martedì 30 settembre 2014

Fottuti!

«La vecchia guardia è spianata»  Così il leader spacca i dissidenti
Dopo le scintille in direzione la vittoria a larga maggioranza sul lavoro, Matteo Renzi è su di giri «La gente sta con me, non con  i sindacati» «Non temo franchi tiratori in Senato»

di Maria Teresa Meli Corriere 30.9.14 qui

La sinistra cerca la rivincita Ma il premier: “Con me l’80%. La partita è chiusa, adeguatevi”
di Goffredo De Marchis Repubblica 30.9.14

ROMA Renzi dice che il caso è chiuso, che alla fine «Bersani e D’Alema hanno fatto una brutta figura perché è finita 80 per cento a 20 per me» e quindi «la minoranza dovrà adeguarsi in Parlamento». La battaglia non si trasferisce in aula, secondo il premier, per il semplice motivo che gli oppositori della riforma del lavoro non hanno né i mezzi né gli uomini. «I gruppi parlamentari cambiano la decisione della direzione? Ma scherziamo! Che fanno, mandano sotto Speranza e lo costringono alle dimissioni?». In realtà qui si sta parlando di una sfida campale in cui la vittima designata, semmai, è proprio lui. Sono le sue dimissioni a essere in ballo. «Ma dove vanno Massimo e Pier Luigi? Fanno la scissione, un nuovo partito o addirittura un nuovo governo? E come? Con 20 voti, un altro governo muore prima di nascere », dice beffardo Renzi ai suoi collaboratori.
Ma ieri, nella direzione riunita all’attico di Largo del Nazareno, si è respirata l’aria dello scontro definitivo, quello da cui usciranno solo vincitori e vinti. Il premier è convinto di essere già nella prima categoria «perché si doveva spaccare la maggioranza e invece si è divisa la minoranza». Gli 11 astenuti provenienti dalle file dei bersaniani sono già un primo successo, a sentire Renzi. Al Senato però i numeri sono diversi. La legge delega sulla riforma e sull’articolo 18 arriva in aula domani per la discussione generale. Le votazioni potrebbero cominciare già giovedì o al massimo martedì della prossima settimana. Ci sono 7 emendamenti che smontano la riforma del governo e puntano conservare la regola così com’è seppure dopo una periodo di contratto a tutele crescenti. Le firme sotto questi emendamenti sono tra le 30 e le 40. Una cifra in grado di mandare abbondantemente in minoranza l’esecutivo costringendolo a cercare i voti di Forza Italia. «Non vogliamo buttare giù il governo — dice Stefano Fassina — ma obbligarlo a correggere la rotta». E se non c’è la correzione? «Ogni giorno ha la sua pena», risponde Fassina non smentendo una rottura definitiva.
Francesco Boccia e lo stesso Fassina hanno messo agli atti, in direzione, il documento alternativo a quello di Renzi. In cui si accettano l’estensione dei diritti e le tutele crescenti ma si mantiene l’articolo 18 riformato dalla legge Fornero. Soprattutto si collega la legge delega alla legge di stabilità perché il punto debole dell’operazione, secondo i dissidenti, è quello. Il tallone di Achille di Renzi che lo costringerà a «riflettere per non andare a sbattere». Anche sui licenziamenti. Ma dietro gli attacchi feroci di D’Alema e Bersani, c’è anche chi vede un disegno di più lungo orizzonte. Da giorni l’ex premier racconta agli amici che lo vanno a trovare alla fondazione Italianieuropei delle visite che riceve da parte di alcuni imprenditori. «È venuto Della Valle», diceva. Ma a sorpresa, in una pausa sul terrazzo del Nazareno, ieri ha tirato fuori un altro nome forte del renzismo. «È venuto a trovarmi Oscar Farinetti. Anche lui è molto deluso da Renzi perché promette molto più di quello che fa».
Come possa nascere e reggere un’asse tra la sinistra del Pd, i cosiddetti poteri forti e gli orfani del renzismo delle origini, a oggi, è un mistero. Però gli oppositori dicono che Bersani e D’Alema non sono «emotivi», se hanno usato quei toni è solo perché sono sicuri o di piegare la resistenza del premier o perché hanno in mente soluzioni diverse. «Scordatevi le soluzioni diverse », ripete Fassina. «Vogliamo evitare, visti i numeri, il disastro che si prepara con la manovra», gli fa eco Boccia. Aiutare, correggere, migliorare. Sarebbero queste le buone intenzioni della minoranza.
Ma il clima dentro il Pd è di totale sfiducia, di volti che si guardano in cagnesco. Un piccolo episodio è rivelatore. Il sindaco di Crema Stefania Bonaldi, elettrice di Renzi alle primarie, demolisce l’azione di governo e la proposta sul lavoro. Dalla platea la rimbrottano e lei per rispondere usa il lei anziché il tu. Altro che compagni. Renzi può aver vinto la partita dell’articolo 18, ma i suoi oppositori sono convinti che avrà molte difficoltà a partorire una Finanziaria efficace e concreta. D’Alema lo ha spiegato: «20 miliardi prendendone uno qua e uno là, così si rischia di fare una manovra sbagliata». Come dire che l’autunno caldo il premier deve aspettarselo più dentro le aule parlamentari che nelle piazze. Una minaccia che non scuote Renzi. Anzi, ne esalta la voglia di confronto muscolare. E nei suoi discorsi non manca mai di accennare all’ipotesi finale. «Rompono? E dopo? Vogliono andare a elezioni? E con quali voti?».

D’Alema e Bersani all’assalto, ma le truppe vacillano
Due padri del partito contro il segretario: ma la Direzione si spacca
di Fabio Martini La Stampa 30.9.14 qui

Premier più cauto ma la sinistra naufraga
di Stefano Folli Il Sole 30.9.14

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l'essenza della riforma, ma ha gettato un po' d'acqua sull'articolo 18.
Ora c'è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai "conservatori".
Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D'Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.
Non perché evocare la "dama di ferro" sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D'Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l'uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l'annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l'art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.
Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un'opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi. Per sedurre l'elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose.
Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all'art. 18 non ha preso forma alcun partito "thatcheriano".



Il Pd non imploderà e l'art.18 già manomesso sarà un ricordo
di Carlo Patrignani L’Huffington Post 29.9.14 qui

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