giovedì 9 ottobre 2014

Il "pensiero unico" neoliberale: un dibattito

Zamagni: Alle radici del pensiero unico
Edoardo Castagna Avvenire 8 ottobre 2014

Sergio Givone: «Alziamo lo sguardo verso la libertà»
Il filosofo: «È in corso la riduzione del diritto a una costruzione puramente umana. Invece metafisica ed ermeneutica ci insegnano a fare un passo avanti»intervista di Edoardo Castagna Avvenire 9.10.14

«Il pensiero unico non soltanto pretende di dirci come stanno “veramente” le cose, ma pretende anche di decidere quali comportamenti si possono seguire e quali no». Insomma, per il filosofo Sergio Givone «il pensiero vorrebbe metterci con le spalle al muro. Non accetta alternative, e già solo per questo dovrebbe farci sospettare che sia un falso pensiero. Al contrario, un pensiero di verità è quello che ci invita a guardare le cose da punti di vista diversi, a metterci nei panni dell’altro».
Come funziona invece il pensiero unico?
«Lo vediamo bene nel campo dell’economia: crea un idolo – il mercato – che ha sempre l’ultima parola. Quello che il mercato vuole è legge e tutti, se vogliono produrre ricchezza, si devono uniformare. Eppure ci sono tanti altri fattori che il mercato non considera e che pure generano valori, anche economici: la solidarietà, la fiducia, la speranza. Ma il pensiero unico, che non può quantificarli, li ignora».
È un problema specifico dell’economia?
«Per nulla: si diffonde in tutti gli ambiti dell’esperienza. Per esempio quando si prende la scienza come modello di pensiero: ma come si fa a non ricordare Pascal, quando dice che «ci sono delle ragioni che la ragione non conosce»? O Amleto: «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, che non sogni la tua filosofia»? Ci sono molti più sguardi, molte più prospettive, molte più domande di quelle che può permettere il pensiero unico. Che perciò è un pensiero falso».
Perché?
«Perché non vede ciò che invece occorre vedere. A farlo è la metafisica, che è l’antidoto al pensiero unico perché ci dice che, sì, la realtà è quella che è: ma la realtà, l’essere, su che cosa è fondata? Il fondamento dell’essere è l’essere stesso, e la realtà allora è sospesa su un abisso. Detto altrimenti: il cuore dell’essere è la libertà, non la necessità; l’essere è quella fioritura infinita che nessuna prigione può contenere, nessun pensiero unico può esaurire. Un altro antidoto è l’ermeneutica, il lavoro interpretativo che ci porta a chiederci non tanto “cos’è questo?” – è la scienza a dircelo – , quanto “che senso ha questo?”. Qui la scienza non può rispondere, ma noi la domanda dobbiamo porcela lo stesso».
Lo schema del pensiero unico travasa nell’etica e nel diritto, definendo “diritti” una categoria sempre più ampia di ambizioni e di scelte individuali. È l’esasperazione dell’individualismo?
«Io credo che il problema sia la pretesa, che il diritto ha, di porsi come costruzione puramente umana. Il pensiero unico nega ogni possibilità alla metafisica di andare al di là di questo orizzonte chiuso, costruito dall’uomo. Invece la metafisica ci invita ad alzare lo sguardo, a interrogarci sulla provenienza, sul destino, sul senso ultimo. Se ci richiamassimo a questo, forse riusciremmo anche nel diritto a vedere qualche cosa di più che una semplice costruzione umana».
Il dibattito culturale – accademico, culturale, mediatico – è irrimediabilmente viziato dal pensiero unico, oppure ci sono ancora aree di confronto?
«Chi non cede alla deriva del pensiero unico c’è ancora, in economia e soprattutto in filosofia, un campo abitato da contraddizioni e da punti di vista molto diversi».
Però questi dibattiti spesso faticano a raggiungere il grande pubblico...
«I mezzi di comunicazione tendono guardare più al passato che al futuro; ci dicono quel che è stato, non quello che sta per essere. Se andiamo in emeroteca e sfogliamo le pagine culturali dei giornali degli anni ’70, le troveremo piene di dibattiti, anche affascinanti, sul marxismo o sullo strutturalismo… Ma chi se ne occupa più, ormai? Eppure all’epoca sembrava che il mondo avesse trovato la strada definitiva».
È successo lo stesso con il pensiero unico, individualista e neoliberista, che si è affermato negli anni ’90?
«Esattamente: a un certo punto è sembrato che fosse il solo possibile. Tra qualche anno ciò che oggi ci appare senza alternative sarà morto. Incluso il pensiero unico bioetico. Oggi la Rete – che ci rende grandi servizi, tanto che non possiamo più farne a meno – fa esattamente come i giornali cui accennavo prima: fotografa l’esistente. Quello che chiamiamo “motore di ricerca” in realtà ricerca ben poco... E il vero motore di ricerca, quello che cambia gli orizzonti, che rinnova lo sguardo, non sappiamo esattamente dove sia. Forse, nonostante tutto, nelle università, nei luoghi dove si pensa, o dove si fa arte, dove si fa poesia. Bisogna avere fiducia: l’importante è pensare bene, prima o poi i buoni pensieri troveranno la loro strada».


