Le due bande non sono equivalenti ovviamente ma questa non è una buona ragione per appoggiarne una invece di un'altra (non perché sia sbagliato di per sé, tutt'altro; ma perché nelle condizioni date ne verremmo stritolati e il danno sarebbe superiore al vantaggio). Tra l'altro, nell'attesa di controscalare la banda dei "buoni" - che sarebbero poi quelli che hanno spalancato le porte ai "cattivi" - si sposterà ancor di più a destra, per dividere il fronte renziano assorbendone parte delle ragioni. Alla fine uscirà solo Pippa Civati [SGA].
“Renzi è a Palazzo Chigi per volere dei poteri forti lo ha ammesso Marchionne”
Camusso: ecco perché non parla con noi, ma solo con le corporazioni “Per
come è stata scritta la norma sull’Irap favorirà solo le grandi imprese
riducendogli i costi ma non avrà alcun effetto sull’occupazione”
Manovra e Jobs act si possono cambiare. Faremo lo sciopero generale
intervista di Roberto Mania Repubblica 29.10.14
ROMA A un certo punto Susanna Camusso interrompe questa intervista, si
alza, sigaretta in mano, e va verso la bacheca del suo ufficio con
affaccio su Villa Borghese. Tra foto, messaggi, ricordi e volantini
della Cgil, c’è un lancio di agenzia con una dichiarazione di Sergio
Marchionne del 2 ottobre scorso. Parla del mercato del lavoro, l’ad di
Fca, della necessità di togliere «i rottami dai binari». Ed è questo,
spiega, il compito affidato a Renzi. Precisa: «L’abbiamo messo là per
quella ragione lì».
Il segretario generale della Cgil si risiede: «Vede, quella
dichiarazione non è mai stata smentita. A me colpisce molto che un
cittadino svizzero che ha spostato le sedi legale e fiscale della Fiat
all’estero possa dire del nostro presidente del Consiglio “L’abbiamo
messo là” e che lo possa fare senza suscitare alcuna reazione».
Cosa vuol dire, segretario?
«Questo spiega l’attenzione del governo nei confronti dei grandi soggetti portatori di interessi particolari».
Il governo dei “poteri forti”?
«Quelle parole di Marchionne illustrano meglio di qualsiasi altro
ragionamento perché questo governo non ha alcuna disponibilità a
confrontarsi con chi, come i sindacati, rappresenta interessi generali,
non corporativi».
Ma il governo non copiava, secondo la Cgil, i documenti preparati dalla
Confindustria? E Confindustria non rappresenta tutte le imprese?
«Il governo copia le proposte delle grandi imprese di Confindustria».
Dove sono in Italia le grandi imprese?
«La Fiat, le partecipate dal Tesoro... Ce ne sono e sanno fare lobby».
Eppure Squinzi ha detto che il taglio dell’Irap è “un sogno” che vale
per tutte le aziende.
«Constato che per come è la norma dell’Irap favorirà prevalentemente le
grandi imprese riducendo i loro costi. Ma non avrà alcun effetto
sull’occupazione».
La Cgil, dunque, non rinuncia all’idea di cambiare la legge di Stabilità
«Non rinunciamo affatto all’idea di poter cambiare la Stabilità come le
riforme che sono state presentate. Non si può pensare di cambiare la
pubblica amministrazione tagliando i posti di lavoro e non tagliando le
30 mila stazioni appaltanti dove si annidano gli interessi dei poteri
forti, quelli che paralizzano l’attività della pubblica amministrazione.
Faccio un altro esempio: il Tfr è salario differito, i fondi
integrativi sono frutto della contrattazione. Questo governo vuole
aumentare le tasse sul Tfr e penalizzare la previdenza integrativa. E i
sindacati non avrebbero titolo a discuterne? Aggiungo, in generale, che
una politica economica espansiva non può ridursi al taglio delle tasse e
della spesa. Come dimostra la ripresa americana sono necessari gli
investimenti anche pubblici».
Con quali risorse?
«L’abbiamo già detto: serve una patrimoniale. Ce l’ha anche la Germania» Ma il governo ha detto che con voi non contratta.
