lunedì 20 ottobre 2014

L'ambiguità del tema dei "diritti", tra processi di emancipazione e spinte de-emancipative

Pensati al di fuori dei conflitti storico-politici e dei concreti rapporti di forza, i "diritti" sono quella strana cosa alla quale Rodotà può richiamarsi per difendere la democrazia liberale e che Sofri può invocare per chiedere interventi militari in tutto il pianeta [SGA].

Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisiCome fare se il mercato pretende di stabilire cosa è compatibile. Anche se si tratta di democrazia

di Stefano Rodotà Repubblica 20.10.14

NEL 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).
Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera “politica dell’umanità”, l’opposto di quella “politica del disgusto” di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell’altro.
Quella del riconoscimento dei diritti è un’antica promessa. La ritroviamo all’origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l’ habeas corpus , il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato “l’età dei diritti”, alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del “lago Atlantico”, negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse “generazioni” di diritti: civili, politici, sociali, legati all’innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei “vinti”, l’italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all’eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell’umano a qualsiasi potere esterno.
Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall’innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti “insaziabili”, che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.
Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati “decidono”, annettendo alla sfera dell’economico le prerogative proprie della politica e dell’organizzazione democratica della società?
La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell’attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti “etico-democratici”, i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l’essere umano nella sua realtà più individuale e singolare». I diritti fondamentali “ultima utopia”, come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto “imperialistico” la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come “ultrademocrazia”, e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito «la marcia trionfale dei diritti»?
Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel “sud del mondo” che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell’Occidente. Al tempo stesso, però, l’attenzione per le costituzioni “degli altri” deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d’origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.
I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull’obbligo di renderne possibile l’attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell’altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella “politica dell’umanità” alla quale è legata la vicenda dei diritti.
Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull’iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?


I fragili ombrelli di Hong Kong
di Roberto Toscano La Stampa 20.10.14

Le strade di Hong Kong sono teatro, ormai da settimane, di una protesta pacifica di cittadini che chiedono più democrazia e meno autoritarismo. In concreto, esigono – richiamandosi agli accordi sulla cui base nel 1997 la città passò da essere una delle ultime colonie britanniche a far parte della Cina – di potersi governare sulla base di un suffragio universale e diretto. Si scontrano per questo motivo con un sistema elettorale che vede le candidature, in particolare quella per l’elezione del Chief Executive (il governatore che dovrà essere rinnovato nel 2017), sottoposte a un vaglio preventivo da parte di un comitato di Grandi Elettori composto da rappresentanti dei vertici economici e notoriamente allineato sulle posizioni del governo cinese.
Quello che è in gioco, al di là dei meccanismi elettorali, è il difficile equilibrio fra i due aspetti di un assetto istituzionale definito con la formula «Un Paese, due sistemi». 
Mentre la protesta di Hong Kong mira non solo a conservare le libertà fin qui preservate anche dopo la riunificazione con la Cina, ma ad ampliarle in una logica di fatto confederale, a Pechino non si vuole abbandonare il meccanismo di vaglio delle candidature, necessario – secondo quanto dichiarato da un alto funzionario del governo centrale – «a garantire che il Chief Executive ami la Cina, ami Hong Kong e tuteli la sovranità, la sicurezza e lo sviluppo del Paese». 
La protesta ha suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. È una protesta giovane (uno dei suoi leaders è un mingherlino e occhialuto diciassettenne, Joshua Wong), pacifica, colorita. È diventata nota come «rivoluzione degli ombrelli», visto che i dimostranti portano ombrelli multicolori, più per proteggersi dai lacrimogeni che dalla pioggia.
Si capisce quindi che sia una protesta che suscita simpatia e anche solidarietà. Ci vuole molto coraggio per opporsi al potere schiacciante di un Paese poderoso, di un governo impegnato con assoluta determinazione a non perdere il controllo su una popolazione di un miliardo e trecento milioni di persone. Nessuno ha dimenticato Tienanmen, e non sono pochi a temere che la repressione, finora esercitata dalla polizia locale, potrebbe – se la situazione degenerasse – essere affidata all’Esercito Popolare Cinese. 
Ma anche senza questa ipotesi estrema, possibile ma improbabile dati i costi politici ed economici che comporterebbe per la Cina, le prospettive di successo della «rivoluzione degli ombrelli» appaiono esigue. Lo sono innanzitutto perché gli abitanti di Hong Kong sono molto divisi e anzi, secondo alcuni sondaggi di opinione, si registrerebbe una prevalenza di chi è contrario alla protesta. I gruppi favorevoli al governo centrale sono numerosi (uno dei principali si chiama «Maggioranza silenziosa per Hong Kong»), e sono scesi in piazza con contromanifestazioni imponenti che in alcuni casi sono degenerate in scontri con i giovani della protesta democratica.
Non basta dire, anche se in parte è senz’altro vero, che questi gruppi sono promossi e manovrati da Pechino. Più interessante sembra invece chiedersi chi, nelle strade e piazze di Hong Kong, siano gli uni e gli altri. 
Il dato giovanile che caratterizza la protesta è senz’altro importante, ma a questo va aggiunto quello sociale. Il movimento è sostanzialmente un movimento di classe media, e di classe media istruita. A Hong Kong sia i potenti vertici del mondo economico che gli strati meno abbienti e meno colti della popolazione vedono invece con preoccupazione e ostilità una protesta che minaccia la stabilità e la prosperità – stabilità e prosperità che, assieme al nazionalismo, sono la base del consenso che il regime di Pechino continua ad essere in grado di raccogliere. Mentre il grande business teme che più democrazia possa significare instabilità e disordine, il 18 per cento della popolazione di Hong Kong che vive sotto la soglia di povertà non si identifica con una protesta riferita a questioni politico-elettorali e non a tematiche socio-economiche. Vengono in mente la caratterizzazione sociale, e i limiti, delle manifestazioni di Teheran contro la frode elettorale del 2009, e anche le ragioni del sostanziale isolamento minoritario della protesta del 2012 nella piazza Bolotnaya di Mosca contro l’autoritarismo putiniano. Anche in quei casi, la protesta era fortemente caratterizzata dal punto di vista sociale e del livello di istruzione, rivelandosi incapace di costruire – rimanendo minoritaria – più vaste convergenze democratiche sia sociali che politiche.
Speriamo che gli ombrelli di Hong Kong non vengano schiacciati dai carri armati, ma si può comunque prevedere che – purtroppo – finiranno comunque per chiudersi – come le rivoluzioni colorate dell’Est Europa, la protesta moscovita o il «dov’è il mio voto?» di Teheran.



