Deleuze si propone di elaborare una ricostruzione sistematica del pensiero di Foucault, considerato come filosofo a tutti gli effetti. L'itinerario proposto parte da quello che viene colto come un primo asse, relativo al problema e al concetto di sapere. L'analisi sulle condizioni di possibilità dell'enunciabile e del visibile sfocia in una ricerca filosofica sull'essere del linguaggio e della luce, in opposizione allo strutturalismo, alla fenomenologia e alla linguistica. A emergere è una concezione complessa e originale dei legami tra le visibilità e gli enunciati, che si definisce mettendo Foucault in relazione con Kant e Blanchot, con il cinema di Syberberg, degli Straub o di Duras, oltre che con la scrittura di Raymond Roussel. Infine, attraverso le nozioni di regolarità e singolarità, l'indagine sul sapere sfocia sul secondo asse, costituito dal potere.
Deleuze non entra in punta di piedi nel corpus foucaultiano. Il suo è un gesto diverso, che si pone come l'esercizio di un filosofo su un altro filosofo, come il prodotto dell'interazione fra due costellazioni teoriche o, meglio, come il tentativo di presa dell'una sull'altra.
Deleuze-Foucault, così vicini così lontani
Gilles Deleuze. Pubblicato il primo volume che raccoglie i corsi del filosofo francese dedicati a Michel Foucault. Un’immersione nel labirinto rappresentato dal rapporto tra sapere e potere
Gilles Deleuze e Michel Foucault hanno intrattenuto un’amicizia profonda e distante. Misterioso rapporto, l’ha definita Deleuze nell’intervista a Claire Parnet sull’Abecedaire. Poi subentrò il rammarico quando il filosofo delle Parole e le cose o di Sorvegliare e punire morì nel 1984. I rapporti si erano raffreddati dopo una serie di dissidi teorici e politici. Nel 1976 Foucault criticò la nozione di desiderio di Deleuze-Guattari nell’Antiedipo. Poi si allontanarono sul caso dell’avvocato della Raf Klaus Croissant, estradato dalla Francia in Germania nel 1977. Emersero divergenze anche sulla questione palestinese.
Deleuze conservò tuttavia un enorme rispetto nei confronti di Foucault. Per lui era una «ventata speciale». «Era atmosferico», come un’emanazione o un’irradiazione. La si percepiva quando entrava in una stanza. L’aria cambiava. Ricordo di un gesto di metallo, di legno secco, strano e attraente in cui era possibile percepire un grano di follia. Dentro Foucault c’era una piccola radice che permetteva alle cose di mostrarsi in una luce diversa. Quando la radice germoglia, produce conoscenza. Come in ogni attività vivente, la crescita è un evento drammatico. Se la follia è il grano da cui nasce il pensiero, il trauma è la condizione di un nuovo pensiero.
Anche quello di Deleuze è stato un gesto innovativo. Artista del ritratto, più che compilatore di storie della filosofia, il suo è un pensare con Foucault, non un volerlo spiegare in quanto autore da collocare in un museo. Il pensiero è sempre contemporaneo, diviene con i suoi problemi. Per questo bisogna catturarne l’atmosfera.
Questo è il risultato di Foucault, monografia di Deleuze pubblicata nel 1986, due anni dopo la morte dell’amico (ripubblicata da Cronopio). È un libro da leggere per capire un percorso che ancora oggi, grazie alla pubblicazione dei corsi al Collège de France, conosce un’inesauribile vitalità. Per preparare i materiali di questo capolavoro della filosofia contemporanea, Deleuze impartì tra il 1985 e il 1986 un ciclo di lezioni che oggi sono state pubblicate in italiano dall’editore Ombre Corte. È da poco in libreria il primo volume Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985–1986)/1, (euro 23, pp. 269). Ne seguiranno altri due.
Nel 1999, la Biblioteca Nazionale di Francia ha stabilito un archivio delle registrazioni delle lezioni tenute da Deleuze all’università Parigi VIII tra il 1979 e il 1987. I seminari sono stati registrati da molti studenti, provenienti da tutto il mondo, proprio come accadeva a Foucault al Collège. La Bn ha riversato le audio-cassette in file digitali e così nel 2011 anche le lezioni su Foucault sono state rese disponibili su Internet. È un piacere leggere, e non solo ascoltare, i materiali densi, la lingua complessa, il labirintico argomentare di Deleuze, le fulminee definizioni che colgono le fasi atmosferiche e i dispositivi teorici confluiti nella monografia-ritratto.
