso è anche quello di aver tuffato il naso nelle loro complicate vicende familiari. Dietro ogni dittatore si nasconde sempre un figlio unico di padre assente e madre iperprotettiva, condannato a un destino di orfano precoce. Da qui l’invocazione costante di una stabilità familiare, che è innanzitutto funzionale al nuovo ordine imposto, ma anche il riflesso di una fragilità patita in gioventù. Una corrispondenza che spaventa nel caso di Stalin, tra tutti il bambino più sfortunato, traumatizzato da un padre alcolista e dalla reclusione penitenziale in un collegio ortodosso russo. Il modello distruttivo sarebbe stato poi trasferito dalla famiglia di origine a quella procreativa e ancora all’intera società sovietica. Ma se Stalin è «il più terribile dei patriarchi», Hitler è quello che riuscì a esercitare sulla vita famigliare la maggiore capacità di controllo, essendo la Germania la più moderna tra le nazioni analizzate. Per le “buone famiglie tedesche” non ci furono particolari problemi, almeno fino alla guerra. Ma per tutte le altre, liquidate come “estranee” o “inferiori”, era pronta la macchina dell’orrore.
La palma del tradizionalismo spetta al Generalissimo Franco, per cinquantadue anni marito fedele, l’unico che possa fregiarsi del titolo di buon padre di famiglia. Della sua, naturalmente. Nonostante l’aspetto flemmatico, “quel bel tomo del Caudillo” — così lo sfotteva Galeazzo Ciano, che però sarebbe durato assai meno di lui — fu uno dei più spietati nei confronti degli avversari e delle loro famiglie, a cui fu impedito perfino di seppellire i cadaveri dei loro cari. Il caso spagnolo è tra i più interessanti anche per il contrasto tra fervore rivoluzionario e mentalità machista. LaCostituzione repubblicana del 1931 introdusse il divorzio assai prima che in Gran Bretagna e in Francia (per non dire dell’Italia), un atto rivoluzionario nella cattolicissima Spagna. Ma poi, quando si trattò di dare il voto alle donne, anche da sinistra qualcuno suggerì che sarebbe stato meglio concederlo solo a quelle in menopausa.
Studiare la famiglia significa studiare i rapporti di genere, costantemente soggetti a una doppia marcia: da un lato le norme dei vari codici, dall’altra la vita famigliare reale, che molto spesso contraddice le disposizioni più illuminate. Difficile che le due velocità possano coincidere. Non accadde in Spagna, ma neppure nella Russia bolscevica. Aleksandra Kollontaj, l’unica donna che sedette nel governo di Lenin, fu anche la sola a riconoscere nella sessualità una tematica rivoluzionaria. “Eros alato”,lo chiamava, tra i sorrisi sarcastici dei compagni. Lo stesso Lenin non ne assecondava il libertarismo sentimentale, anche perché i rivoluzionari marxisti — ad eccezione di Antonio Gramsci — raramente si sono posti tante domande sulla famiglia. Però le idee della Kollontaj avrebbero influenzato nel 1918 la nuova legislazione sulla parità femminile, ben più avanti dei codici occidentali ma più tardi smentita clamorosamente dalla storia.
E l’Italia del fascismo? Più delle confuse politiche di Mussolini — sintetizzate da Gadda nell’ossimoro della “virile vulva” — agì sulla società italiana il rassicurante magistero della Chiesa cattolica. Il nuovo codice civile fu partorito in ritardo, soltanto nel 1942, distinguendosi non certo per eguaglianza tra coniugi ma per gli articoli antisemiti. Più dirompente al confronto la legislazione di Atatürk, che ruppe nel 1926 con le prassi ottomane e islamiche garantendo alle donne alcuni rivoluzionari diritti, almeno dentro il matrimonio. Ma il grande fautore dell’emancipazione femminile nella vita privata preferiva amanti remissive. E alla domanda su cosa apprezzasse di più nelle sue compagne, il padre della patria turca era solito rispondere: «La loro disponibilità».

