martedì 2 settembre 2014

Tradotta la prima parte del corso di Deleuze su Foucault

Gilles Deleuze: Il sapere. Corso su Michel Fou­cault (1985–1986)/1, Ombre Corte, euro 23, pp. 269

Risvolto
Con questo volume inizia la pubblicazione del Corso che Gilles Deleuze dedicò all'opera dell'amico a un anno di distanza dalla scomparsa. Sotto il titolo Il sapere - seguendo il suggerimento che lo stesso Deleuze sembra indicare individuando tre assi di sviluppo nell'opera di Foucault: il sapere, il potere e il desiderio - si presentano le prime otto lezioni, tenute tra l'ottobre e il dicembre del 1985.
Deleuze si propone di elaborare una ricostruzione sistematica del pensiero di Foucault, considerato come filosofo a tutti gli effetti. L'itinerario proposto parte da quello che viene colto come un primo asse, relativo al problema e al concetto di sapere. L'analisi sulle condizioni di possibilità dell'enunciabile e del visibile sfocia in una ricerca filosofica sull'essere del linguaggio e della luce, in opposizione allo strutturalismo, alla fenomenologia e alla linguistica. A emergere è una concezione complessa e originale dei legami tra le visibilità e gli enunciati, che si definisce mettendo Foucault in relazione con Kant e Blanchot, con il cinema di Syberberg, degli Straub o di Duras, oltre che con la scrittura di Raymond Roussel. Infine, attraverso le nozioni di regolarità e singolarità, l'indagine sul sapere sfocia sul secondo asse, costituito dal potere.
Deleuze non entra in punta di piedi nel corpus foucaultiano. Il suo è un gesto diverso, che si pone come l'esercizio di un filosofo su un altro filosofo, come il prodotto dell'interazione fra due costellazioni teoriche o, meglio, come il tentativo di presa dell'una sull'altra.

Un estratto da alfabeta2


Deleuze-Foucault, così vicini così lontani
Gilles Deleuze. Pubblicato il primo volume che raccoglie i corsi del filosofo francese dedicati a Michel Foucault. Un’immersione nel labirinto rappresentato dal rapporto tra sapere e potere 
 Roberto Ciccarelli, 26.7.2014

Gil­les Deleuze e Michel Fou­cault hanno intrat­te­nuto un’amicizia pro­fonda e distante. Miste­rioso rap­porto, l’ha defi­nita Deleuze nell’intervista a Claire Par­net sull’Abe­ce­daire. Poi suben­trò il ram­ma­rico quando il filo­sofo delle Parole e le cose o di Sor­ve­gliare e punire morì nel 1984. I rap­porti si erano raf­fred­dati dopo una serie di dis­sidi teo­rici e poli­tici. Nel 1976 Fou­cault cri­ticò la nozione di desi­de­rio di Deleuze-Guattari nell’Anti­e­dipo. Poi si allon­ta­na­rono sul caso dell’avvocato della Raf Klaus Crois­sant, estra­dato dalla Fran­cia in Ger­ma­nia nel 1977. Emer­sero diver­genze anche sulla que­stione palestinese.
Deleuze con­servò tut­ta­via un enorme rispetto nei con­fronti di Fou­cault. Per lui era una «ven­tata spe­ciale». «Era atmo­sfe­rico», come un’emanazione o un’irradiazione. La si per­ce­piva quando entrava in una stanza. L’aria cam­biava. Ricordo di un gesto di metallo, di legno secco, strano e attraente in cui era pos­si­bile per­ce­pire un grano di fol­lia. Den­tro Fou­cault c’era una pic­cola radice che per­met­teva alle cose di mostrarsi in una luce diversa. Quando la radice ger­mo­glia, pro­duce cono­scenza. Come in ogni atti­vità vivente, la cre­scita è un evento dram­ma­tico. Se la fol­lia è il grano da cui nasce il pen­siero, il trauma è la con­di­zione di un nuovo pensiero.
Anche quello di Deleuze è stato un gesto inno­va­tivo. Arti­sta del ritratto, più che com­pi­la­tore di sto­rie della filo­so­fia, il suo è un pen­sare con Fou­cault, non un volerlo spie­gare in quanto autore da col­lo­care in un museo. Il pen­siero è sem­pre con­tem­po­ra­neo, diviene con i suoi pro­blemi. Per que­sto biso­gna cat­tu­rarne l’atmosfera.
 