Filosoficamente, Deleuze chiarisce l’eredità kantiana (e heideggeriana) sviluppata da Foucault nei primi anni del suo lavoro e spiega come in seguito abbiano pesato sul suo metodo archeologico e genealogico. Ne emerge il ritratto di un filosofo nè strutturalista, né fenomenologo. Foucault è un pensatore dell’immanenza, un materialista radicale di nuovo genere. Un apprezzamento giunto negli anni Ottanta che rispecchia quello dato da Foucault negli anni Sessanta: il XXI secolo sarebbe stato «deleuziano».
Al centro delle lezioni c’è l’interrogazione sul potere. Con una differenza rispetto al 1972 quando, in un dialogo sulla rivista «L’Arc», Deleuze osservò che il potere di Foucault era un concetto totalizzante e non spiegava il motivo per cui gli uomini lo desiderano, preferendo essere dominati piuttosto che mantenere la propria libertà. Negli anni successivi, Deleuze avvertì un cambiamento in Foucault. Cita una frase da La vita degli uomini infami dove Foucault avverte un limite e propone un rimedio: «Qualcuno obietterà – scrive – rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il confine, di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso; sempre la stessa scelta di collocarsi dalla parte del potere, di quello che esso dice o fa dire».
Superare la linea del potere significa raggiungere un terreno dove l’esistenza è già data, ma non il modo in cui essa è determinabile. Non lo può essere dal potere che non tutto può catturare. Bisogna, al contrario, parlare del potere partendo da un terreno che non è di nessuno, ma è di tutti. Con la storia della sessualità e quella della verità in Grecia, a Roma e nel primo Cristianesimo, Foucault cambiò impostazione e, invece del potere in quanto tale, iniziò a interrogare l’etica e il suo rapporto con la politica.
L’oggetto di questa riflessione era uno spazio dove il soggetto è impegnato a definire il proprio sé attraverso la mediazione delle norme da rispettare e le azioni da compiere. Tale spazio assume una dimensione costituente («etopoietica» scrive Foucault) quando il soggetto matura la forza di trasformare il proprio modo di vita, crendo pratiche e modelli giudicabili dove emerge un’autonomia dal potere. Questo è tanto più vero nelle società neo-liberali dove il potere coltiva la libertà, mentre i soggetti possono sviluppare un’autonomia che è anche il luogo di una contestazione possibile.
Nelle lezioni, Deleuze insiste molto sul rapporto tra il sapere e il potere, profonda «antinomia» e complesso dualismo che caratterizzò la riflessione di Foucault negli anni Sessanta. Vent’anni dopo, in corsi come Il governo dei viventi (Feltrinelli) o Subjectivité et vérité, in conferenze rivelatrici come Sull’origine dell’ermeneutica di sé (Cronopio) o Mal fare, dire vero (Einaudi), Foucault interroga sempre il «sapere», ma da un punto di vista politico e affermativo: la verità non è l’espressione di una conoscenza pura ma è un «sovrappiù di forza» che eccede il potere. Il «sapere» non è più un discorso filosofico-giuridico, ma si proietta sulle pratiche e spinge il soggetto al superamento dei suoi limiti.
L’etica viene intesa come una forza che, da un lato, permette la maturazione della volontà di non essere eccessivamente governati e, dall’altro lato, istituisce la «politica di noi stessi», cioè «il principale problema politico dei nostri giorni» scrive Foucault. Il percorso seguito da Foucault rientra in quello che Deleuze ha definito il momento spinozista del pensiero politico.
Più che imporre i valori dell’«uomo», rispettando così i principi della «morale», la politica è l’espressione di una potenza che si manifesta secondo infinite modalità e gradazioni. Nasce da qui l’esigenza di sperimentare i ruoli, allontanandosi dall’idea che la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce sia irreversibile. Tale distinzione è mutevole. La politica non è un gioco fissato per sempre dalla decisione di un sovrano o dal contratto tra le parti. Essa è una permanente negoziazione sulle leggi, sul potere e sulle norme. Foucault ha affrontato la sfida dal punto di vista dell’individuo e del suo rapporto con il governo. Deleuze è invece partito da una molteplicità, di cui l’individuo e il governo sono espressione, cercando di articolare la potenza dei molti e non il potere dei pochi.
Due filosofi: così lontani, così vicini. Uniti dall’idea che l’etica sia l’espressione della potenza, mentre la politica è una sperimentazione oltre la linea delle identità prestabilite, dove i molti che obbediscono ai pochi lo fanno in base a certezze infondate e rinegoziabili. Qualcosa che il potere, e i suoi custodi, trovano intollerabile e inaccettabile.
Intervista. Parla Judith Revel del Centro Foucault di Parigi. Quello del filosofo francese è un utile dispositivo per cartografare le mappe, le via di fuga e i modi per contenere il potere
Sono tre le generazioni cresciute studiando Michel Foucault, scomparso 30 anni fa. La prima lo ha conosciuto e ha frequentato le sue lezioni. La seconda si è formata sull’imponente raccolta di materiali dei Dits et Écrits pubblicati nel 1994. La terza è stata investita dalla valanga dei corsi al Collège de France che hanno modificato la percezione del filosofo.
