La responsabilità dei singoli
Per Margaret Macmillan la I Guerra mondiale fu
decisa da pochi potenti individui, convinti che essa non avrebbe messo in
pericolo l'assetto del Continente né lo status delle élite
di Gianni
Toniolo Il Sole Domenica 9.3.14
Come sarebbe stato il World Economic Forum del 1914? Se lo chiede Margaret
Macmillan in un intelligente pezzo di storia controfattuale apparso sul
«Financial Times» del 19 gennaio scorso. Vi avrebbero partecipato lord inglesi,
granduchi austriaci, magnati americani, diplomatici giapponesi in esplorazione,
proprietari di miniere brasiliani e, naturalmente, banchieri del calibro di JP
Morgan. Non ci sarebbe stato lo zar, poco amante dei viaggi, ma non sarebbero
mancati ministri dei principali Paesi. Il centro dell'attenzione sarebbe stato
conquistato dai guru delle nuove tecnologie che stavano cambiando il mondo:
Edison, Marconi, Zeppelin e altri ancora. Montague Norman, non ancora
governatore della Banca d'Inghilterra, avrebbe fatto un po' il guastafeste con
i suoi ammonimenti sull'instabilità del sistema finanziario internazionale. Il
presidente americano Wilson non avrebbe attraversato l'Atlantico per
l'occasione (colta, invece, dal Kaiser) ma avrebbe mandato un preoccupato
messaggio sui rischi per la stabilità sociale della crescente disuguaglianza
nella distribuzione del reddito. Quelle di Norman e Wilson sarebbero però state
voci isolate, sommerse dall'ottimismo della grande maggioranza dei
partecipanti. Tutti si sarebbero salutati, dandosi appuntamento nel 1915 tra le
nevi di Davos.
Uno dei temi ricorrenti nel fiorire di libri sulla prima guerra mondiale (il
centenario aiuta ma il tema non aveva mai perduto un proprio fascino ambiguo) è
quello della normalità della vita in Europa nel 1914, perfino in luglio. Se si
fossero già tenuti gli incontri di Davos, quello del 1914 sarebbe andato come
lo immagina Macmillan. Nella stessa vena, Florian Illies (1913. L'anno della
tempesta, Marsilio) ha proposto una serie di quadri, vere e proprie
istantantanee, su aspetti della vita nel 1913, in un'Europa che credeva, con
Norman Angell (The Great Illusion, 1910), che la guerra fosse semplicemente
impossibile, mentre i Sonnambuli di Christopher Clark (Laterza) camminavano
ignari verso l'abisso. Nella medesima vena, Margaret Macmillan (canadese,
Warden del St. Antony's College di Oxford) ricerca le cause della guerra in un
mondo che sembrava capace di gestire senza danno estremo crisi anche gravi come
quella balcanica, un mondo che si vedeva avviato sul sentiero di prosperità
crescente sospinta da un mirabolante progresso tecnico e che nutriva nel proprio
seno, accanto alle spinte nazionaliste e militariste, robusti movimenti
pacifisti, popolati non solo da socialisti ma anche da capitalisti come
Carnegie e Nobel, che donò la propria fortuna alla causa della pace e della
comprensione tra i popoli (Macmillan dedica molte pagine alla prima vincitrice
del Nobel per la pace, Bertha von Suttner, oggi dimenticata ma allora figura
carismatica).
Macmillan possiede un talento letterario non comune tra gli storici: riporta in
vita personaggi noti e meno noti, dipinge scene di vita quotidiana, rende
leggibili anche le aride, complesse vicende della diplomazia internazionale e
quelle della politica interna che ne spiegano in gran parte la dinamica.
Nonostante il titolo italiano, il libro è però ben più che un racconto
dell'Europa nell'anno della Guerra che terminò la pace, come suona, meno
banalmente di quanto sembri, il titolo originale. È soprattutto una nuova
ricerca delle cause di una guerra che continua a ossessionare noi europei.