Il simbolo della generazione Occupy Da Hong Kong al Messico le rivoluzioni degli ombrelli
di Adriano Sofri Repubblica 20.10.14

FRA i manufatti umani, l’ombrello è dei più antichi e versatili, e il suo rilievo simbolico fu universale. Si legge di un antico sovrano birmano che si attribuiva il titolo di “Re dell’elefante bianco e Signore dei ventiquattro ombrelli”. Da noi oggi, fabbricati in Cina, si comprano da benedetti venditori africani o asiatici al primo accenno di acquazzone, a una tariffa usa e getta. E di colpo i giovani di Hong Kong ne fanno l’insegna della propria impresa.
Messaggi su ombrellini di carta a sostegno della protesta a Hong Kong
IL BELLO delle rivoluzioni è che si trovano i loro simboli per una felice combinazione fra il caso e l’inventiva. A Hong Kong fa caldo, e bisogna proteggersi dal sole. Poi gli agenti speciali, nelle loro uniformi marziane, cominciano a usare spray al pepe e lacrimogeni, e viene fatto di proteggersi dietro gli ombrelli. Poi a un ragazzo, più esilarato degli altri, viene di mettersi a saltare in mezzo alla nube di gas con due ombrelli spalancati, e lo fotografano e lo battezzano “l’uomo-ombrello”, e di lì a poco è già un manifesto planetario.
Un giorno ero al capezzale di Elsa Morante e le dissi che fuori c’era una pioggia noiosa; «Sì — disse — ma gli ombrelli sono bellissimi quando si aprono». Se avesse visto aprirsi gli ombrelli di Hong Kong!
Anche i giovani di Hong Kong sono incerti se chiamare la cosa “rivoluzione” o “movimento”. Il primo nome sembra troppo solenne, e anche troppo canonico, il secondo promette di preservarne la duttilità, ma le cose poi finiscono, o comunque tornano a inabissarsi. Ora che le rivoluzioni politiche, quelle che si proponevano di conquistare il potere, non si fanno più, e così sia, le rivoluzioni si riprendono il loro diritto: che è quello di irridere la menzogna del potere, di denunciarne la violenza, e di proporre, almeno per un po’, un altro modo di vivere insieme. Sbucano all’improvviso, non più come vecchie talpe pazienti che hanno saputo scavarsi la loro occasione: e tuttavia sotterraneamente, misteriosamente si ricordano le une delle altre, senza antenati ed eredi, come nella storia politica, ma per citazioni creative, come nella storia dell’arte. In una delle innumerevoli variazioni grafiche — hanno fatto un concorso per il logo dell’ombrello, con risultati fantastici — c’è un ragazzo con l’ombrello aperto sulla testa che fronteggia la colonna dei carri armati: è una citazione del 4 giugno della Tienanmen, e fissa una parentela con quel meraviglioso giovane di Pechino che ipnotizzò la fila di tank col suo sacchetto di  plastica in mano. Così è toccato alla Cina di offrire due immagini delle migliori della storia contemporanea: il giovane che ballava davanti al carro armato nell’89, e i ragazzi degli ombrelli nel 2014. (Però la migliore, quest’anno, è della bambina che estrae dalle macerie di casa a Gaza il libro di scuola). Le rivoluzioni si ricordano l’una dell’altra, senza preoccuparsi di essere in linea.
“Occupy Central” è la traduzione di Hong Kong di “Occupy Wall Street”, e la canzone che ne è diventata l’inno, “Do U hear the people sing …”, viene dal musical sui Miserabili, e le barricate montate ordinatamente con le transenne dai ragazzi di Hong Kong sono cugine di quelle parigine sulle quali muore Gavroche, senza finire la sua canzone. Nel riadattamento in cantonese per la rivoluzione degli ombrelli l’inno dice più o meno: “Nessuno ha il diritto di restare indifferente di fronte alle migliaia di fiammelle di candele che luccicano in ogni mano: noi ci battiamo audacemente per il diritto a votare il futuro che ci appartiene”. Victor Hugo sarebbe stato entusiasta, tanto più se avesse potuto vederlo quel firmamento di telefonini-candela luccicanti sollevati nella notte in tutta la città, e la miriade di ombrelli colorati.
