Il risultato elettorale, con un astensionismo attorno al 50%,
conferma la crisi di legittimità del potere costituito e della stessa
forma della rappresentanza; ma premia anche il lucido realismo di chi sa
che la politica è un linguaggio tecnico che fa i conti con quello che
c'è e non con ideali e utopie, e di conseguenza sa coagulare forti
minoranze.
Le elezioni sorridono alla Sinistra di governo. Ma dimostrano che c'è lo spazio per una Sinistra
che sia in grado di spostare a sinistra la Sinistra di governo. E per
certi aspetti attestano anche che c'è, per la prima volta dopo anni, la
possibilità di costruire una Sinistra alternativa sia alla Sinistra di
governo che a quella che vuole spostare a sinistra la Sinistra di
governo. Anche tenere ferme entrambe queste possibilità - magari
alleandosi in Calabria e non alleandosi in Emilia Romagna - può essere
una strada praticabile.
Salvini è ovviamente contento ma anche a Berlusconi in fondo poteva
andare peggio. Pure i grillini hanno tenuto, considerato che il loro
leader si è speso poco.
Insomma, tutti sono soddisfatti, tutti vedono confermate le proprie previsioni, tutti l'avevano già detto, va tutto bene. Possiamo rimanere a casa [SGA].
Renzi: è due a zero per noi, ai duri e puri percentuali ridicole Il premier attacca la sinistra interna
di Maria Teresa Meli Corriere 24.11.14
ROMA A notte fonda Matteo Renzi ammette che l’«affluenza è andata male»,
ma sottolinea che i risultati del Pd «sono buoni»: «Vinciamo con un 2 a
0 netto». Quindi aggiunge: «In soli nove mesi abbiamo strappato quattro
regioni su quattro alla destra e siamo sopra il 40 per cento, mentre le
forze politiche che hanno appoggiato lo sciopero generale hanno
percentuali da prefisso telefonico. Certo, il dato dell’affluenza
preoccupa, ma quello elettorale è netto. Noi abbiamo vinto e la Lega ha
asfaltato i grillini e FI».
A sera, invece, quando i dati dell’astensionismo in Emilia si rivelavano
nella loro deflagrante evidenza, Renzi aveva adottato un atteggiamento
zen. I perché e i per come di quella scarsa affluenza riguardano quella
regione e la tattica che la minoranza pd ha messo in atto per sfiancare
il premier.
Ma non sono solo gli avversari interni a sfregarsi le mani per
l’astensionismo. Ogni volta che qualcuno punta i riflettori sul calo dei
votanti Renzi sorride e allunga l’elenco di chi vorrebbe impedirgli di
andare avanti o, quanto meno, di di condizionarlo. Renzi ritiene che
nonostante abbia vinto in tutte e due le regioni gli daranno del filo da
torcere: «So bene che daranno la colpa a me. È ovvio. Ma io non ci
casco. Non mi importa. Queste elezioni non avranno ripercussioni sul mio
governo, perché queste elezioni non erano un referendum sul mio
esecutivo. Chi crede o spera di mettere in mezzo il governo si sbaglia
di grosso. Io vado avanti».
L’uomo è fatto così: «Io potrò anche fallire, ma non per queste
elezioni. Continuerò a provarci perché so che abbiamo un’unica
possibilità, quella di rivoluzionare l’Italia». Costi quel che costi.
Anche quando il prezzo è la minoranza interna che in Emilia, magari, ha
preferito non darsi troppo da fare. Anche quando il leader della Fiom
emiliana, Bruno Papignani, in campagna elettorale ha lanciato questo
appello: «Fate una sorpresa a Renzi, non votate Bonaccini». Il quale
Bonaccini, peraltro, da persona onesta qual è, ammette che con il boom
dell’astensionismo il premier poco c’entra: «Qui l’inchiesta sulle spese
della Regione ha pesato davvero», confida agli amici.
Renzi sa che l’astensionismo in Emilia ridarà fiato alla minoranza più
agguerrita. Pippo Civati ha cominciato dalla mattina. Ma è ovvio che non
è lui che preoccupa Renzi. Il suo sguardo va oltre le contingenze. «Io —
spiega ai collaboratori — quando sono andato al governo ho sbaragliato
un progetto tecnocrate e neocentrista che era pronto. Ma so che gli
ideatori di quel progetto sono ancora lì che aspettano un mio passo
falso, che vorrebbero mettermi sotto tutela, fermarmi. Non ci
riusciranno».
È ovvio che Renzi quando parla così non sta pensando agli avversari
interni. A Bersani, Bindi e D’Alema. Però anche loro sono sul piede di
guerra.Ma Renzi si è ripromesso di non farsi trascinare in questo
giochetto. Il suo motto è e rimane: «Noi siamo il governo del fare,
quindi facciamo». Tradotto: portiamo a casa il Jobs act alla Camera e la
riforma elettorale al Senato a fine anno. Sì, anche quella, pure se ora
è più difficile. Poi c’è marzo 2015: è la data fissata ufficialmente
per l’approvazione definitiva dell’Italicum. Si può sforare di un mese
al massimo e arrivare ad aprile, benché non si debba dire. Però non si
può andare oltre. Anche se gli avversari interni ora gli contesteranno
che il premio di lista favorisce la Lega. E che alla fine il rischio è
quello di consegnare il Paese in mano a Salvini. Ma lui non ci crede.
