lunedì 11 novembre 2013

La Grande Guerra e la fine dell'ordine aristocratico-borghese in Europa


Margaret MacMillan: 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Rizzoli, pagine 779, e 28

Risvolto
La luce si sta spegnendo su tutta Europa e non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita”: sir Edward Grey, segretario di Stato inglese per gli Affari esteri, percepì con chiarezza le dimensioni della crisi che nel giro di pochi giorni, di poche ore, avrebbe portato il continente europeo sull’orlo della catastrofe. Ma lo scoppio del conflitto, nell’agosto 1914, non fu che l’ultima maglia di una lunga catena di eventi, il momento che racchiuse – comprimendole – inquietudini e aspirazioni di un’epoca intera. Insieme ai profondi mutamenti sociali, culturali e tecnologici che trasformarono la natura della civiltà europea tra Ottocento e primo Novecento, l’autrice ripercorre gli antefatti, le tensioni accumulate, le scelte contingenti, spesso dovute a fraintendimenti, debolezze, ripicche tra politici e generali: il risultato è una ricostruzione, capillare e brillante, di un’ora fatale dell’umanità.

La responsabilità dei singoli
Per Margaret Macmillan la I Guerra mondiale fu decisa da pochi potenti individui, convinti che essa non avrebbe messo in pericolo l'assetto del Continente né lo status delle élite
di Gianni Toniolo Il Sole Domenica 9.3.14
 


Come sarebbe stato il World Economic Forum del 1914? Se lo chiede Margaret Macmillan in un intelligente pezzo di storia controfattuale apparso sul «Financial Times» del 19 gennaio scorso. Vi avrebbero partecipato lord inglesi, granduchi austriaci, magnati americani, diplomatici giapponesi in esplorazione, proprietari di miniere brasiliani e, naturalmente, banchieri del calibro di JP Morgan. Non ci sarebbe stato lo zar, poco amante dei viaggi, ma non sarebbero mancati ministri dei principali Paesi. Il centro dell'attenzione sarebbe stato conquistato dai guru delle nuove tecnologie che stavano cambiando il mondo: Edison, Marconi, Zeppelin e altri ancora. Montague Norman, non ancora governatore della Banca d'Inghilterra, avrebbe fatto un po' il guastafeste con i suoi ammonimenti sull'instabilità del sistema finanziario internazionale. Il presidente americano Wilson non avrebbe attraversato l'Atlantico per l'occasione (colta, invece, dal Kaiser) ma avrebbe mandato un preoccupato messaggio sui rischi per la stabilità sociale della crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Quelle di Norman e Wilson sarebbero però state voci isolate, sommerse dall'ottimismo della grande maggioranza dei partecipanti. Tutti si sarebbero salutati, dandosi appuntamento nel 1915 tra le nevi di Davos.
Uno dei temi ricorrenti nel fiorire di libri sulla prima guerra mondiale (il centenario aiuta ma il tema non aveva mai perduto un proprio fascino ambiguo) è quello della normalità della vita in Europa nel 1914, perfino in luglio. Se si fossero già tenuti gli incontri di Davos, quello del 1914 sarebbe andato come lo immagina Macmillan. Nella stessa vena, Florian Illies (1913. L'anno della tempesta, Marsilio) ha proposto una serie di quadri, vere e proprie istantantanee, su aspetti della vita nel 1913, in un'Europa che credeva, con Norman Angell (The Great Illusion, 1910), che la guerra fosse semplicemente impossibile, mentre i Sonnambuli di Christopher Clark (Laterza) camminavano ignari verso l'abisso. Nella medesima vena, Margaret Macmillan (canadese, Warden del St. Antony's College di Oxford) ricerca le cause della guerra in un mondo che sembrava capace di gestire senza danno estremo crisi anche gravi come quella balcanica, un mondo che si vedeva avviato sul sentiero di prosperità crescente sospinta da un mirabolante progresso tecnico e che nutriva nel proprio seno, accanto alle spinte nazionaliste e militariste, robusti movimenti pacifisti, popolati non solo da socialisti ma anche da capitalisti come Carnegie e Nobel, che donò la propria fortuna alla causa della pace e della comprensione tra i popoli (Macmillan dedica molte pagine alla prima vincitrice del Nobel per la pace, Bertha von Suttner, oggi dimenticata ma allora figura carismatica).