«Mi pare che la parola contrattare sia diventata un’ossessione di questo
governo. Noi non abbiamo dubbi che le leggi vadano discusse e approvate
in Parlamento. Siamo talmente convinti che ci preoccupa l’ampio uso che
si fa del voto di fiducia. E poi questo governo non può certo dire che
non ci siano state trattative extraparlamentari come per esempio sulla
legge elettorale, sulle riforme istituzionali o sulla riforma delle
giustizia con l’ordine degli avvocati. Non ci si confronta solo con chi
ha una rappresentanza generale. Anche se il ministro Poletti quando ha
aperto l’incontro di lunedì non ha escluso la possibilità di un
intervento del governo per emendare, eventualmente, la legge di
Stabilità. Poi l’incontro è finito in un altro modo. Non so perché. E
non so nemmeno perché su alcuni giornali sia stato raccontato un
incontro diverso da quello al quale ho preso parte io. Continuo a
pensare che sia stato surreale il fatto che i ministri non si siano
espressi sulle nostre osservazioni. Si ascoltano le corporazioni, ma non
chi rappresenta il lavoro. E il lavoro è stata la grande domanda della
manifestazione di sabato».
A cosa è servita quella manifestazione?
«Ha cambiato tante cose. Intanto, con lo stupore di molti, si è visto
che il sindacato non è fatto solo di pensionati, ma anche di giovani, di
precari, di disoccupati. Si è visto che includiamo e che non dividiamo
come fa il governo».
Dopo le critiche di Renzi, segretario del Pd, alla Cgil, lei rinnoverà la tessera al partito?
«Non rispondo a questa domanda perché dietro di essa c’è la stessa
logica che ha portato a guardare la manifestazione di sabato come
un’iniziativa all’interno del dibattito del Pd. Invece quella era una
piazza del lavoro».
Lei comunque è un’iscritta al Pd: c’è il rischio di una scissione? Cosa pensa di Landini leader di un nuovo partito di sinistra?
«Sono il segretario generale della Cgil. Ho la responsabilità di
difendere l’autonomia del più grande sindacato italiano e non intervengo
nelle vicende interne di un partito. Per quanto riguarda Maurizio mi
immagino che abbia la stessa opinione sull’autonomia del sindacato».
Perché quando Renzi ha detto che è finita l’epoca del posto fisso lei ha risposto che non sa di cosa parla?
«Perché non c’è alcuna relazione tra il cosiddetto posto fisso e
l’articolo 18. Ed è lo stesso governo a riconoscerlo nel Jobs Act. Renzi
rispolvera un argomento di Monti di tre anni fa. La differenza è che
allora la Confindustria diceva che non era quello il problema, mentre
oggi ha un’altra linea».
Torniamo ai poteri forti. Mi dica: quando proclamerete lo sciopero generale?
«Calibreremo le nostre iniziative mantenendo i nervi saldi. Ci saranno
gli scioperi articolati, manifestazioni iniziative e poi faremo lo
sciopero generale. Lo deciderà come sempre il nostro Comitato direttivo
convocato per metà novembre».
In marcia (da sola) verso lo sciopero La partita rischiosa della Cgil
Da Cisl e Uil strategie diverse
di Enrico Marro Corriere 29.10.14
ROMA Lo scontro tra Matteo Renzi e la Cgil potrebbe finire con lo
sciopero generale della stessa Cgil, a dicembre. Un finale altamente
rischioso per la confederazione di Susanna Camusso e che, proprio per
questo, potrebbe non dispiacere allo stesso presidente del Consiglio.
Non che Renzi lo auspichi, ma certo non farà i salti mortali per
evitarlo. Lo sciopero generale, insomma, per come si sono messe le cose,
è più un problema per la Cgil che per il governo. Vediamo perché.
Dopo l’incontro andato male con l’esecutivo, le tre confederazioni
seguiranno strade diverse. La Cgil, ringalluzzita dalla manifestazione
di San Giovanni, ha riunito la segreteria allargata ai segretari
regionali e di categoria, registrando un coro unanime di incitamento a
proseguire la mobilitazione, fino appunto allo sciopero generale, se dal
governo non verranno cedimenti su Jobs act e legge di Stabilità.
L’affondo di Renzi («le leggi non le tratto col sindacato») ha
ricompattato la Cgil sulle posizioni più dure, quelle per capirci del
leader della Fiom, Maurizio Landini, il primo a proporre lo sciopero
generale. Renziani, nella Cgil, per ora non se ne vedono. Anche Carla
Cantone, leader dei pensionati, è all’attacco: «Renzi sbaglia, è lui che
vuole lo scontro. E io sono una sindacalista abituata a combattere. Lo
farò anche ora».
