mercoledì 6 novembre 2013

Emanuele Severino ricorda Pietro Barcellona e distrugge il mito dell'egemonia marxista in Italia



Un mito irrealistico anche perché dagli anni Sessanta il cosiddetto marxismo italiano mainstream è stato soltanto una variante dell'egemonia cattolica. Ovviamente, poi, Severino parla soprattutto di se stesso ovvero dell'unico argomento che gli interessi davvero [SGA].

magistrato, catto-comunista “marxista ratzingereiano”. Con Tronti e Vacca
Pietro Barcellona pensatore inquieto
di Emanuele Severino Corriere 6.11.13

In occasione dei funerali di Pietro Barcellona, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio di cordoglio che tra l’altro diceva: «La sua forte ed originale intelligenza e cifra culturale, la sua serietà di studioso, la sua passione politica ricca di valenze utopiche ne hanno fatto un protagonista di rilievo della vita culturale italiana e della dialettica di posizioni ideali caratteristica della sinistra, e segnatamente del Partito comunista italiano».
Pietro è morto la sera del 6 settembre scorso: aveva 77 anni. Membro del Consiglio superiore della magistratura e deputato del Partito comunista italiano, aveva diretto, succedendo a Pietro Ingrao, il Centro per la riforma dello Stato, quel Centro che, ha detto Napolitano nel suo messaggio, era stato la sua «casa». E sin da giovanissimo era stato professore ordinario di Diritto privato e di Filosofia del diritto in diverse università. Napolitano ricorda la «particolare sensibilità e mitezza umana» di Pietro; io ricordo anche il suo energico spirito ironico e la sua penetrante intelligenza. Un esempio ben visibile, lo scorso anno, un suo formidabile intervento alla trasmissione televisiva Otto e mezzo.
A fine maggio mi aveva scritto di essere ricoverato in ospedale in seguito ad un intervento d’urgenza. Sperava di essere in via di guarigione e che nel frattempo io avessi ricevuto Parolepotere — il suo penultimo libro, bellissimo (Castelvecchi, pagine 184, e 22). «Come sai — mi diceva affettuosamente — ci tengo molto alla tua opinione. Ti allego un testo, che ho preparato sulla base della relazione del convegno dello scorso anno, in cui ancora una volta mi confronto con il tuo pensiero. Spero tu possa gradirlo». Questo testo (da lui intitolato Severino: gli abitatori del tempo ), è uscito nello scorso agosto col titolo L’Occidente tra libertà e tecnica (Saletta dell’Uva, pagine 63, e 10). Il suo ultimo libro.

In esso, Pietro non sviluppa soltanto quanto egli aveva detto in quel convegno, che l’Università di Venezia mi aveva dedicato, ma anche la «lunga e intensa conversazione» che in quel periodo avevamo avuto a casa mia a Brescia. «Ho sempre vissuto i nostri incontri — scrive — come una decisiva messa alla prova della mia capacità di contenere le domande sulle cose ultime della nostra esistenza».

Eppure mi sembra che in queste sue ultime pagine egli sia riuscito a liberarsi — sia pure sul piano psicologico, emozionale (al quale egli dava però molta importanza) — dall’inquietudine che le mie pagine gli procuravano, come anche Cacciari ha recentemente ricordato illustrando la complessità delle prospettive culturali del nostro comune amico.

Mi riferisco alla sua «conversione» al cristianesimo. La quale non ha per niente intaccato, ma anzi rafforzato la sua critica al capitalismo e allo scientismo. E infatti, in un articolo sull’«Unità» lo scorso anno, aveva scritto che «solo il discorso di Cristo si può opporre al “nichilismo biologico” dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della condizione umana» — lo scientismo, come l’individualismo della società capitalistica. E proprio il suo ultimo libro è tutto volto a sostenere che, nonostante le differenze, il mio discorso filosofico può essere ricondotto al nichilismo e al determinismo fatalistico delle neuroscienze, ossia a quella dimensione sulla quale Cristo gli era apparso indubitabilmente vittorioso.

Non è questo il luogo dove prolungare la nostra discussione. Anzi, mi è caro pensare che, con queste sue convinzioni, Pietro si fosse un po’ liberato dall’inquietudine, peraltro fecondissima, che lo aveva sempre accompagnato — mentre l’Immenso che lui non sospettava stava attendendolo; come attende ogni uomo.

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