lunedì 20 ottobre 2014
"Sinistra", "destra" e "lotta di classe" nel lessico dell'ideologia dominante
Persino Sergio Romano può sbagliare. Proprio per la statura di Romano, sia la lettera che la replica sono tuttavia significative del clima nel quale viviamo [SGA].
Più o meno un secolo fa il mio maestro Benedetto Croce sosteneva che il
liberalismo è una concezione etico-politica che, avendo come fine la
maggiore libertà dell’individuo e la maggiore libertà di tutti, doveva
ricercare caso per caso, secondo la situazione storico-politica del
momento, la soluzione migliore per raggiungere quel fine; e la soluzione
poteva essere a volte di tipo liberistico e a volte di tipo
statalistico; ossia, possiamo dire, di destra o di sinistra, due parole
che si richiamano a quei sistemi economici allora imperanti.
A me giovane liberale (anni Quaranta) queste cose piacevano molto in
quei tempi di forte contrapposizione ideologica. Figuriamoci oggi. Oggi
le ideologie sono morte; il comunismo ha perso e ha vinto la società
aperta. Lei non pensa che i concetti di destra e di sinistra,
storicamente legati a due ideologie che non esistono più, appartengano
ormai a un antiquariato culturale? E che la sfida moderna non è fra
destra e sinistra, ma fra giusto e sbagliato?
Sergio Lepri
Caro Lepri,
Dietro la tesi di Croce vi era la convinzione che la vera libertà fosse
un affare di etica e coscienza, con aspetti quasi religiosi, e che
quella economica, invece, appartenesse alla categoria dei comportamenti
pratici, destinati a mutare secondo le esigenze del momento. Era
perfettamente concepibile, quindi, che uno Stato liberale restasse tale
pur nazionalizzando alcuni settori dell’economia. Questa tesi era per
molti aspetti la risposta di Croce a Palmiro Togliatti, con cui dovette
convivere nel secondo governo Badoglio, formato dopo la «svolta di
Salerno». Ma fu anche materia di una lunga discussione (civile, con
qualche reciproca stoccata) tra il filosofo napoletano e Luigi Einaudi,
economista, senatore e futuro primo presidente della Repubblica
italiana.
Einaudi riconosceva che l’intervento dello Stato nell’economia fosse in
molti casi utile e desiderabile, ma non tollerava che le libertà di
possedere e d’intraprendere fossero considerate libertà minori. Mentre
il filosofo teneva a una netta distinzione tra la sfera pratica della
vita economica e la sfera morale e spirituale della coscienza, Einaudi
pensava che fra le due vi fosse un inevitabile nesso. Non vi è libertà,
scrisse in una delle sue repliche a Croce, «in una società economica
nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane, vive
per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di
un’unica volontà».
La discussione durò più di trent’anni e divenne la materia di un libro
pubblicato dall’editore Ricciardi di Napoli sotto il titolo Liberismo e
liberalismo . Più recentemente questo libro è stato nuovamente
pubblicato in una collana del Corriere della Sera («Laici e cattolici. I
maestri del pensiero democratico»).
Le confesso, caro Lepri, che le mie simpatie, in questo caso, vanno alla
tesi di Einaudi. Ma i due contendenti, all’atto pratico, erano
altrettanto pragmatici ed egualmente contrari alle contrapposizioni
schematiche fra statalisti e liberisti. Lei ha quindi ragione quando
scrive che destra e sinistra sono ormai categorie antiche, poco utili
per l’economia dei nostri giorni. Sono care soprattutto a coloro che non
riescono a nascondere una certa nostalgia per la «lotta di classe».
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