Macmillan possiede un talento letterario non comune tra gli storici: riporta in vita personaggi noti e meno noti, dipinge scene di vita quotidiana, rende leggibili anche le aride, complesse vicende della diplomazia internazionale e quelle della politica interna che ne spiegano in gran parte la dinamica. Nonostante il titolo italiano, il libro è però ben più che un racconto dell'Europa nell'anno della Guerra che terminò la pace, come suona, meno banalmente di quanto sembri, il titolo originale. È soprattutto una nuova ricerca delle cause di una guerra che continua a ossessionare noi europei. Un'ossessione che gli americani faticano a capire ma che, da questo lato dell'Atlantico, in quest'anno centenario si capisce facilmente pensando ai primi giorni dell'agosto 1914 come all'inizio della trentennale guerra civile europea o addirittura come la madre del corto e doloroso ventesimo secolo, se si pensa che solo tra il 1989 e il 1992 si chiuse l'eredità della tragica estate del 1914.
La tesi di Macmillan sulle cause della Grande Guerra non è particolarmente nuova. Talvolta accusata di essere una storica troppo tradizionale, Macmillan crede che la storia sia diretta dalle personalità, dalle volontà di singoli e gruppi, dalle scelte compiute da chi ha responsabilità di vario ordine nella società, piuttosto che da un impersonale determinismo. È una querelle, come si sa, vecchia quanto lo studio del passato che né questo né altri libri riusciranno definitivamente a comporre. Prima del 1914, l'Europa di Macmillan era un luogo tutto sommato prospero e pacifico: le guerre si combattevano ai suoi margini, soprattutto per la spartizione dei pezzi caduti dall'impero Ottomano, e nelle colonie. Le raffinate élites cosmopolite erano convinte di avere imparato a gestire, con accomodamenti più o meno duraturi, le crisi che pure si facevano sempre più frequenti. Erano in errore e Macmillan vede la fine della pace come effetto della convinzione a cui erano giunti pochi potenti individui che la guerra sarebbe stata la soluzione migliore a tanti problemi e che essa non avrebbe fatto correre importanti pericoli né all'assetto complessivo del Continente né, soprattutto, allo status delle élites aristocratiche e alto borghesi.
La discussione sulle responsabilità e le cause della Grande Guerra sta riprendendo vigore in tutta Europa, sospinta da un centenario nel quale molti vedono analogie con il clima del 1914: globalizzazione, ottimismo sostenuto dalla tecnologia, instabilità economica e fragilità degli equilibri geopolitici. Macmillan non discute in questo libro le "lezioni" di allora per l'oggi. Lo fa sui quotidiani, insistendo soprattutto la necessità di forte leadership: la prima guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata, dice, se fossero stati al comando nei propri Paesi personalità dal carattere forte e risoluto come Bismarck e Churchill. La non confortante lezione che trae è che, con leader relativamente deboli come quelli di oggi, «potrebbe essere necessaria una situazione di forte pericolo per forzare le principali potenze del nostro nuovo ordine mondiale a unirsi in coalizioni capaci e impegnate ad agire» («International New York Times», 14-15 Dicembre 2013).


1914, cent'anni fa moriva l'Europa
Dopo la Prima guerra mondiale, il continente divenne periferia. Da allora nessun segno di ripresaMarcello Veneziani - il Giornale Lun, 06/01/2014

Lo scontro Londra-Berlino incominciò nel Sudafrica
Il conflitto anglo-boero premessa della Grande guerradi Paolo Mieli Corriere 11.11.13


Secondo quello che ai tempi era l’ambasciatore inglese in terra tedesca, Edward Goschen, fu nel 1896 che i rapporti tra Gran Bretagna e Germania s‘incrinarono in modo definitivo. Fu quando il Kaiser Guglielmo II mandò un dispaccio di congratulazioni al presidente del piccolo Stato indipendente del Transvaal, Paul Kruger, per il modo con cui aveva vinto una battaglia. Tutto qui? Il fatto è che l’imperatore tedesco, nipote della regina Vittoria, si complimentava per «il valore» con cui gli Afrikaner avevano sconfitto un manipolo di soldati britannici guidati da L.S. Jameson. L’Inghilterra pagava anche così l’imprudente scelta di essersi imbarcata in una guerra contro lo Stato libero dell’Orange e il Transvaal, due piccoli Paesi Afrikaaner in Sudafrica. Sembrava un’impresa da poco, ma i «nemici» si erano rivelati duri da battere (si sarebbero arresi solo nella primavera del 1902). Contro le loro genti, dalla Gran Bretagna furono adottate tecniche brutali: il generale Kirchener fece rinchiudere in campi di concentramento anche donne e bambini, dopodiché quei campi si trasformarono in focolai di malattie e morte. Fu così che in Europa prese a crescere la solidarietà alle «vittime degli inglesi». Accadde addirittura che, in occasione dell’Esposizione di Parigi del 1900, gli abitanti di Marsiglia accogliessero tra feste e applausi una delegazione di rappresentanti del Madagascar, scambiati per Afrikaaner. Effetti perversi — secondo gli inglesi — del «telegramma a Kruger». 