Comunque, quelli che preoccupano veramente Renzi in realtà sono altri.
Sono i «tecnocrati e i burocrati». Quelli ai quali ha scombinato i
piani, che lo aspettano al varco, attendendo il logoramento oppure il
passo falso. «O noi o loro», ricorda ai suoi il premier.
Quanto pesano quei seggi vuoti
Non sarà un test sulla salute del governo. Ma nemmeno potrà essere sbandierato come un suo successo
di Stefano Folli Repubblica 24.11.14
IL DATO clamoroso dell’astensione in Emilia Romagna, la regione dove
tutti, ma proprio tutti, andavano a votare per senso civico e fedeltà al
Pci, dice molto sull’Italia dalla rappresentanza fragile. In Calabria
si vota di meno da sempre, ma che all’ombra di San Petronio le urne
siano vuote come e persino più che sullo Stretto offre la fotografia di
una regione e di una nazione che in pochi anni si sono trasformate come
forse era difficile immaginare. E mette in sottordine la stessa,
presunta vittoria dei candidati del Pd.
Non sarà un test sulla salute del governo. Ma nemmeno potrà essere sbandierato come un suo successo
C’ÈANCHE, certo, un elemento di modernità e di normalità nella tendenza
all’astensione. Eppure è meglio non fare confusione. Il voto compatto
del passato, figlio di una disciplina quasi militare, era un ricordo già
da tempo. Sotto questo aspetto, la fase post-ideologica era cominciata
da un pezzo anche fra Bologna, Modena e Forlì. Tuttavia, poiché l’Emilia
Romagna non è il Nebraska, il crollo repentino dell’affluenza è un dato
dai risvolti politici che andranno indagati a fondo alla luce dei
risultati reali. Anche perché è opinione diffusa e radicata che il voto
emiliano-romagnolo non sarà neutro, cioè non sarà privo di conseguenze
sul piano nazionale. Non sarà un test sulla salute del governo, aveva
anticipato con prudenza la Boschi; ma nemmeno potrà essere sbandierata
come un successo di Renzi la probabile assegnazione al Pd dei due nuovi
«governatori ». Né Beppe Grillo, dal canto suo, potrà annettersi gli
astenuti, quasi fossero una corrente esterna dei Cinque Stelle che va a
colmare il calo di consensi del movimento. L’astensione stavolta
colpisce insieme la politica e l’antipolitica e merita una riflessione
distinta dalla propaganda.
Vedremo, innanzitutto, quanto un’affluenza al di sotto del 40 per cento
peserà sui risultati definitivi e soprattutto sul rapporto fra le forze
in campo. È chiaro che il Pd di Renzi subisce uno sciopero del voto da
parte di chi non ha condiviso certe scelte di politica economica. La
Cgil è forte e influente nella regione, così come è estesa più che
altrove la rete del potere locale ancora legata al vecchio assetto del
partito. Il braccio di ferro in corso sul piano nazionale non poteva non
avere riflessi in Emilia Romagna, anche se Bonaccini era tutt’altro che
un candidato di rottura e nessuno, peraltro, aveva previsto un simile
tracollo.
Ma il «partito di Renzi» non è ancora maturo. È nato e tuttavia deve
ancora crescere. La sfida a tutto campo ha incontrato i primi, seri
ostacoli sul campo. In fondo era il primo confronto elettorale dopo
l’ubriacatura delle europee ed è arrivato in un momento non facile per
il governo sotto diversi profili. Che Renzi perdesse consensi nel
vecchio mondo legato alla storia del Pci e del sindacato, era
comprensibile. Ma il futuro del fenomeno politico intestato al
presidente del Consiglio sarà deciso da un unico, determinante fattore:
la capacità del giovane leader di conquistare altri voti (parecchi voti)
in settori nuovi della società, in modo da compensare quelli perduti e
allargare la base sociale di riferimento.
Non sappiamo per adesso se in Emilia Romagna questo travaso sia
iniziato. Probabilmente non era l’occasione giusta per avviare
l’esperimento. Si dovrà verificare se la Lega di Salvini ha tratto
vantaggio dalla valanga astensionista o se anch’essa ne è stata
condizionata. Lo stesso vale per il complesso del centrodestra e per i
grillini. Quel che è certo, da oggi comincia una fase nuova del
«renzismo». L’attacco frontale alla sinistra e al sindacato disorienta e
non paga, anche se poi la vittoria elettorale, in termini strettamente
numerici, magari arriva lo stesso. Se a destra cresce un personaggio,
che può essere anche Salvini, ecco che l’espansione del Blair italiano
puó incagliarsi.
Le conseguenze non sarebbero irrilevanti. A cominciare dal destino di
quel «patto del Nazareno» che in fondo non convince oggi né i fautori né
i detrattori.
Nessun commento:
Posta un commento