martedì 21 ottobre 2014

Un ricordo di Luca Canali

Ricordo di Luca Canali
Maria Pellegrini, "l'immaginazione" n.282  luglio-agosto 1014

Non sempre la “misura” e il perfetto equilibrio sono caratteri positivi di una vita e di ogni comportamento umano, come riteneva il poeta latino Orazio. Forse è più giusto pensare che qualche balzo “sopra le righe” sia un complemento fecondo dell’abituale compostezza. Luca Canali non riusciva a raggiungere nel vivere quotidiano quell’armonia, quella “misura” che ricercava nella scrittura e nello stile dei suoi libri pur essendo la sua prosa articolata seguendo quella tecnica che i latini definivano climax, cioè un martellante crescendo di tono per rappresentare il materiale eterogeneo di cui è composta l’esistenza umana. Ho sempre ammirato le creazioni letterarie o artistiche che nascono da intelligenze psichicamente ferite ma animate da illuminazioni geniali, per questo ho seguito sempre con interesse Luca Canali che dall’esperienza del dolore psichico e della sua “follia lucida” (titolo di una suo volume di poesie) aveva tratto ispirazione per scrivere versi e romanzi nei quali traspare il senso della precarietà di ogni esistenza e del dolore del mondo.
La scomparsa di questo insigne latinista e studioso, sebbene nel feroce ordine naturale delle cose, rappresenta una grave perdita per la cultura essendo un raffinato interprete del mondo antico latino ed esponente di una colta e rigorosa classe di autentici scrittori, con una concezione della letteratura priva di aspirazione al facile successo con l’ostentazione di “effetti speciali”. Pur se uno spirito “democratico” traspare in tutti i suoi scritti e ha improntato la sua vita, l’ombra di un gusto “aristocratico” aleggia in numerosi suoi articoli che denunciano il fastidio - ma non il disprezzo - per ogni forma di grossolanità di comportamento diffusa a tutti i livelli della società.
Cosa potrei dire in memoria di Luca Canali? Ricordi e pensieri legati a vent’anni di frequentazione quotidiana stentano a tramutarsi in parole e rimangono imbavagliati da lacci invisibili, ma tenterò di scriverne un ritratto anche riportando alcuni lati del suo carattere nel rapporto con gli altri e con la vita di ogni giorno.
Luca Canali attribuiva alla parola scritta un potere liberatorio e di denuncia contro l’ingiustizia che domina nel mondo, contro la ricchezza così mal distribuita, contro la violenza degli uomini e delle istituzioni, contro la numerosa letteratura di consumo e di cassetta, contro la pratica della vivisezione, contro i tagli indiscriminati alla cultura, contro la deriva del capitalismo trionfante che sta facendo delle nostre città centri commerciali, contro l’abbandono della cultura umanistica, unico baluardo per fermare l’Attila che è in noi; contro gli uomini che dovrebbero essere preposti a rendere il nostro tempo gradevole e invece finiscono per diffondere prodotti di un livello spesso così basso da essere causa del diffondersi di una pseudocultura di massa e di un sempre maggiore allontanamento dal buon gusto o dall’autenticità del divertimento. Durissime le sue parole contro la rovina del mondo naturale, la trasformazione del nostro intero mondo in un immenso
mattatoio, luogo di totale carnalità torturata e soppressa. Partecipava sempre con sgomento al destino dei vinti e ricordava spesso una frase dell’Eneide virgiliana, detta da Enea ai suoi concittadini in fuga dall’incendio di Troia: Unica salvezza ai vinti, non sperare alcuna salvezza.
Come Lucrezio, Canali considerava la storia dell’umanità senza paradisi terrestri né età dell’oro, interamente svoltasi sotto il segno della dura necessità e della brama di ricchezza e di potere, oltre che di un incessante progredire della tecnologia troppo spesso messa al servizio delle stragi belliche anziché del benessere umano. Si lamentava della società dominata dalla dismisura in tutte le sue forme e riteneva importante che ognuno trovasse la propria misura e il proprio stile anche a costo di essere emarginato e sconfitto, ma poi il suo quotidiano era improntato alla dismisura fino a cedere a un eccesso di vitalismo produttivo. La scrittura, nel suo caso, era la droga quotidiana. Aveva sempre mille progetti in mente, lettere da scrivere, nuovi libri, nuove traduzioni. Il telefono era il suo contatto con il mondo e attraverso il telefono contattava editori, uffici stampa, caporedattori di giornali per proporre un suo libro, un’idea, un articolo su eventi o letture che lo avevano particolarmente interessato. Non aveva un buon carattere. Credo che molti siano gli editori che avranno ricevuto qualche sua lettera non proprio gentile. Spesso mi rifiutavo di copiargli lettere scritte con acrimonia e livore rivolte ad amici, colleghi, editori, e allora spediva l’originale vergato a mano. A questo si deve il suo vagabondaggio editoriale.