«Il gesto di Guglielmo II è molto grave», scrisse il «Times» a ridosso dell’iniziativa dell’imperatore tedesco, «è un chiaro segnale di inimicizia nei confronti del nostro Paese». Lord Robert Gascoyne-Cecil Salisbury, primo ministro, informato di quel telegramma mentre era a tavola ad una cena di gala, commentò in modo che tutti potessero sentire: «Che faccia tosta!». La faccia tosta era quella dell’imperatore di Germania, nipote per via materna — come si è detto — della regina Vittoria (la quale discendeva, a sua volta, da ben due famiglie reali tedesche: gli Hannover per parte di padre e i Sassonia-Coburgo per parte di madre) e che, se la storia fosse andata in modo diverso, avrebbe potuto sedere sul trono di Inghilterra invece che su quello della Germania. 
I sovrani inglesi lo avevano considerato un «parente stretto», tant’è che era stato nominato colonnello onorario dei cavalieri britannici. Su presentazione di suo zio Edoardo fu poi iscritto al Royal Yacht Club: Guglielmo lo considerò un grandissimo onore, comprò un’imbarcazione e nei primi anni Novanta si presentò ogni estate per la regata annuale di Cowes. Competizione che l’imperatore tedesco prese molto sul serio, al punto da sostenere in maniera sempre più insistente che il sistema degli handicap penalizzava il suo yacht. Al che suo zio reagì con irritazione: «Un tempo la regata di Cowes era un piacevole passatempo… Adesso che il Kaiser si è impadronito della situazione, è solo una gran scocciatura». Ma il Kaiser non capì. Una volta che, nel 1904, Edoardo VII andò a trovarlo nella base navale tedesca di Kiel, Guglielmo ne fu così entusiasta che propose tre hurrah per il re inglese. La risposta di Edoardo fu imbarazzata: «Caro Willy, sei sempre stato così affettuoso e caro nei miei confronti che fatico a trovare parole per ringraziarti a dovere della tua gentilezza». Il cancelliere Bülow vietò ai cronisti di dare notizia delle effusioni di Guglielmo (nonché, ovviamente, della gelida reazione di Edoardo). 
Al di là dei vincoli dinastici, Germania e Gran Bretagna erano sembrate fino a quel momento fatte apposta per intendersi. A metà Ottocento, la simpatia dell’una nei confronti dell’altra era evidente. Thomas Carlyle, all’atto della fondazione della Germania (1871), sentenziò: «La nobile, paziente, pia e solida Germania si avvia finalmente a diventare una sola nazione e a rivendicare il rango di regina del continente, scalzando la nevrotica, vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e ipersensibile Francia… Questo è l’evento politico più incoraggiante di cui io abbia avuto il privilegio di essere testimone». Ma quando nel 1896 conobbero il testo del telegramma a Kruger, i «commilitoni» inglesi del Kaiser stracciarono il suo ritratto e ne gettarono i brandelli nel caminetto. L’ambasciatore tedesco a Londra, Paul Hartzfeld, trasmise a Berlino questo dispaccio: «Lo scandalo è stato talmente violento che se gli uomini di governo perdessero la testa, o avessero motivi di qualunque genere per dichiarare guerra (alla Germania, ndr ), l’intera nazione li appoggerebbe. Questo è poco ma è sicuro». In Inghilterra si sparse la voce che alcuni ufficiali tedeschi si stessero arruolando negli eserciti boeri. Non era vero, ma l’opinione pubblica, la nuova importante protagonista di questa fase storica, si mostrò disposta ad accogliere questa «notizia» come una verità rivelata. 
