sabato 1 marzo 2014
Rinascimento e modernità
Amedeo Quondam: Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della modernità, il Mulino 2013, pp. 275, euro 24,00
Risvolto
Sul Rinascimento (parola oggi tuttofare) e sul
Classicismo esiste una lunga tradizione di studi, che fa riferimento
alle capitali e ai grandi protagonisti della storia culturale europea.
Diversa e originale è invece la strada battuta da questo libro, che
muove da luoghi e figure più marginali, dai castelli del Tirolo e dai
suoi guerrieri che si fecero gentiluomini per giungere alla Galleria
Borghese e al suo Cardinale. È messa a fuoco la straordinaria gamma
delle forme e delle metamorfosi della cultura d’Antico regime che porta
la costruzione umanistica ad irradiarsi dall’Italia in tutto il Vecchio
Continente: il sistema della Corte, la «forma del vivere» del
gentiluomo, il mercato dell’arte, i codici delle buone maniere, le
rappresentazioni della «maiestas» nel cerimoniale come nelle relazioni
interpersonali.
Amedeo Quondam ha insegnato
Letteratura italiana alla Sapienza - Università di Roma ed è stato
presidente dell’Associazione degli italianisti. Tra i suoi libri
ricordiamo: «Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del
gentiluomo moderno» (2003), «La conversazione. Un modello italiano»
(2007) e «Risorgimento a memoria. Le poesie degli italiani» (2011),
pubblicati da Donzelli; «Petrarca, l’italiano dimenticato» (Rizzoli,
2004) e per il Mulino «Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i
moralisti italiani» (2010).
La modernità del Rinascimento
di Giulio Ferroni l’Unità 1.3.14
OGNI
TANTO RITORNA IN EVIDENZA IL RINASCIMENTO: INTESO COME EPOCA DI
SPLENDORE ASSOLUTO, DELLA PIENA CAPACITÀ UMANA DI PRENDERE POSSESSO DEL
MONDO, del trionfo dell’arte e della cultura, propagatosi dall’Italia
all’Europa moderna, in un “rinascere” e rifiorire della vita collettiva,
in un movimento irresistibile verso la modernità. Nella percezione
straniera (e specialmente in quella del mondo anglosassone) l’immagine
dell’Italia si inquadra perlopiù entro il fascino della grande arte
rinascimentale (specie in versione fiorentina), nel segno di un’eleganza
e di uno splendore che non riusciamo più ad attingere, residuo di un
passato offerto ormai solo al consumo turistico e che non siamo nemmeno
tanto capaci di tutelare.
Ma da noi c’è ogni tanto qualcuno che si
riconosce figlio del Rinascimento e prospetta trionfalmente nuovi
Rinascimenti: e ora occorre mettere in guardia il fiorentino Matteo
Renzi da coloro che pretendono di incoronarlo come adeguato erede
attuale del grande Rinascimento. È il caso del berlusconiano Carlo
Rossella, che, dopo aver dialogato con Renzi in tribuna allo stadio
durante l’ultima Fiorentina- Inter, ha potuto affermare con entusiasmo
(intervistato dal «Corriere della sera» del 17 febbraio) che il sindaco
ora premier costituisce un «magnifico incrocio » tra Pico della
Mirandola (con cui condivide «la capacità di ricordare subito tutto e
tutti») e Niccolò Machiavelli (con cui condivide l’«intelligenza sottile
e anche un po’ spregiudicata »). Senza contare il fatto che
l’acutissimo Pico finì per subire il fascino del “medievale” Savonarola e
che a Machiavelli le cose non riuscirono proprio bene (ma sarebbe il
caso di fare il punto sulle tante deformazioni a cui è stato sottoposto
Niccolò in occasione del trascorso centenario del suo Principe), questi
ritorni di fiamma rinascimentale andrebbero almeno messi a confronto con
la discussione suscitata in questi giorni da un libro del grande
storico medievale Jacques Le Goff, Faut-il vraiment découper l’histoire
en tranches? (Éditions du Seuil, di prossima pubblicazione in Italia da
Laterza), che nega ogni sostanziale rottura di continuità tra le società
europee del XVI secolo e quelle del “buio” Medioevo.