Ugo Volli: «Ragione espulsa dal dibattito etico»
Il semiologo: Oggi domina l’individualismo post-sessantottino per il quale non conta la verità di una cosa ma soltanto la “scelta” personale»intervista di Edoardo Castagna 
Avvenire 9.10.14

Per il semiologo Ugo Volli il pensiero unico è prima di tutto un paradosso. «Perché nasce come critica da sinistra alle posizioni neoliberiste»
E perché è un paradosso?
«Perché la sinistra, dopo aver posseduto l’egemonia culturale dagli anni ’50 in poi, nel momento in cui è nato un pensiero antagonista l’ha subito demonizzato».
Però è un fatto che il paradigma neoliberista si sia imposto senza lasciar spazio ad alternative...
«Certo, e non solo: questo atteggiamento si è largamente diffuso anche in altri ambiti, dall’etica alla politica internazionale».
Ed è un atteggiamento culturalmente di sinistra?
«Della sinistra nelle sue diverse articolazioni – da un lato quella radicale e libertaria, dall’altro quella socialisteggiante –, che ha scarsa tolleranza verso le posizioni alternative. Il paradosso, per l’appunto, è che sono proprio queste posizioni alternative a essere definite per svalutarle intolleranti, sopraffattrici o dogmatiche, quando in realtà spesso la situazione è del tutto opposta. Pensiamo per esempio al marxismo: fino alla caduta del Muro di Berlino, nella tradizione italiana – dall’università all’editoria – si dava per scontato che una persona per bene, che un intellettuale decente fosse marxista. Poi la realtà ha mostrato che quella posizione era insostenibile e che occorreva andare altrove, ma senza che ci fosse un processo di revisione storica approfondito: pochissimi sono stati quelli che hanno ammesso di aver sbagliato».
Oggi la demonizzazione delle posizioni alternative al pensiero unico è particolarmente visibile in campo etico?
«Sì, a imporsi sono le posizioni nate sul tronco radicale dell’individualismo etico, che si è fuso con il marxismo nel pensiero sessantottino e che fatica ad accettare che qualcuno possa pensare in termini diversi. Sui mezzi di comunicazione impera il politicamente corretto, che presuppone che si possa iniziare a ragionare solo a partire da una serie di premesse».
Come sono definiti i suoi contenuti?
«È politicamente corretto tutto ciò che parte dall’individualismo etico, dal sessantottino “il corpo è mio e lo gestisco io”, tanto per intenderci. Chi nega questo presupposto viene squalificato a priori e sui media non trova più spazio per discutere. Questo discende dall’unico assoluto oggi rimasto: il relativismo, secondo il quale ciascuno decide da sé ciò che è bene e ciò che è male, senza riferimento agli altri. L’idea che esista una razionalità capace di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato è considerata autoritaria, e quindi sbagliata. È questo il grande paradigma sessantottino: a contare non è il tentativo di raggiungere una verità, ma solo la certezza personale. Paradossalmente, per esempio, se qualcuno contestasse l’eterologa dicendo “a me non piace” troverebbe più ascolto di chi dice “non è giusta in base al tal argomento”. È la forma generale del ragionamento razionale che su questi temi viene rifiutata. Viviamo in una società basata sull’individualismo metodologico: non solo è bello quel che piace, ma è giusto quel che pare».
Eppure viviamo in una società in cui si dà un enorme credito al paradigma matematico delle scienze...
«Ma questo atteggiamento si rivolge anche contro la scienza. Abbiamo perfino tribunali della Repubblica che impongono una determinata “cura” – per esempio Stamina – perché il malato o i suoi cari avvertono l’esigenza di sperimentarla, a dispetto del fatto che le agenzie istituzionali deputate a definire ciò che è scientifico e ciò che non lo è la rifiutino recisamente. La nostra cultura accetta la dimensione scientifica nella misura in cui è una tecnologia che può essere usata: ma quando la scienza argomenta anche delle impossibilità, allora viene rigettata. E si tirano in ballo le multinazionali, le industrie farmaceutiche,... ».
È questo che alimenta il filone complottista?
«Lo giustifica. Prendiamo cose inverosimili come le “scie chimiche”: non appena qualcuno cerca di spiegare a chi ci crede, con argomenti razionali, che invece si tratta dei vapori di condensazione degli aerei, ecco che subito viene considerato al soldo di chissà quale interesse occulto. In termini filosofici si tratta della differenza tra certezza e verità, caratteristica – diceva Heidegger – dell’età moderna da Cartesio in poi. E che è arrivata al suo momento più forte, distruttivo e disgregativo con il postmoderno nel quale viviamo. Internet ha ulteriormente abbassato la barriera d’ingresso rispetto all’espressione del pensiero. È bello che tutti possano dire la propria, ma è sorto il problema dell’autorevolezza. Una volta c’erano i filtri degli editori e dei giornali, che sceglievano testi magari discutibili, ma che comunque avevano subito un minimo di controllo. Oggi chiunque può raccontare su internet le cose più folli e trovare lo stesso ascolto di un premio Nobel. Anzi, magari di più perché scrive cose più facili. Uno dei grandi problemi del nostro tempo è fornire un’educazione critica che permetta alla gente di discernere».

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