Anche in Germania l’opinione pubblica si lasciava trascinare nei gorghi dell’ostilità verso i «parenti inglesi». Scriveva il principe tedesco Bernhard von Bülow, futuro cancelliere, a Gottfried Hohenlohe, cancelliere in carica: «È davvero una disgrazia che la popolazione tedesca detesti la Gran Bretagna in modo così viscerale e profondo; è un sentimento molto pericoloso; se l’opinione pubblica d’Oltremanica si rendesse conto di quello che i nostri connazionali pensano davvero di loro, l’idea che si è fatta dei rapporti anglo-tedeschi cambierebbe radicalmente». La marina britannica sequestrò tre imbarcazioni postali tedesche, sospettate di trasportare materiale bellico destinato ai boeri. Secondo quanto riferito dal diplomatico tedesco Hermann von Eckardstein, il carico «più pericoloso a bordo di quelle imbarcazioni era una partita di formaggio svizzero». Ma le autorità inglesi tardarono a dissequestrare le navi tedesche e il governo di Berlino accusò quello di Londra di aver violato le leggi internazionali. 
Margaret MacMillan in 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, che, nell’ottima traduzione di Francesco Peri, sta per essere dato alle stampe da Rizzoli, dà credito a questa tesi: fu la rottura dell’asse anglo-tedesco che ruppe gli argini e fece precipitare il continente verso l’immane conflitto. A partire da ciò che cambiò gli equilibri tra le due potenze: sotto la guida dell’ammiraglio Alfred Tirpitz la Germania divenne una grande potenza militare marittima. Nel 1902, lord Selborne, omologo britannico di Tirpitz, dichiarò: «La nuova marina militare tedesca sembra progettata su misura per muoverci guerra». Ma ci fu anche dell’altro. 
Nel 1898 la Gran Bretagna ingarbugliò le difficili trattative sulle colonie portoghesi e il Kaiser reagì con un duro memorandum: «Lord Salisbury è un autentico gesuita! La sua condotta è aberrante e sfacciata». Dopodiché i dispetti reciproci non si contarono. Salisbury rifiutava di riconoscere le pretese della Germania sulle isole Samoa e i tedeschi ne fecero un caso, provocando stupore negli osservatori più raffinati: «Fino a ieri quasi nessuno dei nostri bravi politici da osteria avrebbe saputo dire se la parola “Samoa” indicasse un pesce, un uccello o una regina straniera», ironizzò Eckardstein, «eppure oggi urlano tutti a squarciagola che, di qualunque cosa si tratti, è sempre stata tedesca e deve rimanere tedesca». Guglielmo scriveva indispettito alla madre di sua madre, la regina Vittoria: «Il disprezzo con cui il vostro primo ministro tratta gli interessi e i sentimenti della Germania ha colpito la popolazione come una scossa elettrica; la gente ha iniziato a pensare che Salisbury tenga più al Portogallo, al Cile, alla Patagonia che a noi… Se lord Salisbury continuerà a trattare la Germania come un tiranno presuntuoso, temo che le incomprensioni e le recriminazioni tra i nostri due Paesi rischierebbero di diventare croniche, i rapporti si guasterebbero irrimediabilmente». Al che la regina rispose: «L’unica spiegazione che posso dare al tono con cui parlate di lord Salisbury è un momentaneo accesso di irritazione; non posso ammettere che abbiate scritto parole simili a mente fredda e dubito proprio che un sovrano si sia mai rivolto in tono così insolente a un altro sovrano, e per giunta alla sua stessa nonna, al solo scopo di criticare l’operato del suo primo ministro». 
Effetti di grandi cambiamenti che risalivano a molti anni prima. Nel 1800 l’Europa controllava il 35 per cento del globo terrestre, nel 1914 la percentuale sarebbe salita all’84 per cento. All’epoca nessuno credeva possibile una guerra come quella incombente. Annota Stefan Zweig in Il mondo di ieri (pubblicato due anni dopo la sua morte, nel 1944) descrivendo il modo di sentire del ceto medio austriaco ai primi del Novecento: «Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra i popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella inarrestabile forza conciliatrice della tolleranza». Gli europei dell’epoca, salvo lungimiranti eccezioni, «non erano consapevoli del fatto che le loro decisioni e le iniziative dei loro leader stavano drasticamente riducendo il ventaglio delle scelte possibili, tanto che ben presto non sarebbe rimasta che una sola alternativa». Certe credenze e certi valori, scrive Margaret MacMillan, «erano talmente ovvi da non venire neppure mai esplicitati». Forse la scienza avrebbe potuto indurre a qualche riflessione di maggiore prudenza. 