Le numerose e non sempre dolorose esperienze della vita ne avevano sensibilizzato l’animo, capace di penetrare nella mente e nel cuore altrui e di avere una visione a 360 gradi dell'agire e del pensare umano cogliendo tuttavia anche il lato umoristico o grottesco di alcune situazioni. Era un uomo pieno di fobie, ossessioni, la sua vita era regolata da ritmi quotidiani rispettati con rigore. Usciva sempre alla stessa ora, sempre lo stesso percorso, anche il suo pasto era sempre lo stesso da anni. Viveva prigioniero dei suoi tic, del bisogno di simmetria, della sua nevrosi, la Balena Bianca con la quale ingaggiava ogni giorno un corpo a corpo. Tre Tavor al giorno controllavano l’ansia e le tempeste psichiche, spesso senza riuscirvi. Viveva in solitudine, ma leggeva la stampa e aveva contatti telefonici ed epistolari frequenti con poeti, scrittori, ex colleghi universitari, giovani studiosi, tenendosi al corrente di quanto avvenisse nel mondo culturale e in particolare in quello dell’editoria; aveva l’abitudine di giudicare con molta severità i libri che gli erano inviati dalla case editrici, tuttavia ammirava le acuzie intellettuali e le soluzioni stilistiche originali di tanti autori, ma non sapeva trattenersi dal condannare senza mezzi termini una scrittura che ritenesse sciatta o volgare tanto da sfiorare la pornografia. Non amava nelle conversazioni i luoghi comuni e non sopportava l’esaltazione dei critici per romanzi che considerava “stagionali” e le presentazioni in televisione sognate e inseguite anche da modesti scrittori. La sua vis polemica si
esprimeva talvolta con livore, odiava il mercato delle recensioni e lo sgomitare per entrare nella finale dei premi importanti.
Non era tutto rose e fiori lavorare con lui. Viveva sotto l‘opprimente cappa del presente negativo. Periodicamente mi ordinava - il tono di voce con il quale mi incaricava di svolgere qualche incombenza era inequivocabilmente perentorio – di andare in biblioteca a consultare pubblicazioni su un argomento o opere di autori latini che aveva in mente di tradurre. Tornavo con fotocopie o libri presi in prestito alla Nazionale, ma nel frattempo già aveva deciso, aveva parlato con qualche editore – “andava dall’editore come si va dal dottor Freud”, ha detto Roberto Pazzi in una recente intervista -. Voleva subito mandare il progetto del libro con una scheda e l’incipit della prevista pubblicazione che doveva essere messa in cantiere immediatamente. Il mio compito era di cominciarci subito a lavorare, fosse pure Natale o Capodanno. Ogni giorno lo viveva come fosse l’ultimo della sua vita. Mi metteva al corrente di come dovevo procedere, ne parlavamo, mi dava consigli e già il giorno dopo era in attesa di qualche pagina scritta. Trovavo l’uscio di casa aperto per evitare di alzarsi al mio arrivo; entrando fissava l’orologio e mi rimproverava se fossi arrivata cinque minuti prima o dopo. Era contento di vedermi ma doveva accogliermi in modo burbero per nascondere il piacere della mia presenza. I primi commenti erano spessi anche sul mio aspetto: “Come sei vestita male questa mattina. Sei sciatta.” Oppure se mi vedeva abbigliata in modo più elegante, supponendo che dovessi poi incontrare qualcuno alla fine dell’ora che mi dedicava, commentava sarcastico: “Oggi ti sei messa un abito d’ordinanza, dove devi andare, uscendo da qui?” Per farmi un dispetto allora mi tratteneva a lungo, più a lungo del solito. Lo trovavo sempre seduto nel suo angolo al bordo estremo del divano poiché non aveva uno studio dove lavorare; quell’angolo di divano, illuminato da una lampada, era il suo luogo eletto per scrivere, ponendo sulle ginocchia una rivista che facesse da supporto ai fogli. Impugnava la penna, una bic dall’inchiostro sempre nero ed era pronto ad accogliere quanto io portassi di scritto per correggerlo con la severità di un purista della lingua, con l’ avidità di un affamato che si getti su un pasto portatogli in dono. Ero la scolaretta che portava il compito al maestro. A dire il vero era un bravo maestro perché le mie traduzioni diventavano, con pochi ritocchi, poesia e le mie bozze di scrittura dopo i suoi interventi prendevano vita come un quadro sotto le mani di un esperto restauratore. Con spirito critico sentiva il bisogno di analizzare tutto, con analisi linguistiche e citazioni filosofiche che mi mettevano in difficoltà. Nella massa aggrovigliata di parole e pensieri che gli portavo sapeva trovare il bandolo per tentare di districarla. Voleva anche darmi insegnamenti di vita che secondo lui andava vissuta con coerenza. Coerenza significava per lui - e me lo aveva appuntato una volta su un foglio - “il logico svolgimento di una ideazione e di un comportamento che tengano conto anche delle inevitabili, e talvolta necessarie, varianti che il semplice ‘mestiere di vivere’ comporta, purché queste non contrastino con il nucleo iniziale ma centrale della propria moralità, dalla quale
discendano tutti gli impegni concreti nella propria vita personale”. Con il suo viso scavato e lo sguardo severo era pronto a riprendermi alla prima battuta che fosse un’oziosa e inutile aggiunta a ogni suo discorso.