I simboli delle rivoluzioni sopravvivono loro, e le valgono. Sapete perché la rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974 si chiama “dos cravos”, dei garofani? Mentre i militari ribelli e la folla occupavano Lisbona, una sontuosa festa di matrimonio in un locale del centro dovette essere rinviata, e i titolari regalarono i garofani che l’avrebbero addobbata ai soldati, che li infilarono nelle canne dei fucili. La rivoluzione dei garofani. In Tunisia si chiamò dei Gelsomini, nel 2010, e l’anno dopo il governo cinese fu così spaventato dal contagio da censurare su Twitter la comparsa della parola: gelsomino. Gli ombrelli hanno qualcosa di più domestico e cattivante, specialmente quando sono rotti, rivoltati, storti, dopo aver fatto da scudo alle botte da orbi delle squadre speciali. Ce n’erano anche nelle fotografie di sabato sugli scontri di Bologna: l’emulazione è veloce, ma l’analogia finiva troppo presto. E ce ne erano a Berlino, dove gli ombrelli sono stati agitati dagli attivisti che manifestavano contro il traffico di essere umani. E infine tra i messicani che chiedevano giustizia per 43 studenti fatti sparire dopo scontri con la polizia.
Per militanti che siano, gli ombrelli sono del tutto non-militari. Nei giorni scorsi, grazie al meticoloso Cottarelli, si è saputo che il regolamento proibisce agli ufficiali di coprirsi dalla pioggia con un ombrello. Regola universale, a quanto pare, visto che anche Obama ha dovuto scusarsi con un cadetto cui aveva chiesto di tenerglielo aperto sulla testa.
L’ombrello è stato a lungo un accessorio femminile, e anche questo ha giovato al movimento di Hong Kong, che li ha scelti colorati, e ne ha mostrato la somiglianza con dei grandi fiori che si aprano e richiudano. La serietà e il coraggio di un movimento che sfida la prepotenza di un impero colossale e lo fa danzando con gli ombrelli, abitandoci sotto e scrivendoci sopra, e drizzandoli a testuggine, ecco un capitolo che il gran libro delle rivoluzioni cucirà con orgoglio tra le proprie pagine. «Altre mani si leveranno e impugneranno le nostre armi», scriveva il Che. «Se un ombrello si strappa — dice uno dei manifestanti di Hong Kong — un altro arriverà a rimpiazzarlo». I tempi cambiano e si fanno la rima. Gli ombrelli poi hanno qualcosa del paracadute, ma di un paracadute alla rovescia, specialmente quando vento o manganelli li rivoltano, e sembrano poter portare le ragazze e i ragazzi in alto, come aquiloni. Hanno anche citato la Grande Rivoluzione Culturale, a Hong Kong: mettendo in mano alla giovane Guardia Rossa dei manifesti di allora che doveva spazzar via il Quartier Generale… un ombrello. E riempiendo la metropoli di minuscoli e minuziosi post-it, versione ingentilita dei tazebao di allora, ed espressione di una moltitudine composta di altrettanti individui manoscriventi. Uno dice: «Sono così arrabbiato che l’ho scritto».



Una moltitudine di persone che ha preso le sue legnate, ha curato la raccolta differenziata, ha fatto della propria città minacciata un’arca di Noé, e l’ha provvisoriamente salvata dal diluvio. Una Fahrenheit degli ombrelli.

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