martedì 16 settembre 2014
Meritevole filosofa del PD deplora l'esibizionismo esibendosi a Modena
Questo testo è un estratto dell’intervento che Michela Marzano terrà domani (a Sassuolo, piazza Garibaldi, alle 1-6.30) al Festival Filosofia, in programma a Modena, Carpi e Sassuolo da domani a domenica
PROTAGONISMO . Se c’è un
termine che sembra riassumere perfettamente l’epoca contemporanea, è
proprio questo. Nella sua duplice accezione di “visibilità” e di
“riconoscimento”. Da un lato, il bisogno di essere sempre al centro
dell’attenzione è ormai spasmodico, come se l’unico modo di esistere
fosse quello di ottenere visibilità e notorietà. Dall’altro lato, i
meccanismi di anonimato e d’intercambiabilità che dominano molti ambiti
della vita spingono molte persone a rivendicare il riconoscimento per la
propria singolarità. Anche se poi non c’è nessun legame logico o
concettuale tra visibilità e riconoscimento. Anzi. Talvolta è proprio a
forza di voler compiacere tutti per accumulare i “mi piace” sui social
network, che si finisce col perdere di vista chi si è, e quello in cui
si crede veramente.
Quando il protagonismo si riduce alla notorietà
effimera che si può conquistare sulla scena mediatica, i compromessi
diventano il pane quotidiano. Ciò che conta non è la propria
individualità, ma l’immagine di sé che si cerca di costruire alla
ricerca del consenso. «Il bisogno di gloria», scriveva il filosofo Emil
Cioran nei Quaderni, «deriva da un senso di totale insicurezza circa il
proprio valore, dalla mancanza di fiducia in se stessi». Se non si ha
alcuna certezza di valere, d’altronde, sembra evidente cercare conferme
continue e dipendere dalla sguardo altrui. Se si “vale” solo in base al
numero di follower che ci seguono, è difficile rinunciarci e smetterla
di fare di tutto per conquistarli. Tutto pur di essere protagonisti.
Tutto pur di non scomparire dalla scena. Anche se poi ci si svende per
poco. E a forza di tradire e di tradirsi, ci si perde. Come capirlo,
però, in un mondo in cui si è sistematicamente rinviati alla propria
inutilità?
Il problema di fondo è proprio qui: a forza di essere
“risorse”, e in quanto tali interscambiabili perché di fatto “l’uno vale
l’altro”, nessuno si sente più riconosciuto. E il riconoscimento, come
spiega bene Axel Honneth, è la chiave di volta della fiducia. Si fanno
sforzi, ci si impegna, ci si batte. Ma se poi non si viene riconosciuti,
e quindi non si viene amati così come si è, non si è protetti a livello
giuridico da un sistema che rispetti la propria dignità e non si ha
l’opportunità di trovare un lavoro attraverso cui non solo garantire il
proprio sostentamento ma anche consolidare la propria identità — è
proprio attraverso i concetti di amore, diritto e lavoro che Honneth
declina la nozione di riconoscimento — non si può essere protagonisti
della propria vita. Ci si trascina alla ricerca di certezze. Ci si
schianta contro l’anonimato. E allora, invece di rivendicare il diritto a
un protagonismo reale, si scivola nell’illusione di conquistare
importanza e valore attraverso il protagonismo effimero dell’apparenza.
Si ripete una, mille, centomila volte “io”, ma di fatto l’io si
sbriciola perché ridotto a mera immagine. La controfigura di un
protagonista. Che recita un ruolo imparato a memoria, senza più sapere
da dove viene e verso dove va.
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