Tra mono­gra­fia e ritratto
Que­sto è il risul­tato di Fou­cault, mono­gra­fia di Deleuze pub­bli­cata nel 1986, due anni dopo la morte dell’amico (ripub­bli­cata da Cro­no­pio). È un libro da leg­gere per capire un per­corso che ancora oggi, gra­zie alla pub­bli­ca­zione dei corsi al Col­lège de France, cono­sce un’inesauribile vita­lità. Per pre­pa­rare i mate­riali di que­sto capo­la­voro della filo­so­fia con­tem­po­ra­nea, Deleuze impartì tra il 1985 e il 1986 un ciclo di lezioni che oggi sono state pub­bli­cate in ita­liano dall’editore Ombre Corte. È da poco in libre­ria il primo volume Il sapere. Corso su Michel Fou­cault (1985–1986)/1, (euro 23, pp. 269). Ne segui­ranno altri due.
Nel 1999, la Biblio­teca Nazio­nale di Fran­cia ha sta­bi­lito un archi­vio delle regi­stra­zioni delle lezioni tenute da Deleuze all’università Parigi VIII tra il 1979 e il 1987. I semi­nari sono stati regi­strati da molti stu­denti, pro­ve­nienti da tutto il mondo, pro­prio come acca­deva a Fou­cault al Col­lège. La Bn ha river­sato le audio-cassette in file digi­tali e così nel 2011 anche le lezioni su Fou­cault sono state rese dispo­ni­bili su Inter­net. È un pia­cere leg­gere, e non solo ascol­tare, i mate­riali densi, la lin­gua com­plessa, il labi­rin­tico argo­men­tare di Deleuze, le ful­mi­nee defi­ni­zioni che col­gono le fasi atmo­sfe­ri­che e i dispo­si­tivi teo­rici con­fluiti nella monografia-ritratto.
Filo­so­fi­ca­mente, Deleuze chia­ri­sce l’eredità kan­tiana (e hei­deg­ge­riana) svi­lup­pata da Fou­cault nei primi anni del suo lavoro e spiega come in seguito abbiano pesato sul suo metodo archeo­lo­gico e genea­lo­gico. Ne emerge il ritratto di un filo­sofo nè strut­tu­ra­li­sta, né feno­me­no­logo. Fou­cault è un pen­sa­tore dell’immanenza, un mate­ria­li­sta radi­cale di nuovo genere. Un apprez­za­mento giunto negli anni Ottanta che rispec­chia quello dato da Fou­cault negli anni Ses­santa: il XXI secolo sarebbe stato «deleuziano».
 
Oltre le linee del potere
Al cen­tro delle lezioni c’è l’interrogazione sul potere. Con una dif­fe­renza rispetto al 1972 quando, in un dia­logo sulla rivi­sta «L’Arc», Deleuze osservò che il potere di Fou­cault era un con­cetto tota­liz­zante e non spie­gava il motivo per cui gli uomini lo desi­de­rano, pre­fe­rendo essere domi­nati piut­to­sto che man­te­nere la pro­pria libertà. Negli anni suc­ces­sivi, Deleuze avvertì un cam­bia­mento in Fou­cault. Cita una frase da La vita degli uomini infami dove Fou­cault avverte un limite e pro­pone un rime­dio: «Qual­cuno obiet­terà – scrive – riec­coci, sem­pre con la stessa inca­pa­cità di oltre­pas­sare il con­fine, di pas­sare dall’altra parte, di ascol­tare e far com­pren­dere il lin­guag­gio che viene da altrove o dal basso; sem­pre la stessa scelta di col­lo­carsi dalla parte del potere, di quello che esso dice o fa dire».
Supe­rare la linea del potere signi­fica rag­giun­gere un ter­reno dove l’esistenza è già data, ma non il modo in cui essa è deter­mi­na­bile. Non lo può essere dal potere che non tutto può cat­tu­rare. Biso­gna, al con­tra­rio, par­lare del potere par­tendo da un ter­reno che non è di nes­suno, ma è di tutti. Con la sto­ria della ses­sua­lità e quella della verità in Gre­cia, a Roma e nel primo Cri­stia­ne­simo, Fou­cault cam­biò impo­sta­zione e, invece del potere in quanto tale, ini­ziò a inter­ro­gare l’etica e il suo rap­porto con la politica.
L’oggetto di que­sta rifles­sione era uno spa­zio dove il sog­getto è impe­gnato a defi­nire il pro­prio sé attra­verso la media­zione delle norme da rispet­tare e le azioni da com­piere. Tale spa­zio assume una dimen­sione costi­tuente («eto­po­ie­tica» scrive Fou­cault) quando il sog­getto matura la forza di tra­sfor­mare il pro­prio modo di vita, crendo pra­ti­che e modelli giu­di­ca­bili dove emerge un’autonomia dal potere. Que­sto è tanto più vero nelle società neo-liberali dove il potere col­tiva la libertà, men­tre i sog­getti pos­sono svi­lup­pare un’autonomia che è anche il luogo di una con­te­sta­zione possibile.
Nelle lezioni, Deleuze insi­ste molto sul rap­porto tra il sapere e il potere, pro­fonda «anti­no­mia» e com­plesso dua­li­smo che carat­te­rizzò la rifles­sione di Fou­cault negli anni Ses­santa. Vent’anni dopo, in corsi come Il governo dei viventi (Fel­tri­nelli) o Sub­jec­ti­vité et vérité, in con­fe­renze rive­la­trici come Sull’origine dell’ermeneutica di sé (Cro­no­pio) o Mal fare, dire vero (Einaudi), Fou­cault inter­roga sem­pre il «sapere», ma da un punto di vista poli­tico e affer­ma­tivo: la verità non è l’espressione di una cono­scenza pura ma è un «sovrap­più di forza» che eccede il potere. Il «sapere» non è più un discorso filosofico-giuridico, ma si pro­ietta sulle pra­ti­che e spinge il sog­getto al supe­ra­mento dei suoi limiti.
 