Fu già
Petrarca e poi soprattutto gli umanisti del Quattrocento ad affermare
una “rinascita” della cultura antica, in opposizione ai secoli
precedenti: ma, variamente rilanciata dagli illuministi e poi dalla
borghesia ottocentesca, la nozione di Rinascimento appare piuttosto
effetto di una proiezione ideologica, smentita dalla persistenza di
forme di vita e di antichi valori e modelli mentali, ancora lontanissimi
dallo sviluppo della modernità. Secondo Le Goff la realtà sociale e
mentale dell’occidente fino al XVIII secolo mostrerebbe una relativa
continuità con quello che arbitrariamente chiamiamo Medioevo; il
cosiddetto Rinascimento non costituirebbe affatto il punto di partenza
dell’età moderna, dato che un reale cambiamento della vita collettiva e
degli schemi mentali si sarebbe avviato solo poco prima della grande
rivoluzione, nella seconda metà del Settecento.
Su questo giornale
già Michele Ciliberto ha discusso la tesi di Le Goff, mettendo
opportunamente in luce il carattere più complesso e articolato di quello
che chiamiamo Rinascimento, notando in esso il rilievo di molteplici
elementi culturali che conducono verso la modernità, in un rapporto
conflittuale e contraddittorio con tante persistenze del passato. Su «la
Lettura» del «Corriere» punti di vista tra loro opposti sulla questione
hanno espresso Giuseppe Galasso e Franco Cardini: ma a me sembra che, a
chiarire il dato fondamentale della proiezione del Rinascimento verso
la modernità e della sua continuità/ differenza con il cosiddetto
Medioevo altri dati determinanti vengano offerti dal libro recente di
Amedeo Quondam, Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della
modernità (il Mulino 2013, pp. 275, euro 24,00).
In modo atipico, e
davvero sorprendente per un libro sul Rinascimento, Quondam prende avvio
da un viaggio tra i castelli del Tirolo, luoghi di controllo del
territorio in cui erano insediati i bellatores, la nobiltà militare: le
trasformazioni subite nel tempo da diversi castelli, con l’immissione di
modelli culturali umanistici, di strutture e a forme che intendevano
riconnettersi all’antichità, permettono di notare il passaggio dei loro
signori da bellatores a «gentiluomini», in un contesto di educazione
fondato su nuove regole sociali e identitarie, su un nuovo bisogno di
equilibrio, di misura, di modalità etiche ed estetiche (che trovano la
loro più immediata manifestazione nelle «buone maniere » e
nell’esercizio della «conversazione»). Dai castelli del Tirolo il
percorso di Quondam riconduce poi a tante forme e situazioni italiane ed
europee, con particolare attenzione ad ambiti di fruizione sociale dei
modelli culturali. Rinascimento viene a rivelarsi insomma un processo
condotto da una nobiltà che si affida agli umanisti, studiosi, maestri e
segretari che si propongono al suo servizio e offrono i nuovi modelli
culturali basati sulla riscoperta dei classici antichi: si impone così
l’abito del classicismo, in un intreccio ideale tra bello e buono che
appunto viene a regolare le forme del vivere, distinguendole
dall’immediatezza materiale, proiettandole verso convenienza, dignità,
magnificenza, verso una nuova razionalità dell’essere sociale. Questa
nuova «economia simbolica» viene attestata dal modo stesso in cui le
classi dominanti individuano se stesse e resiste su vasta scala fino
alla grande rivoluzione, con prolungamenti non trascurabili ancora
nell’Ottocento. Sono pratiche di classe, che si svolgono in modo
contraddittorio, tra metamorfosi varie e intrecci molteplici tra
continuità e discontinuità: ma in esse e attraverso di esse si dà
un’apertura dinamica e contraddittoria verso la modernità, una nuova
fondazione dell’essere sociale, la diffusa aspirazione a un consumo
dell’esistenza come valore, misura, equilibrio, distacco dall’effimera
casualità.
Da tutto ciò erano escluse le classi inferiori,
sottoposte a repressione e a controllo spesso spietato; e ne erano
respinte ai margini le forme culturali più radicalmente critiche, più
audaci e dirompenti. Ma è vero che proprio entro questi sistemi
simbolici si è aperta la possibilità di forme vita pienamente coscienti
di se stesse, di rottura dei modelli autoritari, di spazi di libertà e
razionalità (tutto ciò che fu poi affermato dall’illuminismo, in questo
ancora legato ai modelli classicistici rinascimentali).
