domenica 4 maggio 2014

Michael Walzer dal trotzkismo alla legittimazione della "guerra giusta"

MICHAEL WALZER "NON BISOGNA MAI RINUNCIARE ALLA VERITA'"
166 07-05-2014 la repubblica 47 



Il walzer di Walzer e la lotta di classe
di Bruno Gravagnuolo l’Unità 7.5.14

CONTRORDINE: MICHAEL WALZER CI RIPENSA: NON BASTA LA CITTADINANZA, ci vuole la lotta di classe. Già, ma chi è Walzer? È uno dei più famosi intellettuali liberal Usa. Teorico dei diritti e del comunitarismo democratico, aperto e multi-culturale. E questa cosa la dice in un incontro promosso da Reset - con Luiss, Feltrinelli e Centro studi americani tra Roma e Milano da oggi a domani - la rivista liberal diretta da Giancarlo Bosetti. Già con la guerra irachena Walzer aveva preso un abbaglio, in nome della guerra umanitaria. Ma poi si corresse. Ora l’autocritica è ancor più radicale. Non solo critica la cittadinanza ormai fluida e senza appartenenza ma addirittura rivaluta la lotta di classe e il ruolo dello stato-nazione: ovvero lavoro e identità nazionale. Senza i quali i cittadini non possono autoriconoscersi, né individuare obiettivi comuni. Contro un globalismo neutro che impone le sue leggi economiche. E che perciò alimenta il populismo. Bene, è un capovolgimento totale della sinistra liberale basata sull’ «inclusione» e non già sull’emancipazione dei subalterni dal dominio economico. E stupisce (anzi no) che Eugenio Scalfari abbia capito tutto il contrario di quest’ultimo Walzer, nel suo editoriale su Repubblica. Perché la critica di Walzer è rivolta esattamente contro l’ideologia della cittadinanza che con la sua impotenza genera populismo. E non all’uso nazionalista che il populismo fa della cittadinanza. Infatti per Walzer si tratta di riempire la cittadinanza di contenuti «di classe». E proprio a tal fine, dice Walzer, occorre recuperare lo stato nazionale e non darlo per morto. E perché resta un anello chiave della democrazia, tra locale e globale. «Se recupereremo la cittadinanza a casa nostra - dice Walzer - scopriremo che il mondo non è tanto distante». Più chiaro di così! Morale europea: la sovranità degli stati non si può liquidare in ambito Ue. Altrimenti l’egemonia liberal-monetarista alla tedesca distruggerà (di nuovo) l’Europa. Dopo aver scatenato i populismi.

Michael Walzer “Non bisogna mai rinunciare alla verità”
intervista di Giulio Azzolini Repubblica 7.5.14


«QUANDO fare giustizia rischia di compromettere la pace, una via resta comunque aperta: quella della verità». Il filosofo politico Michael Walzer guarda in prospettiva al delicato caso di Gerry Adams, lo storico leader del partito nord-irlandese Sinn Féin, tenuto in carcere quattro giorni con l’accusa di omicidio per un fatto che risale a 42 anni fa. Walzer, professore emerito a Princeton, è in Italia per partecipare agli incontri organizzati da Giancarlo Bosetti per il ciclo Reset-Dialogues on Civilizations ( oggi pomeriggio alla Luiss di Roma, domani alla Fondazione Feltrinelli di Milano), ma sceglie di non sottrarsi alla controversia che sta animando il dibattito pubblico anglosassone, e non solo.
Professore, anche lei ritiene inquietante l’arresto e il rapido rilascio di Gerry Adams? Teme che sia la miccia di nuove vendette e violenze nell’Irlanda del Nord? «È difficile dirlo. Nutro un forte scetticismo rispetto agli sforzi dei giudici nel dimostrare la colpevolezza di Adams. E poi di quale tipo di complicità si sarebbe macchiato? Avrebbe autorizzato l’omicidio o, pur conoscendoli, avrebbe omesso di denunciare i suoi veri autori? Ma, al di là dell’aspetto giudiziario, non si può negare la rilevanza della questione, visto che alla fine degli anni Ottanta Adams ha svolto un ruolo da protagonista nel negoziato che mise fine al conflitto civile in Irlanda».
Crede che, in questi casi, l’amnistia sia l’unico strumento per preservare la pace?
«L’amnistia è un prezzo molto difficile da pagare perché implica la rinuncia alla giustizia. Eppure sono parecchi i casi di transizione da un conflitto civile o da un regime autoritario verso uno Stato pacifico e democratico in cui si è fatto ricorso a tale strumento. Spesso sono gli esponenti del vecchio regime o coloro che hanno combattuto e perso a chiedere l’amnistia, ma non sempre è così. Pensi al caso di Pinochet in Cile, quando nel 1978 varò la legge d’amnistia per i crimini perpetrati a partire dal colpo di Stato del ‘73. Il primo governo cileno eletto democraticamente dopo la dittatura tentò di abolire l’amnistia, ma per conseguire una transizione pacifica quella legge rimase. In seguito, è stata impugnata da molti tribunali internazionali, perché per alcuni crimini contro l’umanità non può esserci oblio».
Qual è allora l’alternativa tra processo e amnistia nelle fasi di transizione?
«In questi casi è coerente investigare sui crimini commessi e assicurare alla popolazione la conoscenza della verità, senza per questo dover ricorrere a processi di massa. In qualche misura, il modello è la Commissione sudafricana per la Verità e la Conciliazione. Un giudice che ha preso parte a quella commissione mi ha rivelato che di verità non ce n’è stata abbastanza e che nemmeno la riconciliazione è riuscita del tutto. Eppure quello è stato un tentativo onesto compiuto nella direzione giusta. E infine c’è una quarta strategia».
Quale?
«Nella Cecoslovacchia post-comunista, per esempio, chi aveva ricoperto incarichi pubblici durante il regime sovietico fu bandito dall’attività politica. Nessuna incarcerazione, ma la “semplice” espulsione dalla vita politica. Ecco un altro modo di affrontare il problema della transizione».
E come risponderebbe a chi, in questi passaggi, evoca il segreto di Stato?
«Non penso che i crimini commessi da un governo possano essere protetti da leggi sul segreto di Stato. Dovrebbero essere denunciati piuttosto, tanto dalla stampa quanto dalla classe politica».
Vuole dire che la risoluzione delle transizioni esige una condanna politica prima che giudiziaria?
«Esatto. Non bisogna tirarsi indietro rispetto alla ricerca della verità. Di fronte a questa, però, ci vuole un atto di condanna politica. Sul piano giudiziario serve un compromesso, ma sul piano politico no».

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