La Cisl, invece, anche col nuovo segretario generale, Annamaria Furlan,
ha lo stesso problema di sempre: non restare schiacciata dallo scontro
fra la Cgil e il governo (ieri Berlusconi, oggi Renzi). E così Furlan
spiega che nell’orizzonte della Cisl non c’è lo sciopero generale né, a
maggior ragione, «l’occupazione delle fabbriche», guarda caso evocata da
Landini. La Cisl cercherà il confronto col governo, sfruttando una
certa interlocuzione col sottosegretario Graziano Delrio e col ministro
del Lavoro, Giuliano Poletti, che pare esserci. La Uil, infine. È
impegnata nel congresso che a novembre eleggerà il 67enne Carmelo
Barbagallo al posto di Luigi Angeletti. Barbagallo ha detto che ci
vorrebbero iniziative comuni. Ma non ha la forza di andare oltre. Certo,
i pensionati e il pubblico impiego hanno già in programma
manifestazioni unitarie Cgil, Cisl e Uil, il 5 e l’8 novembre. Ma ciò
non basta a costruire uno sciopero generale unitario.
Che quindi se ci sarà, sarà della sola Cgil. Al massimo col sostegno di
una minoranza Pd che non sa bene cosa fare e che ieri si è beccata
l’avvertimento dell’ultimo tesoriere dei Democratici di sinistra, Ugo
Sposetti: «Chi vuole la scissione non venga a cercare me». Uno sciopero
generale per modo di dire, dunque. La Cgil rischierebbe il flop, un flop
clamoroso. E la vittoria finale di Renzi.
Renzi: scontro? No, rivoluzione culturale
«I miei non sono attacchi. Bisogna puntare su più occupazione, non sulle occupazioni» I partiti socialisti europei invitano il leader a parlare ai loro congressi: dall’Italia una speranza
di Maria Teresa Meli Corriere 29.10.14
ROMA Matteo Renzi non considera le sue parole come «degli attacchi al
sindacato». Lui la vede da un altro punto di vista: «Il mio è un invito a
che ciascuno faccia il proprio mestiere».
Insomma, le estenuanti trattative governo-organizzazioni confederali dei
tempi che furono «non ci saranno più». «È una rivoluzione culturale»,
per Renzi, della quale Cgil, Cisl e Uil dovranno prendere atto.
Ma questo non significa «essere di destra» o assomigliare «alla
Thatcher» (accusa che Susanna Camusso ha lanciato al presidente del
Consiglio). Significa, per farla breve, che i sindacati devono
impegnarsi a «cercare di ottenere più occupati, non a fare occupazioni».
O, come ha detto sempre lo stesso Renzi, con altre parole ma con uguale
fermezza in un’intervista a Oggi : «Noi vogliamo tenere aperte le
fabbriche, perché l’occupazione di cui hanno bisogno i nostri lavoratori
non è quella minacciata dal sindacato».
Dunque, il presidente del Consiglio rifiuta il gioco di Camusso di
dipingerlo come una sorta di Berlusconi, o quello di Rosy Bindi e di
Stefano Fassina di farlo passare come una specie di «usurpatore» del
Partito democratico: «Io sono diventato il leader del Pd attraverso
delle primarie a cui hanno partecipato milioni di elettori».
E, comunque, è proprio vero il detto secondo il quale «nemo propheta in
patria». Mentre la Cgil riversava i suoi strali sul presidente del
Consiglio «thatcheriano» e Bindi criticava il segretario che stava, a
suo dire, snaturando il partito, i leader del socialismo europeo
facevano a gara per invitare Renzi ai congressi dei loro partiti.
António Costa, candidato del Partido socialista portoghese a primo
ministro, nonché segretario di quel partito, lo ha invitato al congresso
che si terrà a Lisbona a fine novembre. Ospite d’onore, perché, scrive
Costa nella lettera, la presidenza italiana della Ue sotto la leadership
di Renzi ha rappresentato «un barlume di speranza per tutta l’Europa».