Il libro di
Quondam (che tocca tante altre questioni che meriterebbero più diretta
discussione) mostra insomma che la modernità del Rinascimento va
verificata, oltre che nei grandi risultati dell’arte e del pensiero,
nella costruzione di una nuova «forma del vivere», di una misura etica
ed estetica dell’essere in società.
Certo si può avere l’impressione
che oggi, mentre si suggeriscono innesti tra Pico e Machiavelli, si sia
totalmente al di là di ogni possibile «forma», ben al di là del
moderno, in un universo “altro”, per cui non sembra più credibile
nemmeno l’etichetta di «postmoderno ». l’Unità 1.3.14
La modernità del Rinascimento
Un libro di Quondam dimostra che il tema non riguarda soltanto l’arte
di Giulio Ferroni
OGNI
TANTO RITORNA IN EVIDENZA IL RINASCIMENTO: INTESO COME EPOCA DI
SPLENDORE ASSOLUTO, DELLA PIENA CAPACITÀ UMANA DI PRENDERE POSSESSO DEL
MONDO, del trionfo dell’arte e della cultura, propagatosi dall’Italia
all’Europa moderna, in un “rinascere” e rifiorire della vita collettiva,
in un movimento irresistibile verso la modernità. Nella percezione
straniera (e specialmente in quella del mondo anglosassone) l’immagine
dell’Italia si inquadra perlopiù entro il fascino della grande arte
rinascimentale (specie in versione fiorentina), nel segno di un’eleganza
e di uno splendore che non riusciamo più ad attingere, residuo di un
passato offerto ormai solo al consumo turistico e che non siamo nemmeno
tanto capaci di tutelare.
Ma da noi c’è ogni tanto qualcuno che si
riconosce figlio del Rinascimento e prospetta trionfalmente nuovi
Rinascimenti: e ora occorre mettere in guardia il fiorentino Matteo
Renzi da coloro che pretendono di incoronarlo come adeguato erede
attuale del grande Rinascimento. È il caso del berlusconiano Carlo
Rossella, che, dopo aver dialogato con Renzi in tribuna allo stadio
durante l’ultima Fiorentina- Inter, ha potuto affermare con entusiasmo
(intervistato dal «Corriere della sera» del 17 febbraio) che il sindaco
ora premier costituisce un «magnifico incrocio » tra Pico della
Mirandola (con cui condivide «la capacità di ricordare subito tutto e
tutti») e Niccolò Machiavelli (con cui condivide l’«intelligenza sottile
e anche un po’ spregiudicata »). Senza contare il fatto che
l’acutissimo Pico finì per subire il fascino del “medievale” Savonarola e
che a Machiavelli le cose non riuscirono proprio bene (ma sarebbe il
caso di fare il punto sulle tante deformazioni a cui è stato sottoposto
Niccolò in occasione del trascorso centenario del suo Principe), questi
ritorni di fiamma rinascimentale andrebbero almeno messi a confronto con
la discussione suscitata in questi giorni da un libro del grande
storico medievale Jacques Le Goff, Faut-il vraiment découper l’histoire
en tranches? (Éditions du Seuil, di prossima pubblicazione in Italia da
Laterza), che nega ogni sostanziale rottura di continuità tra le società
europee del XVI secolo e quelle del “buio” Medioevo.
Fu già
Petrarca e poi soprattutto gli umanisti del Quattrocento ad affermare
una “rinascita” della cultura antica, in opposizione ai secoli
precedenti: ma, variamente rilanciata dagli illuministi e poi dalla
borghesia ottocentesca, la nozione di Rinascimento appare piuttosto
effetto di una proiezione ideologica, smentita dalla persistenza di
forme di vita e di antichi valori e modelli mentali, ancora lontanissimi
dallo sviluppo della modernità. Secondo Le Goff la realtà sociale e
mentale dell’occidente fino al XVIII secolo mostrerebbe una relativa
continuità con quello che arbitrariamente chiamiamo Medioevo; il
cosiddetto Rinascimento non costituirebbe affatto il punto di partenza
dell’età moderna, dato che un reale cambiamento della vita collettiva e
degli schemi mentali si sarebbe avviato solo poco prima della grande
rivoluzione, nella seconda metà del Settecento.