Vita di famiglia
Il «privato» fa la storia del Novecento: uno studio di Paul Ginsborg Un progetto ambizioso che inserisce l’istituto familiare nella grande storia, e lo mette in relazione con le politiche, le idee, le ideologie, le utopie rivoluzionarie e reazionarie che hanno attraversato la prima metà del ’900di Jolanda Bufalini

IL DESTINO DI MILIONI DI FAMIGLIE DURANTE LA GUERRA CIVILE RUSSA CHE, «per orrori e perdite di vite umane superò la prima guerra mondiale»; quello di altri milioni nel tragico passaggio dall’impero ottomano alla Turchia moderna. La guerra civile spagnola, la Germania di Weimar e l’ascesa di Hitler, le famiglie «approvate» e quelle escluse ed eliminate, il fascismo della tassa sul celibato. Famiglia Novecento di Paul Ginsborg illumina un aspetto sorprendentemente trascurato dagli studi storici sul XX secolo, immettendo l’istituto familiare nella grande storia. Ginsborg riferisce il gesto della sua amica sociologa madrilena Elisa Chulià a spiegare il perché nella gran parte degli studi storici la famiglia rimanga dietro le quinte: «Si è portata le mani al volto intrecciando le dita a formare una grata davanti agli occhi». Grate, persiane, tende, persino, vengono in mente, gli specchi da cui le beghine olandesi guardavano ciò che accade in strada al riparo della loro casa.
L’operazione, portata avanti con una complessa metodologia comparativa, è tirare fuori la famiglia dalla dimensione domestica per metterla in relazione con le politiche, le idee e le ideologie, le utopie rivoluzionarie e reazionarie che hanno attraversato la prima metà del 900, le stesse tensioni fra individui e famiglia di provenienza, i mutamenti straordinariamente potenti nel passaggio dal mondo contadino all’industrializzazione: la Germania hitleriana è il paese più moderno del tempo, la popolazione è urbanizzata, le ragazze lavorano e amano la vita indipendente, la natalità è bassa. Eppure l’ideale propagandato dal regime con i suoi formidabili mezzi di comunicazione è rurale. La famiglia ideale, rappresentata in un olio di Adolf Wissel nel 1939, è incorniciata da un ambiente campestre, numerosa e ariana. Nulla a che vedere con la rappresentazione caotica in un interno urbano e affollato che ne aveva fatto Max Beckman nel 1920. Nella esposizione universale del 1937 nessun padiglione eguagliò quello spagnolo, per il quale Picasso aveva dipinto Guernica. A sinistra nella grande tela c’è la rappresentazione di una maternità disperata, la testa del bambino morto ciondola all’indietro, il grido della madre si alza verso il toro che la sovrasta. Nello stesso padiglione era esposto un fotomontaggio: accanto ad una donna immobilizzata nel rigido costume tradizionale c’è la «donna nuova», «capace di prendere parte attiva nella creazione del futuro». Eppure nel movimento anarchico spagnolo non si produsse alcuna riflessione sulla famiglia, le mogli degli anarchici erano rinchiuse in casa come tutte le altre donne spagnole. Nella tela di Zeki Kaik Izer, La via della rivoluzione, Ata Turk in giacca e cravatta avvolge con il braccio destro una famiglia cittadina medio borghese, lei indossa un tubino nero e un cappellino da passeggio. Sono loro, la famiglia nucleare borghese e non quella patriarcale tradizionale, il punto di riferimento dei giovani turchi. Ata Turk copiò il codice svizzero della famiglia. Non c’è nulla di agiografico ne La famiglia dipinta da Sironi, pittore di regime ma artista grandissimo, né oro alla patria, né prole numerosa da mandare al fronte. Nei manifesti russi che propagandano la costruzione delle mense, sedute a tavola con gli impiegati, stanno le operaie con il fazzoletto da lavoro in testa, aspirazione a liberare la donna dalle incombenze domestiche.
La narrazione storica di Ginsborg è resa affascinante dalla scelta di aprire ogni capitolo (ciascuno dedicato a un paese) con personaggi simbolo. Ci sono le storie familiari dei dittatori e ci sono alcuni ritratti strepitosi. Aleksandra Kollontaj e Inessa Armand in Russia, Halide Edib, protagonista femminile in una società patriarcale del movimento progressista turco. Tommaso Marinetti per il quale la famiglia era «una tenda di beduini». Straordinario il ritratto di Magda Quandt Goebbels, che con i suoi sette figli, divenne il simbolo della madre nazista.