Le ricerche di Albert Einstein e dei suoi colleghi sulla fisica delle particelle atomiche e subatomiche avevano iniziato a mostrare che «il mondo visibile e materiale riposava su fenomeni imprevedibili ed eventi aleatori». Insieme agli antichi modi di guardare alla realtà, «anche la razionalità era entrata in crisi». Lo studio della psiche (Sigmund Freud) e la nuova sociologia (Gustave Le Bon) dimostravano che «gli esseri umani sono mossi da forze inconsce più che da decisioni consapevoli, come fino a quel momento si era creduto». La civiltà europea era pervasa da tensioni distruttive. L’aristocratico tedesco Harry Kessler, nel corso di una visita in Giappone, annotò sul suo taccuino: «Dal punto di vista intellettuale e forse anche da quello morale — ma non ne sono affatto sicuro — siamo migliori di loro, ma per quanto riguarda la vera civiltà, quella interiore, i giapponesi sono infinitamente più progrediti di noi». 
A innervosire l’Inghilterra provvedeva poi un altro Paese «cugino»: gli Stati Uniti. Ancora nel 1890, persino il Cile vantava una marina militare più forte di quella americana. Ma nei dieci anni successivi si ebbe una svolta: nel 1895 il segretario di Stato Richard Olney intervenne nella disputa sui confini della Guyana tra la Gran Bretagna e il Venezuela (dando ragione a Caracas) con un netto avvertimento: «La sovranità degli Stati Uniti su questo continente è oggi praticamente indiscussa, e i loro decreti, quando l’America sceglie di pronunciarsi, hanno validità di legge». Salisbury lì per lì si irritò, ma poi piegò il capo. E quando nel 1898 gli Stati Uniti strapparono alla Spagna Cuba, Portorico e assunsero il controllo delle Filippine, la Gran Bretagna non fece una piega. Dopodiché Londra rinunciò a cofinanziare la costruzione del canale di Panama e ritirò la flotta dei Caraibi. 
Poi, dopo l’uccisione da parte di un anarchico del presidente americano William McKinley nel 1901, fu il suo successore, Theodore Roosevelt, che fin dal suo primo discorso al Congresso disse: «Che ci piaccia o meno, dobbiamo riconoscere che ai nostri diritti internazionali si affiancano da oggi doveri internazionali». E la flotta americana, che nel 1898 contava 11 navi da guerra, nel 1913 era più che triplicata (36 navi da guerra), seconda solo a quelle tedesca e britannica. Nasceva allora l’America che avremmo visto all’opera nel Novecento e nel primo decennio del secolo attuale. Se ne rese conto Salisbury, che nel 1902 scriveva: «È terribile, ma temo che l’America continuerà a fare passi da gigante, c’è poco da fare, non tratteremo più da pari a pari; se fossimo intervenuti nella Guerra civile (dalla parte dei confederati del Sud come lui stesso avrebbe voluto, ndr ), forse sarebbe ancora stato possibile ridurre la potenza degli Stati Uniti a proporzioni gestibili, ma occasioni del genere si presentano soltanto una volta nella storia di un Paese». 
Nello stesso tempo la Francia aveva stretto relazioni sempre più forti con la Russia. Nel 1891 lo Zar insignì il presidente francese della più alta onorificenza russa. Nell’estate la flotta francese effettuò una visita di cortesia alla base navale russa di Kronstadt e in quell’occasione il mondo assistette «a una scena a dir poco inverosimile»: lo Zar sull’attenti mentre una banda suonava la Marsigliese , che, essendo un «inno rivoluzionario», in Russia era fuorilegge. 