E proprio per rafforzare la cooperazione tra i due partiti il candidato
premier dei socialisti portoghesi vorrebbe che il presidente del
Consiglio italiano partecipasse al suo Congresso e prendesse la parola
in quella sede. Una lettera analoga è arrivata una decina di giorni
prima dal leader olandese Diederik Samsom, che Renzi aveva invitato
insieme a Manuel Valls, a Pedro Sánchez e ad altri esponenti del Pse,
alla festa dell’Unità di Bologna, per quello che scherzosamente era
stato definito il «patto del tortellino» tra i giovani capi del
socialismo europeo.
Patto che deve aver sortito qualche effetto se Samsom scrive al
presidente del Consiglio italiano che sarebbe «un grande onore» averlo
al loro congresso, a gennaio, ricordandogli che fanno «parte della
stessa famiglia».
Sono missive, queste, che, com’è ovvio, hanno fatto piacere al premier,
anche se le difficoltà italiane dentro il Partito democratico e con il
sindacato non accennano a diminuire. Anzi. Eppure uno studio di Itanes,
elaborato dopo le elezioni europee che hanno segnato l’exploit del Pd
versione Renzi rileva un particolare interessante. Nel 2013, cioè con un
segretario considerato maggiormente di sinistra come Pier Luigi
Bersani, il Pd tra gli operai era solo la terza forza politica. Veniva
dopo il Movimento 5 stelle e Forza Italia. Lo votavano solo il 20 per
cento degli operai. Con l’arrivo di Renzi, nelle consultazioni europee
di quest’anno, la percentuale di operai che ha votato per il Partito
democratico si è letteralmente raddoppiata, sempre stando a questo
studio, passando al 40 per cento.
Anche il voto dei disoccupati ha avuto un incremento notevole. Nel 2013
votavano Pd il 15 per cento degli italiani senza un lavoro, nel 2014, il
40. Sono percentuali che il Partito democratico, naturalmente, ha avuto
modo di esaminare. Insieme ad altri dati, sempre contenuti in quello
stesso studio, nei quali si sottolinea come dal 2013 al 2014 ci sia un
più 50 per cento circa di voti tra artigiani e commercianti e un 20 per
cento in più da imprenditori e liberi professionisti. Spiega quindi
Giorgio Tonini, della segreteria del Pd: «C’è una sorta di parallelismo
tra l’aumento di voto degli operai e quello dei piccoli imprenditori». E
aggiunge: «Questa è la evidente conferma che quel patto tra produttori
che Renzi propone, di fatto, nella realtà, esiste già e il sindacato
dovrebbe prenderne atto».
Pd, si muove l’ala sinistra Cena sulla scissione
Cresce la fronda: in 25 pronti a dire no alla fiducia sul Jobs Act
di Carlo Bertini La Stampa 29.10.14
A sinistra nel Pd qualcosa si muove, stasera si vedranno a cena una
manciata di bersaniani, Davide Zoggia, Stefano Fassina e altri giovani
big di Area Riformista insieme a Gianni Cuperlo, per discutere come
riorganizzarsi dopo quello che è successo e come risolvere il problema
della scissione. Sì, perché al punto in cui si sono messe le cose, la
scissione dal Pd renziano è diventato un vero problema di tutta la
minoranza. Riassumibile però, almeno per ora, con il classico “vorrei ma
non posso”.
Ieri all’ora di pranzo mancava solo il nome del locale, ancora da
scegliere: dei partecipanti, un numero ristretto, alcuni dovevano ancora
essere avvertiti. Al tramonto, lo scissionista per antonomasia, Pippo
Civati, sosteneva di non saperne nulla. «In verità, io domani dovrei
andare a cena con Filippo Taddei ma credo di non farcela perché ho un
altro impegno. A me non mi hanno chiamato, ma è vero, mi risulta che
stanno organizzando qualcosa...». Ore 13, sugli scalini dell’androne di
Montecitorio, Davide Zoggia, ex responsabile Enti locali della «ditta»
di Bersani, non solo svela che se non verrà cambiata la legge delega, in
base ai suoi «calcoli» ci sarebbero «25 o 30 di noi pronti a non votare
il jobs act neanche con la fiducia, ma questo non vorrebbe dire far
cadere il governo che avrebbe comunque i numeri per farcela»; ma ammette
che il tema della scissione agita gli animi della base in giro per
l’Italia più di quanto sia percepito dall’osservatorio della capitale.