Su questo giornale
già Michele Ciliberto ha discusso la tesi di Le Goff, mettendo
opportunamente in luce il carattere più complesso e articolato di quello
che chiamiamo Rinascimento, notando in esso il rilievo di molteplici
elementi culturali che conducono verso la modernità, in un rapporto
conflittuale e contraddittorio con tante persistenze del passato. Su «la
Lettura» del «Corriere» punti di vista tra loro opposti sulla questione
hanno espresso Giuseppe Galasso e Franco Cardini: ma a me sembra che, a
chiarire il dato fondamentale della proiezione del Rinascimento verso
la modernità e della sua continuità/ differenza con il cosiddetto
Medioevo altri dati determinanti vengano offerti dal libro recente di
Amedeo Quondam, Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della
modernità (il Mulino 2013, pp. 275, euro 24,00).
In modo atipico, e
davvero sorprendente per un libro sul Rinascimento, Quondam prende avvio
da un viaggio tra i castelli del Tirolo, luoghi di controllo del
territorio in cui erano insediati i bellatores, la nobiltà militare: le
trasformazioni subite nel tempo da diversi castelli, con l’immissione di
modelli culturali umanistici, di strutture e a forme che intendevano
riconnettersi all’antichità, permettono di notare il passaggio dei loro
signori da bellatores a «gentiluomini», in un contesto di educazione
fondato su nuove regole sociali e identitarie, su un nuovo bisogno di
equilibrio, di misura, di modalità etiche ed estetiche (che trovano la
loro più immediata manifestazione nelle «buone maniere » e
nell’esercizio della «conversazione»). Dai castelli del Tirolo il
percorso di Quondam riconduce poi a tante forme e situazioni italiane ed
europee, con particolare attenzione ad ambiti di fruizione sociale dei
modelli culturali. Rinascimento viene a rivelarsi insomma un processo
condotto da una nobiltà che si affida agli umanisti, studiosi, maestri e
segretari che si propongono al suo servizio e offrono i nuovi modelli
culturali basati sulla riscoperta dei classici antichi: si impone così
l’abito del classicismo, in un intreccio ideale tra bello e buono che
appunto viene a regolare le forme del vivere, distinguendole
dall’immediatezza materiale, proiettandole verso convenienza, dignità,
magnificenza, verso una nuova razionalità dell’essere sociale. Questa
nuova «economia simbolica» viene attestata dal modo stesso in cui le
classi dominanti individuano se stesse e resiste su vasta scala fino
alla grande rivoluzione, con prolungamenti non trascurabili ancora
nell’Ottocento. Sono pratiche di classe, che si svolgono in modo
contraddittorio, tra metamorfosi varie e intrecci molteplici tra
continuità e discontinuità: ma in esse e attraverso di esse si dà
un’apertura dinamica e contraddittoria verso la modernità, una nuova
fondazione dell’essere sociale, la diffusa aspirazione a un consumo
dell’esistenza come valore, misura, equilibrio, distacco dall’effimera
casualità.
Da tutto ciò erano escluse le classi inferiori,
sottoposte a repressione e a controllo spesso spietato; e ne erano
respinte ai margini le forme culturali più radicalmente critiche, più
audaci e dirompenti. Ma è vero che proprio entro questi sistemi
simbolici si è aperta la possibilità di forme vita pienamente coscienti
di se stesse, di rottura dei modelli autoritari, di spazi di libertà e
razionalità (tutto ciò che fu poi affermato dall’illuminismo, in questo
ancora legato ai modelli classicistici rinascimentali).
Il libro di
Quondam (che tocca tante altre questioni che meriterebbero più diretta
discussione) mostra insomma che la modernità del Rinascimento va
verificata, oltre che nei grandi risultati dell’arte e del pensiero,
nella costruzione di una nuova «forma del vivere», di una misura etica
ed estetica dell’essere in società.
Certo si può avere l’impressione
che oggi, mentre si suggeriscono innesti tra Pico e Machiavelli, si sia
totalmente al di là di ogni possibile «forma», ben al di là del
moderno, in un universo “altro”, per cui non sembra più credibile
nemmeno l’etichetta di «postmoderno ».
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