Così vicini, così lontani
L’etica viene intesa come una forza che, da un lato, per­mette la matu­ra­zione della volontà di non essere ecces­si­va­mente gover­nati e, dall’altro lato, isti­tui­sce la «poli­tica di noi stessi», cioè «il prin­ci­pale pro­blema poli­tico dei nostri giorni» scrive Fou­cault. Il per­corso seguito da Fou­cault rien­tra in quello che Deleuze ha defi­nito il momento spi­no­zi­sta del pen­siero politico.
Più che imporre i valori dell’«uomo», rispet­tando così i prin­cipi della «morale», la poli­tica è l’espressione di una potenza che si mani­fe­sta secondo infi­nite moda­lità e gra­da­zioni. Nasce da qui l’esigenza di spe­ri­men­tare i ruoli, allon­ta­nan­dosi dall’idea che la distin­zione tra chi comanda e chi obbe­di­sce sia irre­ver­si­bile. Tale distin­zione è mute­vole. La poli­tica non è un gioco fis­sato per sem­pre dalla deci­sione di un sovrano o dal con­tratto tra le parti. Essa è una per­ma­nente nego­zia­zione sulle leggi, sul potere e sulle norme. Fou­cault ha affron­tato la sfida dal punto di vista dell’individuo e del suo rap­porto con il governo. Deleuze è invece par­tito da una mol­te­pli­cità, di cui l’individuo e il governo sono espres­sione, cer­cando di arti­co­lare la potenza dei molti e non il potere dei pochi.
Due filo­sofi: così lon­tani, così vicini. Uniti dall’idea che l’etica sia l’espressione della potenza, men­tre la poli­tica è una spe­ri­men­ta­zione oltre la linea delle iden­tità pre­sta­bi­lite, dove i molti che obbe­di­scono ai pochi lo fanno in base a cer­tezze infon­date e rine­go­zia­bili. Qual­cosa che il potere, e i suoi custodi, tro­vano intol­le­ra­bile e inaccettabile.


La vitale immanenza di Foucault
Intervista. Parla Judith Revel del Centro Foucault di Parigi. Quello del filosofo francese è un utile dispositivo per cartografare le mappe, le via di fuga e i modi per contenere il potere 
Ro. Ci., 26.7.2014



Sono tre le gene­ra­zioni cre­sciute stu­diando Michel Fou­cault, scom­parso 30 anni fa. La prima lo ha cono­sciuto e ha fre­quen­tato le sue lezioni. La seconda si è for­mata sull’imponente rac­colta di mate­riali dei Dits et Écrits pub­bli­cati nel 1994. La terza è stata inve­stita dalla valanga dei corsi al Col­lège de France che hanno modi­fi­cato la per­ce­zione del filosofo.

Judith Revel, ordi­na­ria di filo­so­fia con­tem­po­ra­nea all’università Paris-Ouest Nan­terre e mem­bro del con­si­glio scien­ti­fico del Cen­tro Fou­cault, si è ritro­vata nel mezzo. Ha cono­sciuto la prima gene­ra­zione e ha visto cre­scere la terza che oggi usa Fou­cault in campi diversi. «I corsi al Col­lège de France mostrano come Fou­cault costruiva il suo pen­siero. – afferma — Fino a quin­dici anni fa ave­vamo accesso al pen­siero com­piuto dei libri, per­ce­zione modi­fi­cata già in parte dai Dits et Écrits. Oggi cogliamo nei corsi la ricerca fou­caul­tiana, il momento della sua ela­bo­ra­zione. Mostrano in par­ti­co­lare che non esi­ste una cesura tra il decen­nio poli­tico degli anni Set­tanta e l’apertura degli studi sull’etica antica».

Molti stu­diosi hanno soste­nuto che il «trip greco-romano» portò Fou­cault a matu­rare una visione este­tiz­zante della vita. È d’accordo?