«Domani sera ci vediamo a cena in pochi, poi magari il tema sarà
discusso anche in contesti più allargati. Dopo quanto successo sabato e
domenica dobbiamo fare una riflessione. Ma quella sulla creazione di un
nuovo partito è complessa, perché se la spinta dal territorio è forte,
costruire oggi un’altra formazione non è semplice, anzi».
Ad ostacolare qualsiasi progetto non solo è la mancanza di un leader
forte ma anche «il dna di molti di noi che non è quello della vocazione
minoritaria». Le analisi mostrano come vi sia spazio per una forza «con
un range che va dal 5 al 10%» ma il punto di approdo ineluttabile
sarebbe alla fine «allearsi sempre con il Pd», insomma con la forza da
cui si prenderebbe il largo. Se quelli che sono andati in piazza si son
sentiti chiedere da molti come si faccia a restare in un partito in cui
non si riconoscono, a mostrarsi contrario a uscire è Gianni Cuperlo.
«Non si tiene unito un partito denigrando, ma scissione è un termine che
non voglio nemmeno evocare», dice al GrRai. E il fatto che nella cena
di stasera non siano coinvolte personalità come Bersani non deve
stupire.
Il suo braccio destro Alfredo D’Attorre nega di esser a conoscenza
dell’incontro di stasera e sostiene che in realtà le cose stanno
diversamente. «La scissione sarebbe un regalo a Renzi. Una dirigente
della Cgil sabato in piazza ci diceva che il mondo del lavoro chiede di
stare al centro di un grande partito, non confinato in una cosa che
preservi la sua purezza relegandosi però in un angolo». Altra cosa è
invece «la spinta ad un coordinamento più forte delle varie aree della
minoranza e proveremo a farlo su tre temi, lavoro, legge di stabilità e
riforme istituzionali». Come? «Dando un segno di unità, prendendo
insieme delle iniziative ma sempre dentro il partito, perché il problema
vero è ridare una motivazione ai nostri per rinnovare l’iscrizione al
Pd, la prospettiva di una battaglia, ma da dentro».
Chi si adombra, forse diviso tra istinto e razionalità, è Stefano
Fassina, «è vero, ci vediamo, però non discuteremo di contenitori, bensì
di come costruire una posizione unitaria sempre dentro il Pd». A non
voler sentire parlare di scissione è l’ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti,
«chi vuole la scissione non venga a cercare me», intimava ieri a
Omnibus.
E qualcosa si muove anche dalle parti di Renzi, se è vero che la madre
di tutte le battaglie, il jobs act, potrebbe registrare una svolta
imprevista. «Matteo vuole correre e portarlo in aula l’11 novembre,
prima della legge di stabilità», confida uno dei big di Montecitorio,
«loro frenano, ma qualcosa concederemo. Potremmo recepire nella delega
la sostanza di quanto votato in Direzione sull’articolo 18 per i
licenziamenti disciplinari». Si vedrà se Renzi darà il via libera.
Tensioni nel Pd, Sposetti: "Chi vuole la scissione non venga a cercare me"
L'ultimo tesoriere dei Democratici dei sinistra: "Al massimo posso spiegare ai giovani come si legge un bilancio" Cuperlo: "E' Renzi che deve tenere unito il partito evitando di denigrare un pezzo di Paese" Damiano: "Battaglia, ma dentro il Pd" Civati: "Il premier fa cose di destra"
D'Alema: così Renzi spaccherà il Paese
intervista di Fabrizio Forquet Il Sole 29.10.14
Presidente D'Alema, c'è chi parla di una Bad Godesberg italiana a
proposito della Leopolda di Renzi. Anche a lei in passato è stata
attribuita più di una svolta riformista. Oggi però è annoverato tra i
conservatori. Dove ha sbagliato?
Credo sia semplicemente una raffigurazione falsa.
Un'offesa a una verità storica. È grottesco che si dipinga il
centrosinistra italiano come un mondo che ha atteso Renzi per scoprire
il riformismo. I nostri governi, a partire dal governo Amato, e poi dal
governo Ciampi, dal governo Prodi, compreso il mio, vengono ora
raffigurati come quelli della conservazione, ma noi abbiamo cambiato il
Paese in profondità.
Converrà che c'è molto da fare...
Guardi, io spero che Renzi riesca a fare riforme all'altezza delle
promesse. Per ora vedo soltanto molti annunci. E uno stile di governo
preoccupante che punta a creare fratture nella società.