Ho sempre accettato i suoi rimproveri quando commentava il mio lavoro. Poneva i suoi giudizi a lato del foglio con punti interrogativi o esclamativi. Se poi scopriva una qualche inesattezza, a caratteri cubitali appuntava: “Dove hai la testa!” Spesso i suoi erano commenti ironici che mi mettevano di buon umore, non sopportava l’ovvio, le frasi inutili. Mi sembrava di essere tornata a scuola: aspettavo trepidante il giudizio del professore e i suoi voti. La sua ansia mi perseguitava, non poteva sopportare di non trovarmi a casa per comunicarmi immediatamente un qualcosa da aggiungere o escludere dall’articolo scritto per una rivista, o sapere il titolo di un libro che non ricordava, e mi lasciava alla segreteria dei messaggi intimidatori: “Se continui ad andartene a spasso, lo finiremo chissà quando il nostro lavoro!” Se chiamandomi al telefono sentiva in casa la voce di un nipotino, chiudeva bruscamente il telefono bofonchiando: “Ti richiamo quando se n’è andato quel marmocchio”. Non voleva che altri disturbassero il mio e il suo lavoro. Spesso assumevo un atteggiamento di una madre premurosa con un figlio fragile da proteggere. Mi parlava sempre dei suoi mali, non con tono lamentoso ma riferendomi in termini scientifici come un esperto medico i sintomi e le diagnosi dei suoi malesseri, mi riferiva l’andamento dei trigliceridi e della bilirubina, del numero dei globuli rossi e bianchi saliti o scesi nelle analisi appena ritirate. Il sospetto di un peggioramento lo metteva di cattivo umore. Mi faceva allora telefonare e prendere appuntamento con i medici, che prontamente accorrevano a visitarlo e subito, acquistati i farmaci prescritti, cominciava a leggerne il foglietto accluso. Alla fine decideva lui se prenderli o no. C’erano a suo avviso “effetti indesiderati” per lui non sopportabili. “Buttati al vento i duecento euro dati a quel luminare accorso a visitarmi”, sospirava deluso. Ma presto tornava a chiamarne un altro e la diffidenza verso la diagnosi e la cura, era la stessa della volta precedente.
Non c’erano parole che potessi dire per tranquillizzarlo. “Non ho bisogno di consigli”, era la pronta risposta, quando gli suggerivo di prepararsi pasti più appetitosi e non soltanto pasta condita con olio crudo, o nasello congelato lesso. Si preparava da solo il pranzo e la cena. Qualche volta entrando in casa sentivo un odore acre di bruciato. Aveva dimenticato sul fuoco qualcosa e sul lavandino giaceva una pentola annerita.
Non badava ad avere una casa elegantemente arredata, fino a qualche anno fa circolavano nelle stanze tre gatti e un cane che erano la sua compagnia preferita. Il suo amore per gli animali era fortissimo, e non solo per i propri. Seguendo l’insegnamento di Gandhi riteneva “che tanto più una creatura è impotente, più diritto ha alla protezione dalla crudeltà degli uomini”. Sfamava gatti randagi che incontrava nelle passeggiate attraverso il suo quartiere scegliendo accuratamente le migliori confezioni variando i gusti perché il cibo fosse ogni giorno diverso, ed era
capace di scatti d’ira e ingiurie plebee se qualcuno si lamentasse di quel suo attirare nei pressi della propria abitazione quelle “bestiacce” sfamandole. Nascevano battibecchi sull’igiene, il decoro. Si formava un piccolo circolo di curiosi e gli animi si scaldavano, ma la severità e il piglio integralista con cui lui difendeva il suo operato zoofilo metteva a tacere le contese. Quando era più in vena di colloquio aggiungeva “quanto fosse stupida la filosofia dell’universo antropocentrico smascherata ogni giorno dalle pagine dei giornali che documentano tutte le abiezioni solitarie o di massa di cui l’uomo è capace”.