La Francia dell’epoca era molto attiva, talché Londra si era convinta che per l’Inghilterra esistesse in concreto una «minaccia francese». Alcuni ufficiali, ricorda MacMillan, «andavano ripetendo fin dagli anni Ottanta che la Francia, se lo avesse desiderato, avrebbe potuto debellare le forze navali britanniche nella Manica e invadere l’isola in forze». Lo stesso Salisbury, in un memorandum ai suoi ministri (1888), scriveva che, «guidati da un militare di quelli che le rivoluzioni trasformano in imperatori», i francesi avrebbero avuto l’opportunità di sbarcare in terra britannica un sabato sera qualsiasi, «mentre i sudditi della regina si godevano il fine settimana». Con l’aiuto di «due o tre patrioti irlandesi», gli invasori avrebbero potuto tagliare i fili del telefono e prendere Londra prima che l’esercito britannico avesse il tempo di reagire. Dopodiché con piglio snobistico Salisbury continuò a passare le vacanze in Francia. Però i due Paesi furono sul punto di scontrarsi per i possedimenti africani: la contesa si risolse quando l’Inghilterra prevalse in Egitto e la Francia si prese Tunisia e Madagascar. Ma Salisbury non dava eccessivo peso alle controversie mediorientali e africane. Al suo proconsole in Egitto, sir Evelyn Baring, suggerì in un certo senso di trascurarle: «Non si lasci ingannare da quello che sente dire dai militari sull’importanza strategica di quelle zone; se lasciassimo fare a loro, insisterebbero per costruire un avamposto sulla Luna contro possibili minacce da Marte». 
Più consistente fu a Londra l’idea di poter subire un’invasione tedesca. Soprattutto nell’estate del 1908, quando la flotta germanica fece importanti manovre nelle acque dell’Atlantico. Nel mese di luglio la «Quarterly Review» pubblicò un articolo, scritto in forma anonima dal redattore capo del prestigioso «Observer», in cui si sosteneva che ufficiali della marina di Berlino avessero «sondato i nostri porti», li avessero ridisegnati palmo a palmo, avessero «studiato ogni increspatura delle nostre coste». Inoltre 50 mila tedeschi «travestiti da camerieri» sarebbero stati «già in posizione in territorio britannico, pronti a entrare in azione al primo segnale». Il viaggio in Svizzera del conte Zeppelin, a bordo del suo nuovo dirigibile, aveva dato occasione ad altri articoli che paventavano nuove e più moderne minacce da parte della Germania. 
All’inizio del Novecento sembra che i rapporti tra Gran Bretagna e Germania possano ristabilirsi. Nel 1900 Salisbury si dimette da ministro degli Esteri e lascia la politica internazionale dell’Inghilterra nelle mani di suo nipote, Arthur Balfour, e del segretario di Stato per le colonie, Joseph Chamberlain. Nel 1901 Chamberlain confida a un diplomatico tedesco a Londra di «vedere di buon occhio l’idea di una maggiore cooperazione con la Germania», lasciando intendere addirittura di stare valutando la possibilità di un ingresso dell’Inghilterra nella Triplice Alleanza, che teneva legate Germania, Austria-Ungheria e Italia. Balfour era d’accordo, perché ai suoi occhi «il nemico della Gran Bretagna era l’asse franco-russo». E anche per qualche motivo in più: «È assolutamente decisivo per gli interessi britannici che l’Italia non venga schiacciata, che l’Austria non venga smembrata e che la Germania non venga soffocata a morte tra il martello russo e l’incudine francese». 
Forse si sarebbe potuto procedere in questa direzione, se non si fosse messa di traverso ancora una volta quella che è la grande protagonista di questo libro di Margaret MacMillan: l’opinione pubblica. Lo aveva notato già Salisbury quando nel 1897 la Germania aveva ottenuto da Pechino una concessione per lo sfruttamento del porto di Tianjin e la Russia aveva invaso la Manciuria: «La cosiddetta “opinione pubblica” vuole un premio di consolazione in Cina, un pezzetto di terra o qualche segnetto sulla carta geografica», scriveva il primo ministro inglese. «Quel contentino ci costerà molto caro e non servirà a nulla, eppure bisogna cedere al sentimentalismo». 