Judith Revel, ordinaria di filosofia contemporanea all’università Paris-Ouest Nanterre e membro del consiglio scientifico del Centro Foucault, si è ritrovata nel mezzo. Ha conosciuto la prima generazione e ha visto crescere la terza che oggi usa Foucault in campi diversi. «I corsi al Collège de France mostrano come Foucault costruiva il suo pensiero. – afferma — Fino a quindici anni fa avevamo accesso al pensiero compiuto dei libri, percezione modificata già in parte dai Dits et Écrits. Oggi cogliamo nei corsi la ricerca foucaultiana, il momento della sua elaborazione. Mostrano in particolare che non esiste una cesura tra il decennio politico degli anni Settanta e l’apertura degli studi sull’etica antica».
Molti studiosi hanno sostenuto che il «trip greco-romano» portò Foucault a maturare una visione estetizzante della vita. È d’accordo?
Foucault deve molto a storici come Pierre Hadot o a Peter Brown, ma il suo problema non è l’esattezza filologica. Egli usa gli antichi per capire come, di fronte al potere, le «controcondotte» diventano pratiche che implicano, per quanto è possibile, la produzione di nuovi modi di vita e nuove forme di rapporto a sé e agli altri. La sua insistenza sull’estetica, cioè il «fare della propria vita un’opera d’arte», si spiega con l’esigenza di legare la resistenza a una potenza d’invenzione. Visto che non si esce mai dalle determinazioni del proprio presente, questa invenzione diventa un gesto costituente quando «eccede» ciò che ci fa essere quello che siamo.
Cosa intendeva Foucault quando diceva che l’obiettivo della filosofia dev’essere quello di «rifiutare ciò che siamo»?
Non significa che possiamo uscire dai rapporti di potere, ma possiamo individuarli, farne la cartografia, tentare di torcerli, spostarli, interromperli. La questione della critica non è solo quella del necessario riconoscimento dei nostri limiti stabilita da Kant. Foucault si «riappropria» di Kant e segnala la possibilità di sperimentare una differenza possibile. Con questa espressione egli intende una sperimentazione propositiva, affermativa, un pieno ontologico. Una «produzione» dice Foucault.
Perché Foucault diffidava delle teorie sulla liberazione?
La liberazione dal potere si riferisce sempre al potere. La «pratica intransitiva della libertà», invece, non esclude la liberazione ma rappresenta un elemento asimmetrico rispetto al potere. È una ricerca e sperimentazione permanente della differenza. Qual è la differenza possibile oggi? Questa, credo, è la domanda critica per eccellenza ed è cio che dovrebbe permetterci di lottare meglio e di più.
Che cosa significa resistere oggi?
Per Foucault i rapporti di potere sono «azioni sull’azione libera degli uomini» e implicano una gestione, un’amministrazione, uno sfruttamento della libertà. La resistenza, invece, se non si limita ad essere un contropotere, cioè un altro potere, deve introdurre un elemento di asimmetria rispetto al potere. Non se ne libera mai, perchè non si esce mai dai rapporti di potere, ma fa qualcosa che il potere non può fare. Produce un’eccedenza che inaugura, letteralmente, la vita stessa dall’interno delle maglie del potere. Parliamo di un’ontologia immanente: non è una metafisica, ma è legata alle pratiche e si gioca sul terreno della vita intesa come esistenza. Questa eccedenza inaugura la vita.
Su cosa sta lavorando la nuova generazione di studiosi che si è avvicinata a Foucault?
Sono tanti e sono bravissimi. Riescono ad intrecciare una formidabile conoscenza del corpus teorico e l’uso libero della «scatola degli attrezzi» foucaultiana. In Italia c’è la rivista on line «materiali foucaultiani»: un bel lavoro di riflessione sui testi, ma anche l’investimento di campi inediti e la sperimentazione d’innesti filosofici appassionanti. Penso al lavoro di cartografia biopolitica dei dispositivi di gestione dei migranti nel Mediterraneo svolto da Martina Tazzioli; o al modo in cui Daniele Lorenzini legge insieme Foucault, Wittgenstein e alcuni autori del «perfezionismo morale» come Arnold I. Davidson o Stanley Cavell. E poi bisogna ricordare tutte le situazioni di lotta dove Foucault resta uno strumento critico fondamentale, basti pensare alla ripresa del movimento degli intermittenti e precari in Francia: diagnosi, conflitto e invenzione. Questa è la politica della «differenza possibile».
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