domenica 23 novembre 2014

Una mostra di disegni di Schiele


Courtauld Gallery 23 October 2014 - 18 January 2015


Schiele, il nudo riconquista l’anima 
Alla Courtauld Gallery "Egon Schiele: The Radical Nude". Solo due stanze e solo disegni, ma un senso concentrato di spiritualità e di potenzialità significante, pur nella crudeltà dell’esibizione

Stefano Jossa, Alias il Manifesto 23.11.2014 

Due donne si abbrac­ciano, il volto dell’una nasco­sto da quello dell’altra, i loro muscoli tutti pla­sti­ca­mente in risalto, dalla spalla destra della donna a sini­stra fino alla natica sini­stra della donna a destra: una com­po­si­zione per­fetta, a suo modo clas­sica, eppure smem­bra­bile in tutti gli ele­menti che la costi­tui­scono (il ven­tre in rilievo, la sca­pola alata, la fusione dei corpi nel con­tatto) e asso­lu­ta­mente irrea­li­stica nelle sue scelte colo­ri­sti­che (col rosso fuoco di lab­bra e capez­zoli, mac­chie di verde per le vena­ture e gri­gio per i muscoli). 

È uno dei nudi di Egon Schiele in mostra alla Cour­tauld Gal­lery di Lon­dra: Egon Schiele: The Radi­cal Nude, fino al 18 gen­naio 2015; cata­logo a cura di Bar­naby Wright, Peter Vergo e Gemma Black­shaw, pp. 144, £ 25.00): il più com­po­sto forse, cer­ta­mente uno dei pochi a con­te­nere più di una figura (il mas­simo è due). Pur essendo quasi clas­sico nella com­po­stezza della posa e nell’equilibrio delle forme, il dise­gno è un capo­la­voro di ten­sione, allu­si­vità e inquie­tu­dine. L’abbraccio è affet­tuoso, con­so­la­to­rio o amo­roso? I corpi s’incontrano o si spec­chiano? La rap­pre­sen­ta­zione è rea­li­stica o alle­go­rica? Una sot­tile dire­zione mistica li per­vade, come se il corpo, tutto, nel suo insieme e nei suoi par­ti­co­lari, volesse dire di più, la sua sto­ria e la sua sorte, le sue emo­zioni e i suoi desi­deri, le sue paure e le sue fragilità. 
È il cen­tro di tutto, infatti, il corpo, che porta sem­pre con sé la sua glo­ria e la sua mise­ria, l’esaltazione del sesso e la sua abie­zione, il vita­li­smo delle giun­ture e l’inesorabile destino di morte. Soma-sema, diceva Pla­tone nel Cra­tilo, il corpo è segno dell’anima, sua mani­fe­sta­zione, ma anche sua tomba e suo custode, sof­fo­ca­mento e pre­ser­va­zione assieme: per Schiele è pro­prio così e il corpo con­tiene il mistero della vita e della morte. I suoi nudi, per­ciò, anche quando mor­bosi, inquie­tanti, pro­vo­ca­tori, sono sem­pre mistici: lì è l’uomo, ma lì è anche dio, la presa di coscienza che lì è tutto e non c’è altro al di fuori. Non com­pare mai, infatti, alcuno sfondo; le figure sono spesso senza testa o col volto girato o par­zial­mente mutile; l’eventuale ele­mento esterno che ne deter­mina la posi­zione (il piano su cui sono stesi, la sedia su cui sono seduti, la colonna cui sono appog­giati) spa­ri­sce; i limiti del foglio esclu­dono e inclu­dono, come se il taglio fosse sem­pre neces­sa­rio. Fu dav­vero sciocco con­si­de­rare por­no­gra­fici que­sti dise­gni, anche se quella era l’epoca della cir­co­la­zione delle prime foto porno e della nascita della psi­coa­na­lisi: non solo per­ché in essi c’è più la paura che la gioia del sesso, ma soprat­tutto per­ché sono una con­ti­nua esplo­ra­zione dei con­fini fra realtà e fin­zione, da una lato, e fra desi­de­rio e pos­ses­sione, dall’altro lato, con lo sguardo rivolto sem­pre al supe­ra­mento delle oppo­si­zioni. Però è pro­ba­bil­mente pro­prio qui la ragione per cui Schiele è quasi assente dai musei bri­tan­nici e que­sta è la prima mostra orga­nica a lui dedi­cata nel Regno Unito. Era stato del resto il