domenica 4 maggio 2014
Zeev Sternhell: Israele ovvero l'apartheid
Zeev Sternhell
«Apartheid già presente in Israele»
A
68 anni dalla nascita dello Stato ebraico il più autorevole storico
avverte: «Nella società si sta affermando il revisionismo sionista da
popolo eletto» «Se il palestinese o l’arabo israeliano vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità»
di Umberto De Giovannangeli l’Unità 4.5.14
Il
grande storico guarda con amaro realismo il presente del suo Paese,
analizza con la consueta passione civile e lucidità intellettuale le
dinamiche, non solo politiche ma culturali, identitarie, che segnano
oggi Israele, a pochi giorni dal68moanniversario della sua fondazione.
La parola a Zeev Sternhell, 79 anni, il più autorevole storico
israeliano. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d’Israele. Miti,
storia, contraddizioni”; «Nascita dell’ideologia fascista»; «Contro
l'illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda», editi in Italia da
Baldini Castoldi Dalai. Nel 2008, è stato insignito della più
prestigiosa onorificenza culturale e scientifica del suo Paese: il
Premio Israele per le Scienze politiche. Più che un j’accuse contro
l’attuale classe dirigente israeliana, Sternhell pone l’accento sulla
«psicologia di una nazione», il suo senso comune, in rapporto all’annoso
tema della pace. «Oggi – riflette lo storico – non vi è alcun segnale
che indichi la volontà, oltre che la capacità, di forgiare una
maggioranza a sostegno di un accordo equo con i palestinesi”. Quanto
alla richiesta reiterata più volte dal premier Benjamin Netanyahu al
presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu
Mazen) di riconoscere Israele come Stato ebraico, Sternhell annota:
«Avanzare questa richiesta significa pretendere che i palestinesi
ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva
degli ebrei del Paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro
identità nazionale, accettando una resa storico- culturale prim’ancora
che politica».
Professor Sternhell, i negoziati di pace
israelo-palestinesi sono di nuovo a uno stallo, in un rimpallo di
responsabilità tra le due parti. Visto da un intellettuale come lei, da
sempre impegnato nel dialogo, qual è il segno di questa ennesima battuta
d’arresto?
«Il segno dei tempi, il segno di un arretramento
culturale prim’ancora che politico che non riguarda solo l’attuale
classe politica, alquanto modesta, del mio Paese. Ciò che mi preoccupa
di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele, una
idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica. È
qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. È la
convinzione che l’unica pace accettabile è la resa incondizionata dei
palestinesi. Vede, se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per
la pace o per la guerra, le risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma
la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di
pace. È qui che si nasconde l’arretramento”.
Qual è la «pace» giusta per lei?
«È
quella che non può fare a meno di un concetto fondamentale: la
giustizia. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a
un misero fallimento. Ma la giustizia, in questo caso, è tale se
riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il
monopolio della forza. Vede, nel mio Paese chi si considera di sinistra
evoca spesso la necessità di battersi perla giustizia sociale. Ma come è
possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia
come un valore universale? Quali sonoi confini della giustizia e della
sua attuazione? Questo ci riporta all’occupazione. La giustizia non è
solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto
alla libertà perun popolo che vive sotto occupazione. Prima che in
politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura,
del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad
affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello
che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto;
una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra
d’Israele piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele. In questa
visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i
diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire
il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna
entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito
per raggiungere tale fine e nessun prezzo è considerato troppo elevato.
Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”.
Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità
anacronistica».
C’è chi paventa il rischio che proseguendo l’occupazione, Israele possa trasformarsi in uno «Stato di apartheid».
«Non
si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella
realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità, e nella
percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per
cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato”
deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è
creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro
terre ma della loro identità, del loro essere più profondo. La strada
per il Sudafrica è stata pavimentata e potrà essere smantellata solo se
il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut aut…».
Quale? «Fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle
colonie e lo Stato dei coloni o essere un emarginato».
A proposito
dello “Stato dei coloni”. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un
dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli
insediamenti. Lei ha affermato in passato che questo boicottaggio non
può essere considerato come una forma di antisemitismo. È ancora di
questo avviso?
«Assolutamente sì. Il boicottaggio è soprattutto un
modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il
colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori».
Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani.
«È
bene che sia così. Ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel
mondo. Gli intellettuali sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma
rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano
che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti
esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamina la
storia ebraica di una macchia indelebile». Lei afferma che gli
intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi
vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica
“fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano. «No, non è
così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una
traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare
di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui
diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno.
Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i
palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione,
resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere
solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai
palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli perse
stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di
tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo
in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed
articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del
’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella
storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione
coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo
punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha
innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione
con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del
’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa. Da
risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da
compiere: quella di edificare la Grande Israele”.
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