Sia in Gran Bretagna che in Germania l’opinione pubblica, scrive MacMillan, «si stava trasformando in una forza che nessuno poteva permettersi di ignorare». Tra l’autunno e l’inverno del 1901-1902, entrambi i Paesi reagirono con stizza a uno screzio in sé piuttosto futile, tra Bülow, ora cancelliere del Reich, e Joseph Chamberlain. Parlando a Edimburgo Chamberlain disse che la Germania, all’epoca della guerra franco-prussiana di trent’anni prima, si era comportata in maniera assai peggiore di quanto avesse fatto la Gran Bretagna alle prese con gli Afrikaaner (una ritorsione per il telegramma a Kruger). Bülow, furibondo, eccitò il proprio Paese riproponendo una celebre espressione di Federico II il Grande, secondo cui chiunque avesse osato criticare l’esercito tedesco si sarebbe «frantumato i denti su un pezzo di granito». Al che Chamberlain, parlando nel suo feudo elettorale di Birminghan, rispose secco: «Ho detto quel che ho detto; non intendo rimangiarmi le mie parole; non sto giudicando nessuno; non voglio difendere l’operato di nessuno; non avevo alcun intento di dare lezione a una carica politica straniera, e quindi non sono disposto ad accettarne». La risposta degli astanti fu un’ovazione. 
L’opinione pubblica fece, dunque, la sua parte nel favorire un clima propenso alla guerra. È molto difficile, avverte Margaret MacMillan, «pronunciarsi su temi così delicati per epoche in cui non esistevano ancora i sondaggi di opinione, ma a grandi linee si può affermare che, a cavallo tra i due secoli, l’opinione delle élite di governo (ambienti diplomatici, parlamentari e militari) andava assumendo una coloritura sempre più ostile, dall’una e dall’altra parte». 
Nel 1896 un fortunatissimo pamphlet del giornalista inglese E.E. Williams, Made in Germany , descriveva uno scenario da brivido: «Una titanica potenza commerciale ha iniziato a minacciare la nostra prosperità e a contenderci le flotte mercantili del mondo». «State attenti, inglesi», avvertiva l’autore: «I giocattoli, le bambole, i libri di fiabe che i vostri figli bistrattano nella loro cameretta sono fabbricati in Germania, anzi è molto probabile che il materiale con cui si stampa il vostro giornale (patriottico) preferito sia importato dallo stesso Paese». L’intero arredamento domestico, dalle decorazioni in porcellana all’attizzatoio per il caminetto, tutto era di fabbricazione tedesca. Di più: «Vostra moglie rincasa a mezzanotte da un teatro dove è andata in scena un’opera tedesca, con cantanti tedeschi, musicisti tedeschi e un direttore d’orchestra tedesco. Perfino gli strumenti e gli spartiti vengono direttamente dalla Germania». Temi destinati a fare grande presa. Tanto più che venivano diffusi e amplificati da un nuovo sistema di comunicazioni di massa. 
Il direttore dell’ufficio stampa del ministero degli Esteri tedesco osservò in quel momento che i rapporti internazionali non erano più appannaggio di «piccoli ed esclusivi circoli di raffinati diplomatici». Le scelte politiche dei governanti, scriveva, «ormai sono influenzate dall’opinione pubblica nazionale in una misura che fino a pochi decenni fa sarebbe stata inconcepibile». Nel 1903 un «rispettabile funzionario» inglese di nome Erskine Childers pubblicò il suo primo e unico romanzo, L’enigma delle sabbie , che prefigurava un’invasione tedesca. Ebbe un successo strepitoso. 
Si diffuse l’ossessione che dalla Germania potessero essere bloccati financo i rifornimenti alimentari. E fu il «terrore della carestia». Nel corso di una riunione dello United Services Institute, un generale dell’esercito inglese così descrisse le «probabili» conseguenze del blocco di cui si è detto: «Le masse popolari dell’East End marcerebbero sul West End saccheggiando le nostre case, strappando il pane dalle bocche dei nostri figli… “Se proprio dobbiamo crepare di fame, giustizia vuole che crepiamo tutti insieme”, andrebbero ripetendo». Il romanziere William Le Queux pubblicò un libro di grande successo, L’invasione del 1910 , che uscì a puntate sul «Daily Mail». Per far entrare all’istante nella testa del pubblico chi fossero gli «invasori» di cui si parlava nel romanzo, il giornale sguinzagliò per tutta Londra strilloni travestiti da militari prussiani, «con tanto di elmetti a punta e uniformi blu». L’effetto fu quello di generare una vera e propria psicosi di massa. 