Fou­cault deve molto a sto­rici come Pierre Hadot o a Peter Brown, ma il suo pro­blema non è l’esattezza filo­lo­gica. Egli usa gli anti­chi per capire come, di fronte al potere, le «con­tro­con­dotte» diven­tano pra­ti­che che impli­cano, per quanto è pos­si­bile, la pro­du­zione di nuovi modi di vita e nuove forme di rap­porto a sé e agli altri. La sua insi­stenza sull’estetica, cioè il «fare della pro­pria vita un’opera d’arte», si spiega con l’esigenza di legare la resi­stenza a una potenza d’invenzione. Visto che non si esce mai dalle deter­mi­na­zioni del pro­prio pre­sente, que­sta inven­zione diventa un gesto costi­tuente quando «eccede» ciò che ci fa essere quello che siamo.

Cosa inten­deva Fou­cault quando diceva che l’obiettivo della filo­so­fia dev’essere quello di «rifiu­tare ciò che siamo»?

Non signi­fica che pos­siamo uscire dai rap­porti di potere, ma pos­siamo indi­vi­duarli, farne la car­to­gra­fia, ten­tare di tor­cerli, spo­starli, inter­rom­perli. La que­stione della cri­tica non è solo quella del neces­sa­rio rico­no­sci­mento dei nostri limiti sta­bi­lita da Kant. Fou­cault si «riap­pro­pria» di Kant e segnala la pos­si­bi­lità di spe­ri­men­tare una dif­fe­renza pos­si­bile. Con que­sta espres­sione egli intende una spe­ri­men­ta­zione pro­po­si­tiva, affer­ma­tiva, un pieno onto­lo­gico. Una «pro­du­zione» dice Foucault.

Per­ché Fou­cault dif­fi­dava delle teo­rie sulla liberazione?

La libe­ra­zione dal potere si rife­ri­sce sem­pre al potere. La «pra­tica intran­si­tiva della libertà», invece, non esclude la libe­ra­zione ma rap­pre­senta un ele­mento asim­me­trico rispetto al potere. È una ricerca e spe­ri­men­ta­zione per­ma­nente della dif­fe­renza. Qual è la dif­fe­renza pos­si­bile oggi? Que­sta, credo, è la domanda cri­tica per eccel­lenza ed è cio che dovrebbe per­met­terci di lot­tare meglio e di più.

Che cosa signi­fica resi­stere oggi?

Per Fou­cault i rap­porti di potere sono «azioni sull’azione libera degli uomini» e impli­cano una gestione, un’amministrazione, uno sfrut­ta­mento della libertà. La resi­stenza, invece, se non si limita ad essere un con­tro­po­tere, cioè un altro potere, deve intro­durre un ele­mento di asim­me­tria rispetto al potere. Non se ne libera mai, per­chè non si esce mai dai rap­porti di potere, ma fa qual­cosa che il potere non può fare. Pro­duce un’eccedenza che inau­gura, let­te­ral­mente, la vita stessa dall’interno delle maglie del potere. Par­liamo di un’ontologia imma­nente: non è una meta­fi­sica, ma è legata alle pra­ti­che e si gioca sul ter­reno della vita intesa come esi­stenza. Que­sta ecce­denza inau­gura la vita.

Su cosa sta lavo­rando la nuova gene­ra­zione di stu­diosi che si è avvi­ci­nata a Foucault?

Sono tanti e sono bra­vis­simi. Rie­scono ad intrec­ciare una for­mi­da­bile cono­scenza del cor­pus teo­rico e l’uso libero della «sca­tola degli attrezzi» fou­caul­tiana. In Ita­lia c’è la rivi­sta on line «mate­riali fou­caul­tiani»: un bel lavoro di rifles­sione sui testi, ma anche l’investimento di campi ine­diti e la spe­ri­men­ta­zione d’innesti filo­so­fici appas­sio­nanti. Penso al lavoro di car­to­gra­fia bio­po­li­tica dei dispo­si­tivi di gestione dei migranti nel Medi­ter­ra­neo svolto da Mar­tina Taz­zioli; o al modo in cui Daniele Loren­zini legge insieme Fou­cault, Witt­gen­stein e alcuni autori del «per­fe­zio­ni­smo morale» come Arnold I. David­son o Stan­ley Cavell. E poi biso­gna ricor­dare tutte le situa­zioni di lotta dove Fou­cault resta uno stru­mento cri­tico fon­da­men­tale, basti pen­sare alla ripresa del movi­mento degli inter­mit­tenti e pre­cari in Fran­cia: dia­gnosi, con­flitto e inven­zione. Que­sta è la poli­tica della «dif­fe­renza possibile».

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