Renzi ha detto che con il sindacato non si tratta, al massimo lo si ascolta e poi si decide.
Appunto. Nel modo in cui vengono affrontate queste cose emerge una volontà di rottura con il sindacato che è sbagliata.
Anche lei si scontrò con la Cgil...
Ma io non ho mai usato quei toni, non ho mai detto "non vi prendo in
considerazione", "più mi criticate più guadagno consenso". Questo modo
di fare spacca il Paese, prima ancora che il Pd. Vengono usate parole
sprezzanti verso i magistrati, verso i funzionari pubblici.
Sull'articolo 18 si è condotta una polemica tutta ideologica. Il rischio
è quello di avere un Paese incattivito. Mentre da questa crisi si esce
solo se si torna a un minimo di concordia.
Non che lei non fosse sferzante. E sull'articolo 18 fu lei a proporre,
scontrandosi con il sindacato, il superamento di quella tutela nelle
imprese che superavano la soglia dei 15 dipendenti...
C'era un problema di disincentivo alle imprese a crescere. Io proposi,
allora, che quelle aziende che superavano i 15 dipendenti potessero
avvalersi temporaneamente della normativa precedente. Il senso non era
eliminare l'articolo 18, ma estenderlo, ovviamente in modo progressivo e
non automatico ai lavoratori che prima non avevano quella protezione.
Il sindacato però vi bloccò.
Il sindacato si oppose prendendo una posizione sbagliata. Sarebbe
cresciuto il numero dei lavoratori tutelati. Adesso si sta cercando di
fare una cosa molto diversa. Una battaglia tutta ideologica. Si è detto
"non esiste più il posto fisso". Ma questo è noto da venti anni. Da
allora sono state fatte varie riforme del lavoro. E ora il problema è
l'eccesso di precarietà, non il contrario. È lo stesso governo,
giustamente, a sostenere che la filosofia del Jobs Act è quella di
promuovere un numero maggiore di contratti a tempo indeterminato.
Quindi, evidentemente, anche per Renzi il posto fisso è un valore
positivo.
Il problema è che oggi il contratto a tempo determinato è troppo rigido
per l'impresa e quasi nessuno assume più con quel tipo di contratto. Va
reso più conveniente. Non è un caso se oggi l'85% dei lavoratori viene
assunto con contratti non a tempo indeterminato.
Lo so. Infatti abbiamo introdotto già molti anni fa politiche per incentivare l'uso di quel contratto attraverso bonus fiscali.
Non hanno funzionato granché se il dato è quello che le dicevo.
Purtroppo la storia delle politiche sul lavoro non è lineare, dopo di
noi ci sono stati altri governi. C'è stato il governo Berlusconi che ha
puntato sui contratti più precari. Ma all'inizio quegli incentivi
avevano funzionato.
Il contratto a tutele crescenti può essere una soluzione?
Può esserlo. Ma vedo due contraddizioni nel progetto di Renzi. La prima
l'ha sollevata Tito Boeri: gli incentivi nei primi tre anni, se sommati
alla possibilità di licenziare, possono portare ad abusi e aumentare la
precarietà. La seconda riguarda proprio l'articolo 18. Nella delega non
se ne parla. E anche Renzi all'inizio non sembrava intenzionato a
toccarlo. Poi ha cambiato idea. Il vero problema è che mentre i
lavoratori più anziani possono ottenere dal magistrato la reintegra, ciò
non sarà possibile per i lavoratori più giovani, assunti con i nuovi
contratti. In questo modo si renderà stabile una diseguaglianza, altro
che legge a favore delle nuove generazioni. Ho sinceramente dei dubbi
che questa differenza di trattamento sia costituzionalmente accettabile.
Tra l'altro, sull'articolo 18 già abbiamo votato la riforma Fornero.
Abbiamo già cambiato, non senza un confronto aspro con i sindacati. È
una riforma che ha un anno e mezzo di vita. Valutiamo gli effetti di
quella riforma, tanto più che i primi segnali sono positivi, nel senso
che c'è una forte riduzione del ricorso alla magistratura.
Si ipotizza, nell'ambito del contratto a tutele crescenti, che
l'articolo 18 arrivi solo dopo un certo numero di anni. Almeno questo è
accettabile per lei?