Un'ossessione che gli americani faticano a capire ma che, da questo lato
dell'Atlantico, in quest'anno centenario si capisce facilmente pensando ai
primi giorni dell'agosto 1914 come all'inizio della trentennale guerra civile
europea o addirittura come la madre del corto e doloroso ventesimo secolo, se
si pensa che solo tra il 1989 e il 1992 si chiuse l'eredità della tragica
estate del 1914.
La tesi di Macmillan sulle cause della Grande Guerra non è particolarmente
nuova. Talvolta accusata di essere una storica troppo tradizionale, Macmillan
crede che la storia sia diretta dalle personalità, dalle volontà di singoli e
gruppi, dalle scelte compiute da chi ha responsabilità di vario ordine nella
società, piuttosto che da un impersonale determinismo. È una querelle, come si
sa, vecchia quanto lo studio del passato che né questo né altri libri
riusciranno definitivamente a comporre. Prima del 1914, l'Europa di Macmillan
era un luogo tutto sommato prospero e pacifico: le guerre si combattevano ai
suoi margini, soprattutto per la spartizione dei pezzi caduti dall'impero
Ottomano, e nelle colonie. Le raffinate élites cosmopolite erano convinte di
avere imparato a gestire, con accomodamenti più o meno duraturi, le crisi che
pure si facevano sempre più frequenti. Erano in errore e Macmillan vede la fine
della pace come effetto della convinzione a cui erano giunti pochi potenti
individui che la guerra sarebbe stata la soluzione migliore a tanti problemi e
che essa non avrebbe fatto correre importanti pericoli né all'assetto
complessivo del Continente né, soprattutto, allo status delle élites
aristocratiche e alto borghesi.
La discussione sulle responsabilità e le cause della Grande Guerra sta
riprendendo vigore in tutta Europa, sospinta da un centenario nel quale molti
vedono analogie con il clima del 1914: globalizzazione, ottimismo sostenuto
dalla tecnologia, instabilità economica e fragilità degli equilibri
geopolitici. Macmillan non discute in questo libro le "lezioni" di
allora per l'oggi. Lo fa sui quotidiani, insistendo soprattutto la necessità di
forte leadership: la prima guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata, dice,
se fossero stati al comando nei propri Paesi personalità dal carattere forte e
risoluto come Bismarck e Churchill. La non confortante lezione che trae è che,
con leader relativamente deboli come quelli di oggi, «potrebbe essere
necessaria una situazione di forte pericolo per forzare le principali potenze
del nostro nuovo ordine mondiale a unirsi in coalizioni capaci e impegnate ad
agire» («International New York Times», 14-15 Dicembre 2013).
1914, cent'anni fa moriva l'Europa
Dopo la Prima guerra mondiale, il continente divenne periferia. Da allora nessun segno di ripresaMarcello Veneziani
- il Giornale
Lun, 06/01/2014
I
sovrani inglesi lo avevano considerato un «parente stretto», tant’è che
era stato nominato colonnello onorario dei cavalieri britannici. Su
presentazione di suo zio Edoardo fu poi iscritto al Royal Yacht Club:
Guglielmo lo considerò un grandissimo onore, comprò un’imbarcazione e
nei primi anni Novanta si presentò ogni estate per la regata annuale di
Cowes. Competizione che l’imperatore tedesco prese molto sul serio, al
punto da sostenere in maniera sempre più insistente che il sistema degli
handicap penalizzava il suo yacht. Al che suo zio reagì con
irritazione: «Un tempo la regata di Cowes era un piacevole passatempo…
Adesso che il Kaiser si è impadronito della situazione, è solo una gran
scocciatura». Ma il Kaiser non capì. Una volta che, nel 1904, Edoardo
VII andò a trovarlo nella base navale tedesca di Kiel, Guglielmo ne fu
così entusiasta che propose tre hurrah per il re inglese. La risposta di
Edoardo fu imbarazzata: «Caro Willy, sei sempre stato così affettuoso e
caro nei miei confronti che fatico a trovare parole per ringraziarti a
dovere della tua gentilezza». Il cancelliere Bülow vietò ai cronisti di
dare notizia delle effusioni di Guglielmo (nonché, ovviamente, della
gelida reazione di Edoardo).