«La famiglia non è solo oggetto, scrive Ginsborg destinataria dell’azione del potere politico ma anche soggetto, protagonista della storia». La famiglia e lo stato sono «due sistemi dinamici» che non necessariamente vanno alla stessa velocità né nella stessa direzione. Per quanto forte sia la pressione, la repressione, per non parlare del genocidio e delle soppressioni eugenetiche, le famiglie «dispongono di particolari codici e culture di resistenza». «Flessibilità, solidarietà, reti, segreti gelosamente custoditi» che entrano nel gioco della sopravvivenza in condizioni terribili: «La radicata cultura clientelare», scrive Ginsborg in un parallelo fra Urss e Italia fascista consentì in questi paesi «alle famiglie di scalare le pareti dello Stato apparentemente verticali». Il libro si ferma al 1950. Dopo vennero alla ribalta «nuove problematiche sulle modalità con cui le famiglie, nell’ambiente radicalmente nuovo delle libertà civili e politiche, si posero in connessione con la società civile e lo Stato democratico». Ma «questa è un’altra storia». I meccanismi e le risorse che nell’età delle dittature «servirono a mantenere viva la memoria di ciò che era stata la libertà» fanno esprimere all’autore «scetticismo nei confronti di uno schema interpretativo che utilizza il totalitarismo come filo conduttore». Quegli stessi meccanismi di salvezza potrebbero essere alla radice del «familismo amorale» di cui Ginsborg ha scritto altrove.



L'architrave di famiglia
Paul Ginsborg esamina la vita familiare in cinque Paesi nei primi 50 anni del XX secolo raccontando l'evoluzione della società e le riforme giuridiche che si sono susseguitedi Donald Sassoon Il Sole 2.3.14

«È sorprendente – scrive Paul Ginsborg – come nella maggioranza degli studi sul XX secolo le famiglie restino perennemente dietro le quinte». Questo è vero se pensiamo a grandi indagini storiche come Il secolo breve di Hobsbawm o Le ombre d'Europa. Democrazia e totalitarismo nel XX secolo di Mark Mazower, dove la famiglia è quasi assente. Per rimediare a questa carenza servirebbero studi di analoga portata che mostrino in che modo il corso degli eventi politici ed economici abbia influenzato o sia stato influenzato dalle famiglie. Sarebbe un'impresa non da poco, perché servirebbe qualcuno in grado di stabilire se i cambiamenti nella struttura delle famiglie siano stati dovuti a cause "interne" (abbastanza improbabile) o a eventi esterni, come per esempio cambiamenti delle leggi, emigrazioni, guerre o sviluppo economico. Bisognerebbe delineare la configurazione della vita familiare all'inizio del periodo preso in esame e poi tracciare un quadro dei cambiamenti e delle cause di tali cambiamenti. Inoltre, questo lavoro andrebbe realizzato in forma comparativa, in modo da poter valutare se una cosa come il calo della fecondità sia dovuta a fattori che trascendono le differenze religiose o politiche.
Famiglia Novecento non fa niente di tutto questo. È un libro abbastanza strano, in realtà. Da un certo punto di vista, è difficile non apprezzarlo per quello che è: un'antologia di eventi e fatti disparati, raggruppati sotto l'intestazione generica di "famiglie". È una lettura molto piacevole, dove si trova un gran numero di eventi che avevamo dimenticato, o che non avevamo mai saputo. Ginsborg propone una serie di esempi presi da cinque Paesi nella prima metà del XX secolo: Russia/Unione Sovietica, Italia, Spagna, Impero Ottomano/Turchia e Germania. Perché proprio questi Paesi? Perché hanno subito, più di altri in Europa, cambiamenti di grande rilevanza: la transizione rivoluzionaria dal regime zarista all'era sovietica, inclusi gli anni terribili della guerra civile e poi della collettivizzazione, la transizione dall'era liberale al fascismo per quanto riguarda l'Italia, la guerra civile in Spagna, Weimar e il nazismo in Germania, e in Turchia, per concludere, la fine dell'Impero Ottomano e la rivoluzione guidata da Kemal Atatürk. Al confronto quello che è successo in Francia o in Gran Bretagna può apparire di minore importanza. Ma è proprio così? Le due maggiori democrazie europee non hanno subito cambiamenti di regime e il loro sistema politico è rimasto sostanzialmente immutato nei primi cinquant'anni del XX secolo, ma sono passate per due grandi guerre, con un bilancio di vittime smisurato; sono state devastate dalla spaventosa epidemia di spagnola del 1918, che uccise 250mila persone nel Regno Unito e 400mila in Francia; durante la Seconda guerra mondiale, la Francia fu occupata e la Gran Bretagna bombardata. Andare a guardare l'evoluzione della famiglia in questi due Paesi poteva fornire un interessante elemento di comparazione. Le famiglie inglesi e francesi sono rimaste più stabili di quelle dei Paesi interessati da grandi conflitti politici e militari? I cambiamenti nella struttura della famiglia e nelle relazioni di genere sono influenzati da evoluzioni economiche di lungo termine, molto più che da eventi catastrofici di breve durata come guerre e dittature. Per esempio, negli Stati Uniti l'età media del matrimonio registrò un brusco calo dopo il 1945, quando il Paese fu coinvolto in numerose guerre, ma tutte di importanza relativamente minore rispetto alla Guerra di Secessione e alle due guerre mondiali. Oggi la maggioranza dei primi figli negli Stati Uniti (e in alcuni Paesi europei) nasce prima del matrimonio: un chiaro segnale, con disappunto dei tradizionalisti, che l'era del matrimonio come base per la procreazione forse sta per giungere a termine. Queste recenti evoluzioni sono state causate da fattori economici e culturali, non da guerre e rivoluzioni.
