Nella Mosca postrivoluzionaria stretta dalla morsa della fame e della guerra civile, Marina Cvetaeva affida alle pagine dei taccuini il racconto delle sue giornate. Episodi di vita quotidiana si mescolano a lettere, progetti di opere, versi, fulminee riflessioni su di sé, sull'epoca, la poesia, la natura umana, ritratti di contemporanei, narrazioni di sogni e ricordi d'infanzia. Ne scaturisce un quadro vivissimo della Russia dell'epoca e un nudo ritratto dell'interiorità cvetaeviana.
sabato 1 marzo 2014
I Taccuini 1919-1921 di Marina Cvetaeva
Risvolto
Nella Mosca postrivoluzionaria stretta dalla morsa della fame e della guerra civile, Marina Cvetaeva affida alle pagine dei taccuini il racconto delle sue giornate. Episodi di vita quotidiana si mescolano a lettere, progetti di opere, versi, fulminee riflessioni su di sé, sull'epoca, la poesia, la natura umana, ritratti di contemporanei, narrazioni di sogni e ricordi d'infanzia. Ne scaturisce un quadro vivissimo della Russia dell'epoca e un nudo ritratto dell'interiorità cvetaeviana.
Nella Mosca postrivoluzionaria stretta dalla morsa della fame e della guerra civile, Marina Cvetaeva affida alle pagine dei taccuini il racconto delle sue giornate. Episodi di vita quotidiana si mescolano a lettere, progetti di opere, versi, fulminee riflessioni su di sé, sull'epoca, la poesia, la natura umana, ritratti di contemporanei, narrazioni di sogni e ricordi d'infanzia. Ne scaturisce un quadro vivissimo della Russia dell'epoca e un nudo ritratto dell'interiorità cvetaeviana.
I diari segreti della Cvetaeva dove l’orrore diventa poesia Escono i taccuini scritti dalla grande autrice a Mosca tra il 1919 e il ’21 Una
testimonianza dall’Urss del dopo rivoluzione tra guerra, sogni, ricordi
e miseria di una donna che, nonostante tutto, non rinuncia ai suoi
versi
di Giuseppe Dierna Repubblica 1.3.14
«La vita di Marina Cvetaeva –
osservava Gustaw Herlig – è una fiaba degli orrori, di quelle che si
raccontano ai bambini per educarli, mostrando loro i casi estremi della
vita». Di quell’orrorifica fiaba, iniziata nella sonnolenta Russia
ancora zarista del 1892 e conclusasi, nel 1941, nell’Urss del doppio
terrore (quello stalinista e quello cadenzato dall’avanzata tedesca su
Mosca), i Taccuini 1919-1921, pubblicati per la prima volta in italiano
da Voland nella bella traduzione di Pina Napolitano, ci offrono
un’impietosa carrellata lungo i feroci anni del comunismo di guerra
visti dalla capitale, dove la Cvetaeva si trova da sola (il marito,
Sergej Efron, ha deciso di combattere la Rivoluzione con l’Armata bianca
nel Sud del paese) a barcamenarsi tra la gestione di una casa che le si
sta sbriciolando tra le dita, due bambine di due e sei anni, gli
approvvigionamenti che scarseggiano e il mondo della (nuova) cultura del
dopo-rivoluzione che la ignora, prontamente ricambiato. E cercando poi,
in quella baraonda, anche di scrivere, perché – senza – lei proprio non
riesce a starci.
Aveva esordito, diciottenne, con una raccolta che
non era passata inosservata (cui aveva fatto seguito nel ’12 già la
seconda). Ma ora è un po’ che non pubblica nulla. La committenza ha
esigenze diverse dalle sue. Lontana dall’ostentata dirompenza dei
futuristi alla Majakovskij («arcangelo dal passo pesante », «schianto di
ciòttoli», come scriverà ammirata nel ’21) o dallo sperimentalismo
oltranzista di un Chlebnikov (ma anche dalla scrittura ancora
elegantemente levigata dei padri simbolisti), nei suoi versi la Cvetaeva
ama affastellare ardimentosi incastri verbali, sequele dissonanti,
sconquassando il ritmo delle frasi.
La sua poesia – orgogliosa e
arrogante – è tutto un accavallarsi di invocazioni al lettore (come poi
le sue lettere), mentre sul tessuto intimistico di quelle confessioni
poetiche si aprono squarci dove, come nelle dissolvenze del cinema, si
stagliano Amleto, Ofelia, Re David e Saul morente, Elena, Arianna, ma
anche Marina Mniszek, figura quasi da leggenda, che nella Russia dei
Torbidi aveva sposato il falso Dmitrij (o meglio: due falsi Dmitrij in
successione), condividendone il destino di morte («non l’amica essere,
ma la complice! Gemello – sosia – slanciato fratello di sangue, fiamma
di rogo, la sua scimitarra ricurva»). Calamita troppo forte per
resistervi, per una poetessa come lei («digrignante eretica, sorella del
Savonarola») sempre propensa al gioco dell’identificazione
sprezzante. «Caparbia, indocile, sempre sovreccitata, sempre immersa nel
folto del cataclisma» (A. M. Ripellino), lei non stava certo lì a
cercare una qualche rappacificazione. Anzi, invitata nel dicembre del
’20 a un’improbabile «serata di poetesse», si presenta – tra colleghe
«vestite di pizzi e merletti» – con cinturone in pelle, giberna e
stivali di feltro. A introdurre la serata c’è oltretutto Valerij
Brjusov, un tempo stimato poeta, ma oramai zelante carrierista e
osteggiatore della sua poesia. Nella sua prolusione ricorda che da
sempre la donna «ha saputo cantare solo amore e passione». La Cvetaeva
dal palcoscenico si affretta a smentirlo, declamando versi
dall’Accampamento dei cigni, raccolta dedicata alle Guardie bianche in
guerra – una guerra ormai persa – contro l’Armata rossa. Dirà poi
soddisfatta: sette poesie e mai una volta la parola “amore”!