Al di là dei vincoli dinastici,
Germania e Gran Bretagna erano sembrate fino a quel momento fatte
apposta per intendersi. A metà Ottocento, la simpatia dell’una nei
confronti dell’altra era evidente. Thomas Carlyle, all’atto della
fondazione della Germania (1871), sentenziò: «La nobile, paziente, pia e
solida Germania si avvia finalmente a diventare una sola nazione e a
rivendicare il rango di regina del continente, scalzando la nevrotica,
vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e ipersensibile Francia…
Questo è l’evento politico più incoraggiante di cui io abbia avuto il
privilegio di essere testimone». Ma quando nel 1896 conobbero il testo
del telegramma a Kruger, i «commilitoni» inglesi del Kaiser stracciarono
il suo ritratto e ne gettarono i brandelli nel caminetto.
L’ambasciatore tedesco a Londra, Paul Hartzfeld, trasmise a Berlino
questo dispaccio: «Lo scandalo è stato talmente violento che se gli
uomini di governo perdessero la testa, o avessero motivi di qualunque
genere per dichiarare guerra (alla Germania, ndr ), l’intera nazione li
appoggerebbe. Questo è poco ma è sicuro». In Inghilterra si sparse la
voce che alcuni ufficiali tedeschi si stessero arruolando negli eserciti
boeri. Non era vero, ma l’opinione pubblica, la nuova importante
protagonista di questa fase storica, si mostrò disposta ad accogliere
questa «notizia» come una verità rivelata.
Anche in Germania
l’opinione pubblica si lasciava trascinare nei gorghi dell’ostilità
verso i «parenti inglesi». Scriveva il principe tedesco Bernhard von
Bülow, futuro cancelliere, a Gottfried Hohenlohe, cancelliere in carica:
«È davvero una disgrazia che la popolazione tedesca detesti la Gran
Bretagna in modo così viscerale e profondo; è un sentimento molto
pericoloso; se l’opinione pubblica d’Oltremanica si rendesse conto di
quello che i nostri connazionali pensano davvero di loro, l’idea che si è
fatta dei rapporti anglo-tedeschi cambierebbe radicalmente». La marina
britannica sequestrò tre imbarcazioni postali tedesche, sospettate di
trasportare materiale bellico destinato ai boeri. Secondo quanto
riferito dal diplomatico tedesco Hermann von Eckardstein, il carico «più
pericoloso a bordo di quelle imbarcazioni era una partita di formaggio
svizzero». Ma le autorità inglesi tardarono a dissequestrare le navi
tedesche e il governo di Berlino accusò quello di Londra di aver violato
le leggi internazionali.
Margaret MacMillan in 1914. Come la luce
si spense sul mondo di ieri, che, nell’ottima traduzione di Francesco
Peri, sta per essere dato alle stampe da Rizzoli, dà credito a questa
tesi: fu la rottura dell’asse anglo-tedesco che ruppe gli argini e fece
precipitare il continente verso l’immane conflitto. A partire da ciò che
cambiò gli equilibri tra le due potenze: sotto la guida dell’ammiraglio
Alfred Tirpitz la Germania divenne una grande potenza militare
marittima. Nel 1902, lord Selborne, omologo britannico di Tirpitz,
dichiarò: «La nuova marina militare tedesca sembra progettata su misura
per muoverci guerra». Ma ci fu anche dell’altro.