Sì, questo si può fare. Ma nel senso che dopo un periodo di prova,
scatta l'assunzione a tempo indeterminato e quindi le tutele che ne
derivano.
Cosa succederà in Parlamento sul Jobs Act. Parte del Pd si sfilerà?
Non lo so. Io non sono in Parlamento. Come ho detto trovo stravagante
che si parli di articolo 18 e poi si voti una delega dove di articolo 18
non c'è traccia.
D'Alema non possiamo ignorare che siamo in una crisi profondissima. Se
non si renderà più conveniente per le imprese assumere e investire,
difficilmente vedremo una ripresa.
Sono d'accordo, ma allora parliamo dei temi veri del riformismo. Oggi la
priorità è risollevare la produttività del lavoro e in questo senso
credo che dovremmo aprire una discussione seria sul decentramento dei
contratti. I sindacati andavano ingaggiati su questo. È qui che ci
differenziamo davvero dalla Germania, è qui che i tedeschi ci battono.
Che giudizio dà di questa legge di stabilità?
Si conferma l'orientamento verso le politiche di austerità, ma si
ottiene uno sconto. Questo è il senso di quanto sta accadendo.
Figurarsi, lo sconto va bene ma certo non c'è un cambio di logiche, non
c'è la svolta auspicata. Non è colpa di Renzi. È che in Europa manca il
cambiamento necessario verso la crescita. Si è capito che il fiscal
compact non si può applicare, questo è positivo. Ma anche sugli
investimenti l'impegno dei 300 miliardi annunciato da Juncker è troppo
modesto e troppo vago, come ha osservato oggi anche Romano Prodi, che ha
sottolineato la differenza tra l'impegno americano per la ripresa e la
scarsa rilevanza di quello europeo. Sono completamente d'accordo con
lui.
Renzi poteva ottenere di più in Europa?
Diciamo che finora si è manifestata una notevole debolezza del campo
delle forze socialiste. Merkel non ha vinto le elezioni, ma ha
decisamente vinto il dopo-elezioni. Ha dimostrato di essere l'unico
leader che ha una visione europea.
Non sarà diventato un ammiratore della Merkel?
Lei si è mossa come il vero capo dei conservatori europei. Non ha
rivendicato poltrone per i tedeschi, non ha puntato a un risultato
facile per ottenere il plauso di qualche giornale di casa, ma ha di
fatto blindato intorno ai conservatori tutte le posizioni chiave della
nuova Europa. Va ammirata la sua qualità di leader politico, anche se
opera per finalità che non condivido.
Si dice che lei abbia cambiato atteggiamento verso il premier perché lui
non ha mantenuto il patto che prevedeva per lei la nomina a
rappresentante della politica estera europea...
Se uno dovesse litigare con Renzi perché lui viene meno alla parola
data, la lista dei litiganti sarebbe infinita. No, io vivo felice, non
ho problemi di carattere personale. Discuto del merito delle questioni.
Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil ha ancora senso?
No, non ha senso. Credo che si dovrebbe ricorrere a una golden rule per
tutti gli investimenti che producono occupazione e innovazione. E nello
stesso tempo bisogna ricorrere a forme di mutualizzazione del debito.
I tedeschi non ci sentono.
Però una proposta in questo senso era venuta proprio dal consiglio degli economisti tedeschi.
Parliamo di legge elettorale. La convince il premio alla lista?
La legge elettorale è un pasticcio. Inoltre, a mio parere presenta
evidenti problemi di incostituzionalità su diversi punti cruciali, anche
in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale. Il premio al
partito sarebbe un passo avanti, ma non ho capito se Berlusconi lo
accetterà.
Non le piace neppure la riforma del Senato...
Mi chiedo verso quale bicameralismo stiamo andando. Da una parte
deputati nominati dai capi partito, dall'altra senatori nominati dai
consigli regionali. Dico: ci vorrà pure qualcuno eletto dai cittadini o
no? Non mi sembrano grandi riforme.
Sono punti qualificanti dell'azione di governo su cui una parte del Pd,
come lei, non è d'accordo. Si parla insistentemente di scissione
all'interno del partito. La ritiene plausibile?