«La buona società approfitta di ogni minimo pretesto per sparlare di noi e forse lo stesso accade negli strati inferiori della popolazione, tra le masse dei lavoratori», riferiva a Berlino nel 1903 l’ambasciatore tedesco a Londra, Paul Metternich. «Lo strato intermedio, quello degli uomini che lavorano con il cervello e la penna, ci è quasi totalmente ostile». Ostilità che fu accresciuta — non solo tra gli inglesi — a causa dei comportamenti stravaganti del Kaiser. Comportamenti fuori misura di un uomo manesco. Una volta Guglielmo diede «una sonora sberla» (a mo’ di burla, si giustificò) al granduca di Russia Vladimir. Il suo uomo di fiducia Robert Zedlitz si affrettò a precisare che si trattava di uno scherzo. Ma poi annotò: «Era impossibile non notare che gli ospiti di sangue reale e imperiale non gradivano granché quella disinvoltura e temo proprio che l’imperatore abbia gravemente offeso più di una testa coronata con le sue marachelle… Come poteva credere che si divertissero anche loro?». In un’altra occasione, sempre secondo Zedlitz, il re di Bulgaria, sul cui appoggio politico la Germania contava molto, se ne andò da Berlino «schiumante di rabbia» dopo che il Kaiser, in un’occasione pubblica, gli aveva assestato una sonora pacca sul fondoschiena. Il sovrano si divertiva a far travestire da donna i suoi soldati. E non solo loro. Di ritorno da una gita in compagnia di Guglielmo II, Alfred von Kiderlen annotò: «Ho fatto il nano e spento le luci, il Kaiser ha riso come un matto; ho improvvisato assieme a C. una canzoncina in cui facevamo i gemelli cinesi, legati da una lunghissima salsiccia». Nel 1908 il capo di gabinetto del ministero della Guerra morì di infarto mentre ballava di fronte all’imperatore «indossando un tutù e un cappello piumato». 
Quanto alla moglie del Kaiser, la duchessa Augusta Vittoria detta Dona (che diede al marito sette figli), «non poteva soffrire gli inglesi, aveva idee molto conservatrici e praticava la più rigida religione protestante, al punto da non ammettere in casa servitori cattolici». Se qualcuno era sospettato di condotta scandalosa, non veniva più invitato a corte. I berlinesi «erano ormai abituati a vedere il convoglio reale che ripartiva in fretta e furia dai teatri prima della fine di una rappresentazione, perché Dona aveva trovato moralmente disdicevole questo o quel dettaglio». Guglielmo II poi era alquanto irascibile: «Bisogna tenere ben salda la cordicella, altrimenti lo sa il cielo dove andrà a finire», diceva di lui Bismarck, paragonandolo a un palloncino. Salisbury sosteneva che avesse «qualche rotella fuori posto». Ma il Kaiser non si rendeva conto di provocare perplessità in chi aveva di fronte: amava parlare in pubblico, pensava di essere un grande trascinatore di folle (cosa che non era) e ogni due per tre prometteva di «distruggere», «schiacciare», «spazzare via», chi avesse ostacolato i suoi disegni. 
«Dovete comportarvi», disse ai suoi che nel 1900 partivano alla volta di Pechino per sedare la rivolta dei Boxer, «in modo che la parola “Germania” sia ricordata con terrore per i prossimi mille anni… Nessun cinese, che abbia gli occhi a mandorla o meno, dovrà più osare guardare in faccia un tedesco». E ce n’era anche per i deputati al Reichstag, definiti, volta a volta, «imbecilli», «idioti», «cani». Non sopportava la sinistra: «Di questo passo», disse in un discorso ai “suoi” militari, «se i socialisti continueranno a prendere voti, mi toccherà ordinarvi di sparare sui vostri parenti, sui vostri fratelli, perfino sui vostri genitori». Proibì agli ufficiali di ballare tango, one-step, two-step, e di frequentare famiglie «che praticano quei balli». Definì i diplomatici «palloni gonfiati» e la Wilhelmstrasse (il ministero degli Esteri) un «letamaio». In una celebre intervista (manipolata ma non troppo) al «Daily Telegraph», il Kaiser affermò che gli inglesi erano «matti, matti, matti da legare». Il ministro degli Esteri britannico, Edward Grey, scrisse a un amico: «Le uscite del Kaiser mi fanno venire i capelli bianchi, è come una corazzata con i motori a pieno regime, le viti che saltano e il timone rotto; presto o tardi andrà a sbattere da qualche parte e allora saranno guai seri». Altroché «guai seri»: sarà la guerra più devastante che si fosse mai vista. 

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