Nel 1898 la Gran
Bretagna ingarbugliò le difficili trattative sulle colonie portoghesi e
il Kaiser reagì con un duro memorandum: «Lord Salisbury è un autentico
gesuita! La sua condotta è aberrante e sfacciata». Dopodiché i dispetti
reciproci non si contarono. Salisbury rifiutava di riconoscere le
pretese della Germania sulle isole Samoa e i tedeschi ne fecero un caso,
provocando stupore negli osservatori più raffinati: «Fino a ieri quasi
nessuno dei nostri bravi politici da osteria avrebbe saputo dire se la
parola “Samoa” indicasse un pesce, un uccello o una regina straniera»,
ironizzò Eckardstein, «eppure oggi urlano tutti a squarciagola che, di
qualunque cosa si tratti, è sempre stata tedesca e deve rimanere
tedesca». Guglielmo scriveva indispettito alla madre di sua madre, la
regina Vittoria: «Il disprezzo con cui il vostro primo ministro tratta
gli interessi e i sentimenti della Germania ha colpito la popolazione
come una scossa elettrica; la gente ha iniziato a pensare che Salisbury
tenga più al Portogallo, al Cile, alla Patagonia che a noi… Se lord
Salisbury continuerà a trattare la Germania come un tiranno presuntuoso,
temo che le incomprensioni e le recriminazioni tra i nostri due Paesi
rischierebbero di diventare croniche, i rapporti si guasterebbero
irrimediabilmente». Al che la regina rispose: «L’unica spiegazione che
posso dare al tono con cui parlate di lord Salisbury è un momentaneo
accesso di irritazione; non posso ammettere che abbiate scritto parole
simili a mente fredda e dubito proprio che un sovrano si sia mai rivolto
in tono così insolente a un altro sovrano, e per giunta alla sua stessa
nonna, al solo scopo di criticare l’operato del suo primo ministro».
Effetti
di grandi cambiamenti che risalivano a molti anni prima. Nel 1800
l’Europa controllava il 35 per cento del globo terrestre, nel 1914 la
percentuale sarebbe salita all’84 per cento. All’epoca nessuno credeva
possibile una guerra come quella incombente. Annota Stefan Zweig in Il
mondo di ieri (pubblicato due anni dopo la sua morte, nel 1944)
descrivendo il modo di sentire del ceto medio austriaco ai primi del
Novecento: «Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra i
popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi;
i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella
inarrestabile forza conciliatrice della tolleranza». Gli europei
dell’epoca, salvo lungimiranti eccezioni, «non erano consapevoli del
fatto che le loro decisioni e le iniziative dei loro leader stavano
drasticamente riducendo il ventaglio delle scelte possibili, tanto che
ben presto non sarebbe rimasta che una sola alternativa». Certe credenze
e certi valori, scrive Margaret MacMillan, «erano talmente ovvi da non
venire neppure mai esplicitati». Forse la scienza avrebbe potuto indurre
a qualche riflessione di maggiore prudenza.
Le ricerche di Albert
Einstein e dei suoi colleghi sulla fisica delle particelle atomiche e
subatomiche avevano iniziato a mostrare che «il mondo visibile e
materiale riposava su fenomeni imprevedibili ed eventi aleatori».
Insieme agli antichi modi di guardare alla realtà, «anche la razionalità
era entrata in crisi». Lo studio della psiche (Sigmund Freud) e la
nuova sociologia (Gustave Le Bon) dimostravano che «gli esseri umani
sono mossi da forze inconsce più che da decisioni consapevoli, come fino
a quel momento si era creduto». La civiltà europea era pervasa da
tensioni distruttive. L’aristocratico tedesco Harry Kessler, nel corso
di una visita in Giappone, annotò sul suo taccuino: «Dal punto di vista
intellettuale e forse anche da quello morale — ma non ne sono affatto
sicuro — siamo migliori di loro, ma per quanto riguarda la vera civiltà,
quella interiore, i giapponesi sono infinitamente più progrediti di
noi».
A innervosire l’Inghilterra provvedeva poi un altro Paese
«cugino»: gli Stati Uniti. Ancora nel 1890, persino il Cile vantava una
marina militare più forte di quella americana. Ma nei dieci anni
successivi si ebbe una svolta: nel 1895 il segretario di Stato Richard
Olney intervenne nella disputa sui confini della Guyana tra la Gran
Bretagna e il Venezuela (dando ragione a Caracas) con un netto
avvertimento: «La sovranità degli Stati Uniti su questo continente è
oggi praticamente indiscussa, e i loro decreti, quando l’America sceglie
di pronunciarsi, hanno validità di legge». Salisbury lì per lì si
irritò, ma poi piegò il capo. E quando nel 1898 gli Stati Uniti
strapparono alla Spagna Cuba, Portorico e assunsero il controllo delle
Filippine, la Gran Bretagna non fece una piega. Dopodiché Londra
rinunciò a cofinanziare la costruzione del canale di Panama e ritirò la
flotta dei Caraibi.