In ogni sezione Ginsborg ci presenta un affascinante schizzo della vita familiare di alcuni personaggi famosi, quindi fornisce una descrizione dei cambiamenti, in alcuni casi realmente rivoluzionari, intervenuti nel diritto di famiglia (divorzio, aborto, legislazione sul matrimonio, uguaglianza: è la parte più interessante); poi accenna alle proposte di riforma dell'istituto familiare, di solito semiutopistiche, e infine propone delle descrizioni (un po' superficiali) di famiglie "vere". Quest'ultima è la parte meno convincente del libro. Non è particolarmente illuminante, per esempio, leggere che nella Russia zarista «nelle campagne le donne venivano "trattate con grande brutalità" da mariti spesso ubriachi», perché ovviamente una cosa del genere non era limitata ai mariti russi. Erano più brutali e ubriaconi dei mariti di Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna? Probabilmente sì, ma quali dati ci sono a supporto? Tra l'altro, nella stessa parte Ginsborg descrive le condizioni di vita terrificanti nelle fabbriche della Russia zarista, dove gli operai, appena emigrati dalle campagne, riuscivano comunque a spedire a casa a moglie e figli una parte dei loro miseri salari: non tutti erano degli alcolizzati insensibili, quindi. E definire come patriarcale la vita familiare in Russia o in Turchia non è certo una rivelazione, considerando che la famiglia patriarcale era un tratto quasi universale e non certo limitato al periodo preso in esame, nei cinque Paesi sconvolti da turbolenze.
L'autore dedica molto più tempo a parlarci delle famiglie "speciali", le famiglie dei personaggi famosi: Lenin, la femminista bolscevica Inessa Armand (l'amante di Lenin), Aleksandra Kollontaj, l'unica donna commissario nel primo Governo rivoluzionario russo, Marinetti e Mussolini, Goebbels e Francisco Franco (un marito migliore di Mussolini, a quanto pare: non che questo ci dica qualcosa di utile sulle differenze tra il suo regime e il fascismo, o sulla "famiglia"), Kemal Atatürk e la famosa nazionalista femminista turca Halide Edib (descrivendo il suo matrimonio infelice e le sue battaglie in favore dell'uguaglianza delle donne), e tanti altri. Ma non ci dà nessuna spiegazione per queste scelte. Perché Marinetti e non D'Annunzio? Perché non c'è nulla sulla contessa Daisy di Robilant, una fascista-femminista fuori dagli schemi, che si batté con un'energia non comune in favore delle donne non sposate. È perché Halide Ebid ci ha lasciato due volumi di memorie piuttosto egocentrici, mentre Daisy no?
La parte sui cambiamenti del diritto di famiglia è prevalentemente descrittiva, con in aggiunta un commento, che va da una misurata approvazione (come per le riforme realizzate in Unione Sovietica e in Turchia) a una condanna esplicita (Italia e Germania). Ma il compito dello storico è spiegare, non dire «questo è buono, questo no». È chiaro che nella nostra ottica contemporanea le riforme "migliori" sono quelle che facilitano il progresso verso una maggiore uguaglianza tra uomini e donne, una maggiore facilità di divorzio e un approccio laico al matrimonio: la conseguenza è che le riforme realizzate in Unione Sovietica e nella Turchia di Atatürk sono più "moderne" di quelle realizzate in Italia o in Spagna, dove, con il Concordato nel primo caso e la vittoria di Franco nel secondo, la Chiesa incrementò il suo potere.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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