I
taccuini ci raccontano, col loro andamento sconnesso, la Cvetaeva di
quei tragici anni. A partire dal ritratto che ne fa la figlia Ariadna
(Alja), sei anni ma alquanto precoce («così amiche noi due! Così orfane
entrambe! »): «Ha gli occhi verdi, meravigliose sopracciglia folte,
capelli chiari vaporosi che terminano in favolosi boccoli. Se si taglia
una ciocca, si può pensare che sia un braccialetto senza fibbia, per un
piccolo braccio».
Perché c’è sempre qualcosa d’irreale in quella vita
nell’appartamento sgangherato in vicolo Boris e Gleb, dove regna «un
tale disordine, tutto cade a pezzi». Appartamento saccheggiato dai nuovi
inquilini imposti dalle leggi della coabitazione, dove domina una
povertà tale che un ladro che vi si è introdotto offre generosamente del
denaro, e si vive col terrore che possa andar via la luce, non
essendoci «nemmeno un lumino […]. Cosa farò per tutta la sera, se non
posso neanche scrivere il taccuino?». La Cvetaeva non aveva all’epoca un
lavoro stabile. Nella primavera del ’19 aveva lasciato, dopo cinque
mesi, l’impiego di archivista al Commissariato del Popolo per le
questioni nazionali, procuratole da uno dei nuovi inquilini, membro
della Polizia segreta («Non lavorerò più. Mai. Dovessi morire»). Scherzi
della sorte: a dirigere il Commissariato c’era all’epoca Stalin in
persona.
La poetessa vive – con le bambine – di pasti gratuiti che
bisogna faticosamente andare a recuperare, addosso «giorno e notte
sempre lo stesso vestito marrone di fustagno», costretta a tagliar legna
per la stufa («Venere stessa con l’ascia in mano spacca la legna negli
scantinati», si legge in una poesia del ’19), a dar via per soldi i
libri di casa. In un questionario inviatole nel ’26 a Parigi da Boris
Pasternak per un progettato Dizionario degli scrittori, dopo aver
ricordato che a Mosca vi sono tre biblioteche donate dai suoi genitori,
conclude: «donerei anch’io la mia, se non fossi stata costretta a
venderla negli anni della Rivoluzione ».
Come nelle vecchie soffitte,
la Cvetaeva nei suoi affascinanti taccuini – diario e romanzo a un
tempo – c’infila di tutto: sogni, canzoncine infantili, lettere, lunghi
brani di Alja, considerazioni sulla propria poesia («ogni mio verso è
l’ultima cosa che so su me stessa»), parole terribili sulla morte per
stenti della figlia più piccola, sulla crescente emarginazione,
sull’angoscia di non sentirsi indispensabile. E poi una feroce autopsia
dei propri reiterati amori ancora in corso d’opera, sorta di bilancio
continuo, ma anche dialogo con l’amante assente, ammissione tacita
dell’impossibilità a farlo nello spazio estraneo del reale.
E in
questo straripamento, stupisce nelle pagine la quasi totale assenza del
marito, partito per la Crimea nell’autunno del ’17 e di cui per quattro
anni si perdono le tracce. È proprio in una sua lettera del ’24 – dopo
il ricongiungimento a Berlino – che troviamo la messa a fuoco forse più
attenta del carattere della Cvetaeva, di quella sua «necessità di
gettarsi a capofitto nell’uragano », nell’«autoinganno», qualunque
aspetto esso prenda: «una persona viene inventata e comincia l’uragano»,
e poi «tutto viene trascritto in un libro. Tutto si riversa con
matematica precisione in una formula. Come un’enorme stufa che per
funzionare ha bisogno di legna, tantissima legna».
Sarà in larga
misura lui il motore di alcune decisioni che muteranno la sorte della
Cvetaeva, già schiacciata dall’estenuante lotta per la sopravvivenza
nella «Mosca-trappola per topi» dei taccuini del ’19. Sarà lui a
spingerla a lasciare nel ’22 la Russia per raggiungerlo in un
vagabondare che li sballottolerà a Berlino, Praga e poi in una Parigi
salottiera ed estranea. E sarà infine ancora lui, ormai agente della
Polizia segreta sovietica, a indurre – prima la figlia Alja, poi la
moglie e il figlio Mur, nato a Praga nel ’25 – a tornare tra il ’37 e il
’39 in una Mosca di nuovo trappola per topi, dove il destino dei
quattro si perderà in un campo di lavoro (per Alja, l’unica
sopravvissuta), davanti a un plotone d’esecuzione (per Efron), sul campo
di battaglia (per Mur), nel cappio di una corda per la poetessa Marina
Cvetaeva.
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