Talvolta lo accompagnavo nella sua passeggiata mattutina e lo ascoltavo seguendo l’ariosa trama dei pensieri che lo spingeva al racconto di episodi della sua vita crivellata dai colpi di un destino non certo felice. Nelle poche frasi, asciutte, semplici, essenziali, che mi rivolgeva in quelle occasioni, ne ammiravo l’intelligenza, la sicurezza, la tristezza, l’umanità non la pietà, la semplicità non la banalità. Spesso rimaneva in silenzio. Ai miei tentativi di iniziare una conversazione mi tacciava di non essere capace di “saper ascoltare il silenzio”. Mi difendevo: “Per capire il tuo silenzio ci vogliono capacità magiche come per accordare i colori della vita”. Nessuna risposta. E per me tacere in quel momento diventava un imperativo al quale non potevo sottrarmi.
Sulla stampa di questi giorni e anche alla radio autorevoli giornalisti e professori universitari ne hanno ricordato le pubblicazioni, elogiato la sua vasta cultura, il suo amore per i classici antichi, ma c’è qualcosa della sua generosità quotidiana che vorrei sottolineare: l’attenzione per l’umanità più debole, soprattutto gli extracomunitari che chiedono l’elemosina. Lo aspettavano all’uscita del supermercato e lui dispensava a tutti il necessario per poter mangiare almeno per quel giorno. Non era solo pietà la sua, era anche curiosità per quell’umanità derelitta alla quale domandava quali fossero i motivi che li avessero portati nella nostra terra. Molti erano diventati suoi amici e lo rincorrevano chiamandolo “Luca, Luca”. Si fermava a parlare con loro più a lungo che con qualche sussiegoso vicino di casa. Chiedeva notizie delle loro famiglie, e quando una volta un vigile aveva requisito a un giovane africano della merce che vendeva stesa su un tappeto, aveva ingaggiato con quell’uomo, così rigoroso nel suo servizio d’ordine, una discussione tanto fervida e convincente che il vigile era capitolato, travolto dalla dialettica strabiliante di quello che a lui sembrava un vecchio pensionato, neanche tanto in buona salute.
Da un po’ di tempo non usciva più, camminava con passo incerto nella sua casa, come trascinando il peso di una vita intensa trascorsa negli ultimi trent’anni tra le pareti di quell’appartamento, arredato da sua madre che lo aveva accolto in casa dopo il fallimento del suo matrimonio e in preda a una profonda depressione con l’acuirsi del suo male psichico. Non aveva mai cambiato nulla dell’originario arredamento, lo aveva personalizzato aggiungendovi solo alcuni quadri, regali di pittori suoi amici, e riempito un tavolinetto al centro del salotto con piccoli
soprammobili tenuti in rigorosa simmetria e nessuno doveva cambiarli di posto. Ero investita da un fiume di rimproveri se per caso spostavo quegli oggetti per far posto ai fogli che gli portavo. La sua stanza era arredata con semplicità francescana, una piccola scaffalatura conteneva pochi libri. Non possedeva le ampie e fitte librerie davanti alle quali sono ritratti e ripresi nelle interviste tutti gli scrittori e uomini di cultura. Dopo averle lette si liberava, regalandole, delle ultime pubblicazioni inviate dagli editori. Non possedeva più neppure i molti libri pubblicati nel corso della sua vita, che dava con generosità a chiunque andasse a trovarlo. Non aveva un archivio della corrispondenza o manoscritti non pubblicati, né un diario segreto. Aveva lasciato memoria di sé nei suoi romanzi nei quali attraverso i protagonisti si celava sempre qualcosa di se stesso. Voleva lasciare la “furia del mondo” libero da inutili bagagli e ha lasciato la vita in silenzio volendo intorno a sé solo i suoi cari e gli amici più fedeli. Con il tempo, durante il lungo rapporto di lavoro, scoprii anche i difetti del suo carattere, ma come mi diceva un suo amico : “I cavalli di razza, scalpitano”. E lui era un cavallo di razza. Poliedrico e interessato a quanto si pubblicasse, dalla saggistica alla poesia, dai classici latini ai romanzi contemporanei, e lui stesso è stato poeta, saggista, romanziere, finissimo traduttore di classici latini, poeti soprattutto: Virgilio, Orazio, Catullo, Lucano, Tibullo, Properzio, Stazio, Prudenzio, Ausonio, Giovenco. Gli sarò sempre grata per quanto mi ha insegnato.
È stato fino alla fine un uomo battagliero, nonostante la sua logora armatura. Nei suoi ultimi giorni di vita ho cominciato a sentire preoccupante la sua improvvisa mitezza, quasi un presagio del suo abbandono, del suo arrendersi e l’ho visto sempre più scivolare verso la fine. Non gli sarebbe piaciuto vivere senza più mète da raggiungere o avvertendo che il suo pensiero divenisse confuso. Chi gli ha voluto bene deve essere contento che il suo viaggio sia finito con la mente lucidissima e ancora piena di progetti, e immaginarlo approdato in qualche radura luminosa da dove ci osserverà con sorriso sarcastico.
Maria Pellegrini

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