Poi, dopo l’uccisione da parte di un anarchico
del presidente americano William McKinley nel 1901, fu il suo
successore, Theodore Roosevelt, che fin dal suo primo discorso al
Congresso disse: «Che ci piaccia o meno, dobbiamo riconoscere che ai
nostri diritti internazionali si affiancano da oggi doveri
internazionali». E la flotta americana, che nel 1898 contava 11 navi da
guerra, nel 1913 era più che triplicata (36 navi da guerra), seconda
solo a quelle tedesca e britannica. Nasceva allora l’America che avremmo
visto all’opera nel Novecento e nel primo decennio del secolo attuale.
Se ne rese conto Salisbury, che nel 1902 scriveva: «È terribile, ma temo
che l’America continuerà a fare passi da gigante, c’è poco da fare, non
tratteremo più da pari a pari; se fossimo intervenuti nella Guerra
civile (dalla parte dei confederati del Sud come lui stesso avrebbe
voluto, ndr ), forse sarebbe ancora stato possibile ridurre la potenza
degli Stati Uniti a proporzioni gestibili, ma occasioni del genere si
presentano soltanto una volta nella storia di un Paese».
Nello
stesso tempo la Francia aveva stretto relazioni sempre più forti con la
Russia. Nel 1891 lo Zar insignì il presidente francese della più alta
onorificenza russa. Nell’estate la flotta francese effettuò una visita
di cortesia alla base navale russa di Kronstadt e in quell’occasione il
mondo assistette «a una scena a dir poco inverosimile»: lo Zar
sull’attenti mentre una banda suonava la Marsigliese , che, essendo un
«inno rivoluzionario», in Russia era fuorilegge.
La Francia
dell’epoca era molto attiva, talché Londra si era convinta che per
l’Inghilterra esistesse in concreto una «minaccia francese». Alcuni
ufficiali, ricorda MacMillan, «andavano ripetendo fin dagli anni Ottanta
che la Francia, se lo avesse desiderato, avrebbe potuto debellare le
forze navali britanniche nella Manica e invadere l’isola in forze». Lo
stesso Salisbury, in un memorandum ai suoi ministri (1888), scriveva
che, «guidati da un militare di quelli che le rivoluzioni trasformano in
imperatori», i francesi avrebbero avuto l’opportunità di sbarcare in
terra britannica un sabato sera qualsiasi, «mentre i sudditi della
regina si godevano il fine settimana». Con l’aiuto di «due o tre
patrioti irlandesi», gli invasori avrebbero potuto tagliare i fili del
telefono e prendere Londra prima che l’esercito britannico avesse il
tempo di reagire. Dopodiché con piglio snobistico Salisbury continuò a
passare le vacanze in Francia. Però i due Paesi furono sul punto di
scontrarsi per i possedimenti africani: la contesa si risolse quando
l’Inghilterra prevalse in Egitto e la Francia si prese Tunisia e
Madagascar. Ma Salisbury non dava eccessivo peso alle controversie
mediorientali e africane. Al suo proconsole in Egitto, sir Evelyn
Baring, suggerì in un certo senso di trascurarle: «Non si lasci
ingannare da quello che sente dire dai militari sull’importanza
strategica di quelle zone; se lasciassimo fare a loro, insisterebbero
per costruire un avamposto sulla Luna contro possibili minacce da
Marte».