No, sarebbe un errore. Bisogna battersi nel Pd per le idee e i valori in
cui crediamo. Naturalmente dobbiamo prendere atto che questo partito è
diverso da quelli che abbiamo conosciuto fino ad oggi e quindi dobbiamo
fare come fa Renzi, il quale all'interno del Pd si è organizzato senza
farsi tanti problemi, neppure in rapporto alla sua funzione di
segretario. Se non si vuole una scissione silenziosa, fatta di tante
persone che non rinnovano la tessera, si deve rendere più visibile e
incisiva la presenza delle posizioni autenticamente riformiste.
Nei prossimi mesi questo Parlamento potrebbe essere chiamato a eleggere
il nuovo capo dello Stato, le prove che si sono fatte con i giudici
costituzionali non sono tranquillizzanti.
Penso che i tempi siano maturi per individuare una personalità
femminile. Non è un vincolo assoluto, e il capo dello Stato va sempre
scelto per le sue caratteristiche di autorevolezza, ma volgerei
certamente le attenzioni a una donna che possa essere anche una figura
di garanzia. Ce ne sono. E con un Paese che tende a spaccarsi ce ne sarà
molto bisogno.
Massimo D’Alema ”La scissione sarebbe un errore"
Intervistato dal Sole 24 ore respinge l'idea di divorzio dentro il Pd ma critica Renzi: "Il suo atteggiamento spacca il Paese"
L’Huffington Post 29.10.14
qui
I vantaggi della battaglia interna
di Marcello Sorgi La Stampa 29.10.14
Dopo Bersani, che in un’intervista a «Repubblica» aveva detto che non ha
alcuna intenzione di partecipare a un’eventuale scissione della
minoranza Pd, anche Damiano, il presidente della commissione lavoro
della Camera che nei prossimi giorni dovrà guidare il primo confronto
sul Jobs Act a Montecitorio, si schiera contro l’ipotesi della rottura,
nata a cavallo della grande manifestazione della Cgil di sabato.
È del tutto logico che questa sia la posizione prevalente degli
oppositori interni di Renzi, anche se i più giovani Fassina e Civati
qualche dubbio ce l’hanno. La generazione che un quarto di secolo fa
ammainò la bandiera del Pci difficilmente potrebbe accettare di fare il
percorso inverso, per riaffacciarsi in un campo. quello della sinistra
radicale. diviso e affollato di ambizioni e risentimenti personali. A
modo loro Bersani, D’Alema e il gruppo di post-comunisti usciti
sconfitti nella partita con Renzi rivendicano di aver contribuito alla
trasformazione in senso riformista del Pds, dei Ds e del Pd e alla
costruzione di un centrosinistra di governo, sia pure con risultati
alterni e in buona parte incompiuti. Di qui l’orgogliosa rivendicazione
dell’appartenenza al partito fondato (meglio, rifondato) da Veltroni, e
guidato da Franceschini e Bersani prima dell’attuale premier.
Ma ci sono altre ragioni per cui la minoranza Pd preferisce la battaglia
interna alla rottura. La prima è che le scissioni, quando si fanno, si
organizzano a ridosso di elezioni, che in questo caso non sono ancora
sicure. La seconda è che alla Camera i bersaniani sono convinti di poter
contare su rapporti di forza diversi da quelli del Senato: ci sarebbero
una trentina di voti di deputati da negoziare e un buco di queste
dimensioni metterebbe a rischio l’approvazione del Jobs Act, la riforma
più attesa dall’Italia in Europa.
E qui si inserisce la terza ragione per cui la minoranza si prepara a
trattare con il segretario. In Parlamento nelle prossime settimane
marceranno insieme il Jobs Act e la nuova legge elettorale, che Renzi
vorrebbe far approvare entro la fine dell’anno, in una stagione in cui
il calendario dei lavori è già gravato dalla legge di stabilità. Si
delinea quindi la possibilità di uno scambio tra voto a favore del Jobs
Act e modifica dell’Italicum, all’interno del quale Renzi vorrebbe
spostare il premio di maggioranza dalla coalizione alla lista, mentre la
minoranza, in accordo con gli alleati minori del governo, vorrebbe
inserire le preferenze. Le quali, nel clima di rivoluzione permanente
che Renzi mantiene nel Pd, rappresentano per la vecchia guardia la
garanzia per potersi confrontare sul territorio e tra gli elettori di
centrosinistra e assicurarsi una rappresentanza parlamentare, limitando
il potere del leader di scegliersi gli eletti.
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