Più consistente fu a Londra l’idea di poter subire
un’invasione tedesca. Soprattutto nell’estate del 1908, quando la flotta
germanica fece importanti manovre nelle acque dell’Atlantico. Nel mese
di luglio la «Quarterly Review» pubblicò un articolo, scritto in forma
anonima dal redattore capo del prestigioso «Observer», in cui si
sosteneva che ufficiali della marina di Berlino avessero «sondato i
nostri porti», li avessero ridisegnati palmo a palmo, avessero «studiato
ogni increspatura delle nostre coste». Inoltre 50 mila tedeschi
«travestiti da camerieri» sarebbero stati «già in posizione in
territorio britannico, pronti a entrare in azione al primo segnale». Il
viaggio in Svizzera del conte Zeppelin, a bordo del suo nuovo
dirigibile, aveva dato occasione ad altri articoli che paventavano nuove
e più moderne minacce da parte della Germania.
All’inizio del
Novecento sembra che i rapporti tra Gran Bretagna e Germania possano
ristabilirsi. Nel 1900 Salisbury si dimette da ministro degli Esteri e
lascia la politica internazionale dell’Inghilterra nelle mani di suo
nipote, Arthur Balfour, e del segretario di Stato per le colonie, Joseph
Chamberlain. Nel 1901 Chamberlain confida a un diplomatico tedesco a
Londra di «vedere di buon occhio l’idea di una maggiore cooperazione con
la Germania», lasciando intendere addirittura di stare valutando la
possibilità di un ingresso dell’Inghilterra nella Triplice Alleanza, che
teneva legate Germania, Austria-Ungheria e Italia. Balfour era
d’accordo, perché ai suoi occhi «il nemico della Gran Bretagna era
l’asse franco-russo». E anche per qualche motivo in più: «È
assolutamente decisivo per gli interessi britannici che l’Italia non
venga schiacciata, che l’Austria non venga smembrata e che la Germania
non venga soffocata a morte tra il martello russo e l’incudine
francese».
Forse si sarebbe potuto procedere in questa direzione, se
non si fosse messa di traverso ancora una volta quella che è la grande
protagonista di questo libro di Margaret MacMillan: l’opinione pubblica.
Lo aveva notato già Salisbury quando nel 1897 la Germania aveva
ottenuto da Pechino una concessione per lo sfruttamento del porto di
Tianjin e la Russia aveva invaso la Manciuria: «La cosiddetta “opinione
pubblica” vuole un premio di consolazione in Cina, un pezzetto di terra o
qualche segnetto sulla carta geografica», scriveva il primo ministro
inglese. «Quel contentino ci costerà molto caro e non servirà a nulla,
eppure bisogna cedere al sentimentalismo».
Sia in Gran Bretagna che
in Germania l’opinione pubblica, scrive MacMillan, «si stava
trasformando in una forza che nessuno poteva permettersi di ignorare».
Tra l’autunno e l’inverno del 1901-1902, entrambi i Paesi reagirono con
stizza a uno screzio in sé piuttosto futile, tra Bülow, ora cancelliere
del Reich, e Joseph Chamberlain. Parlando a Edimburgo Chamberlain disse
che la Germania, all’epoca della guerra franco-prussiana di trent’anni
prima, si era comportata in maniera assai peggiore di quanto avesse
fatto la Gran Bretagna alle prese con gli Afrikaaner (una ritorsione per
il telegramma a Kruger). Bülow, furibondo, eccitò il proprio Paese
riproponendo una celebre espressione di Federico II il Grande, secondo
cui chiunque avesse osato criticare l’esercito tedesco si sarebbe
«frantumato i denti su un pezzo di granito». Al che Chamberlain,
parlando nel suo feudo elettorale di Birminghan, rispose secco: «Ho
detto quel che ho detto; non intendo rimangiarmi le mie parole; non sto
giudicando nessuno; non voglio difendere l’operato di nessuno; non avevo
alcun intento di dare lezione a una carica politica straniera, e quindi
non sono disposto ad accettarne». La risposta degli astanti fu
un’ovazione.
L’opinione pubblica fece, dunque, la sua parte nel
favorire un clima propenso alla guerra. È molto difficile, avverte
Margaret MacMillan, «pronunciarsi su temi così delicati per epoche in
cui non esistevano ancora i sondaggi di opinione, ma a grandi linee si
può affermare che, a cavallo tra i due secoli, l’opinione delle élite di
governo (ambienti diplomatici, parlamentari e militari) andava
assumendo una coloritura sempre più ostile, dall’una e dall’altra
parte».
Nel 1896 un fortunatissimo pamphlet del giornalista inglese
E.E. Williams, Made in Germany , descriveva uno scenario da brivido:
«Una titanica potenza commerciale ha iniziato a minacciare la nostra
prosperità e a contenderci le flotte mercantili del mondo». «State
attenti, inglesi», avvertiva l’autore: «I giocattoli, le bambole, i
libri di fiabe che i vostri figli bistrattano nella loro cameretta sono
fabbricati in Germania, anzi è molto probabile che il materiale con cui
si stampa il vostro giornale (patriottico) preferito sia importato dallo
stesso Paese». L’intero arredamento domestico, dalle decorazioni in
porcellana all’attizzatoio per il caminetto, tutto era di fabbricazione
tedesca. Di più: «Vostra moglie rincasa a mezzanotte da un teatro dove è
andata in scena un’opera tedesca, con cantanti tedeschi, musicisti
tedeschi e un direttore d’orchestra tedesco. Perfino gli strumenti e gli
spartiti vengono direttamente dalla Germania». Temi destinati a fare
grande presa. Tanto più che venivano diffusi e amplificati da un nuovo
sistema di comunicazioni di massa.
Il direttore dell’ufficio stampa
del ministero degli Esteri tedesco osservò in quel momento che i
rapporti internazionali non erano più appannaggio di «piccoli ed
esclusivi circoli di raffinati diplomatici». Le scelte politiche dei
governanti, scriveva, «ormai sono influenzate dall’opinione pubblica
nazionale in una misura che fino a pochi decenni fa sarebbe stata
inconcepibile». Nel 1903 un «rispettabile funzionario» inglese di nome
Erskine Childers pubblicò il suo primo e unico romanzo, L’enigma delle
sabbie , che prefigurava un’invasione tedesca. Ebbe un successo
strepitoso.
Si diffuse l’ossessione che dalla Germania potessero
essere bloccati financo i rifornimenti alimentari. E fu il «terrore
della carestia». Nel corso di una riunione dello United Services
Institute, un generale dell’esercito inglese così descrisse le
«probabili» conseguenze del blocco di cui si è detto: «Le masse popolari
dell’East End marcerebbero sul West End saccheggiando le nostre case,
strappando il pane dalle bocche dei nostri figli… “Se proprio dobbiamo
crepare di fame, giustizia vuole che crepiamo tutti insieme”, andrebbero
ripetendo». Il romanziere William Le Queux pubblicò un libro di grande
successo, L’invasione del 1910 , che uscì a puntate sul «Daily Mail».
Per far entrare all’istante nella testa del pubblico chi fossero gli
«invasori» di cui si parlava nel romanzo, il giornale sguinzagliò per
tutta Londra strilloni travestiti da militari prussiani, «con tanto di
elmetti a punta e uniformi blu». L’effetto fu quello di generare una
vera e propria psicosi di massa.
«La buona società approfitta di
ogni minimo pretesto per sparlare di noi e forse lo stesso accade negli
strati inferiori della popolazione, tra le masse dei lavoratori»,
riferiva a Berlino nel 1903 l’ambasciatore tedesco a Londra, Paul
Metternich. «Lo strato intermedio, quello degli uomini che lavorano con
il cervello e la penna, ci è quasi totalmente ostile». Ostilità che fu
accresciuta — non solo tra gli inglesi — a causa dei comportamenti
stravaganti del Kaiser. Comportamenti fuori misura di un uomo manesco.
Una volta Guglielmo diede «una sonora sberla» (a mo’ di burla, si
giustificò) al granduca di Russia Vladimir. Il suo uomo di fiducia
Robert Zedlitz si affrettò a precisare che si trattava di uno scherzo.
Ma poi annotò: «Era impossibile non notare che gli ospiti di sangue
reale e imperiale non gradivano granché quella disinvoltura e temo
proprio che l’imperatore abbia gravemente offeso più di una testa
coronata con le sue marachelle… Come poteva credere che si divertissero
anche loro?». In un’altra occasione, sempre secondo Zedlitz, il re di
Bulgaria, sul cui appoggio politico la Germania contava molto, se ne
andò da Berlino «schiumante di rabbia» dopo che il Kaiser, in
un’occasione pubblica, gli aveva assestato una sonora pacca sul
fondoschiena. Il sovrano si divertiva a far travestire da donna i suoi
soldati. E non solo loro. Di ritorno da una gita in compagnia di
Guglielmo II, Alfred von Kiderlen annotò: «Ho fatto il nano e spento le
luci, il Kaiser ha riso come un matto; ho improvvisato assieme a C. una
canzoncina in cui facevamo i gemelli cinesi, legati da una lunghissima
salsiccia». Nel 1908 il capo di gabinetto del ministero della Guerra
morì di infarto mentre ballava di fronte all’imperatore «indossando un
tutù e un cappello piumato».
Quanto alla moglie del Kaiser, la
duchessa Augusta Vittoria detta Dona (che diede al marito sette figli),
«non poteva soffrire gli inglesi, aveva idee molto conservatrici e
praticava la più rigida religione protestante, al punto da non ammettere
in casa servitori cattolici». Se qualcuno era sospettato di condotta
scandalosa, non veniva più invitato a corte. I berlinesi «erano ormai
abituati a vedere il convoglio reale che ripartiva in fretta e furia dai
teatri prima della fine di una rappresentazione, perché Dona aveva
trovato moralmente disdicevole questo o quel dettaglio». Guglielmo II
poi era alquanto irascibile: «Bisogna tenere ben salda la cordicella,
altrimenti lo sa il cielo dove andrà a finire», diceva di lui Bismarck,
paragonandolo a un palloncino. Salisbury sosteneva che avesse «qualche
rotella fuori posto». Ma il Kaiser non si rendeva conto di provocare
perplessità in chi aveva di fronte: amava parlare in pubblico, pensava
di essere un grande trascinatore di folle (cosa che non era) e ogni due
per tre prometteva di «distruggere», «schiacciare», «spazzare via», chi
avesse ostacolato i suoi disegni.
«Dovete comportarvi», disse ai
suoi che nel 1900 partivano alla volta di Pechino per sedare la rivolta
dei Boxer, «in modo che la parola “Germania” sia ricordata con terrore
per i prossimi mille anni… Nessun cinese, che abbia gli occhi a mandorla
o meno, dovrà più osare guardare in faccia un tedesco». E ce n’era
anche per i deputati al Reichstag, definiti, volta a volta, «imbecilli»,
«idioti», «cani». Non sopportava la sinistra: «Di questo passo», disse
in un discorso ai “suoi” militari, «se i socialisti continueranno a
prendere voti, mi toccherà ordinarvi di sparare sui vostri parenti, sui
vostri fratelli, perfino sui vostri genitori». Proibì agli ufficiali di
ballare tango, one-step, two-step, e di frequentare famiglie «che
praticano quei balli». Definì i diplomatici «palloni gonfiati» e la
Wilhelmstrasse (il ministero degli Esteri) un «letamaio». In una celebre
intervista (manipolata ma non troppo) al «Daily Telegraph», il Kaiser
affermò che gli inglesi erano «matti, matti, matti da legare». Il
ministro degli Esteri britannico, Edward Grey, scrisse a un amico: «Le
uscite del Kaiser mi fanno venire i capelli bianchi, è come una
corazzata con i motori a pieno regime, le viti che saltano e il timone
rotto; presto o tardi andrà a sbattere da qualche parte e allora saranno
guai seri». Altroché «guai seri»: sarà la guerra più devastante che si
fosse mai vista.
Nessun commento:
Posta un commento