car­cere, dove Schiele fu rin­chiuso nel 1912 a seguito dell’accusa di aver tra­viato una mino­renne, a costi­tuire la pre­messa bio­gra­fica della mag­gior parte dei suoi nudi, pro­dotti pro­prio dopo quell’esperienza, durante la quale il pit­tore si mise a dipin­gere con la saliva sulle mac­chie d’intonaco «per non impaz­zire del tutto»: «poi osser­vavo, scri­veva nel dia­rio dal car­cere, il loro lento asciu­garsi fino a impal­li­dire e spa­rire nella pro­fon­dità del muro, come fatti spa­rire dall’invisibile potenza di una mano incantata». 
In que­stione è sem­pre il rap­porto tra finito e infi­nito, il primo desti­nato ine­so­ra­bil­mente a soc­com­bere, a cor­rom­persi e per­dersi, ma col secondo costan­te­mente in agguato, stru­mento di sal­vezza di ciò che è stato creato, redi­men­dolo dalla scon­fitta che incombe: s’impone così una rine­go­zia­zione dei legami e i con­fini tra l’alto e il basso, il divino e l’umano, si spo­stano. Lo spie­gava qual­che anno fa Agam­ben con le sue rifles­sioni sulla nudità: il nudo è veste di ciò che è den­tro o sotto il corpo, fino a imporre il pas­sag­gio, asso­lu­ta­mente neces­sa­rio, dalla natura alla gra­zia. Vei­colo di verità, insomma, per­ché il corpo è glo­rioso, por­ta­tore di glo­ria, di stu­pore e di cono­scenza: non magni­fi­ca­zione del corpo nella sua agi­lità e bel­lezza, ma aper­tura di poten­zia­lità infi­nite e ric­chezza signi­fi­cante. Anzi­ché gene­rato, il corpo genera: ten­sione, movi­mento, desi­de­rio e senso. Di que­sti dise­gni si potrà dire ciò che del loro autore disse il cri­tico e col­le­zio­ni­sta Hein­rich Bene­sch: a rischio di serietà, ma non la serietà malin­co­nica e lugu­bre, bensì quella di chi è domi­nato da una mis­sione spirituale. 
La mostra, pic­cola (solo due stanze e solo dise­gni) ma straor­di­na­ria, costi­tui­sce un vero e pro­prio ingresso nel labo­ra­to­rio di un arti­sta che fin dall’inizio rifiuta le pose clas­si­che (anche quando stu­diava all’Accademia: i suoi torsi erano di spalle e acco­vac­ciati), esplora le ner­va­ture, i muscoli e le ossa con la pen­nel­lata e il colore, instilla un senso di forza e fra­gi­lità, scatto e per­di­zione, biso­gno di vita e paura di non affer­rarla, la vita, in tutti i suoi ritratti. «Sono con­vinto che i più grandi pit­tori abbiano rap­pre­sen­tato figure», diceva Schiele nel 1911, ma lui voleva dipin­gere «la luce che emana da tutti i corpi»; per­ché «le opere d’arte ero­ti­che sono anche sacre». Il clas­sico bino­mio di eros e tha­na­tos si arric­chi­sce di ieron, un ele­mento di sacra­lità, per­ché Schiele ha la capa­cità di ren­dere meta­fi­si­che le sue pose, come se nel gesto fosse rac­chiuso, una volta per sem­pre, il senso, asso­luto, impe­ne­tra­bile, indi­ci­bile, eppure lì, di fronte a noi, in presa diretta e a por­tata di mano. Hanno fame, quei corpi, per­ché sono ema­ciati, sno­dati o addi­rit­tura pro­sciu­gati, ma soprat­tutto affa­mano, per­ché costrin­gono a inter­ro­garsi sui mec­ca­ni­smi del pro­prio desi­de­rio erotico. 
George Bataille era ancora a venire, con la sua idea che la nudità sia «uno stato di comu­ni­ca­zione» alla ricerca di un incon­tro pos­si­bile al di là del ripie­ga­mento del sog­getto su di sé, ma l’ipotesi che il nudo con­tenga insieme desi­de­rio e cru­deltà, attra­zione fatale e ferita mor­tale, era già tutta in potenza nei nudi di Schiele: lo scan­dalo dell’oscenità, insi­steva Bataille, era dato dall’apertura dei corpi alla con­ti­nuità, distur­bando lo stato della «pos­ses­sione di sé», dell’«individualità dure­vole e affer­mata», a favore, appunto, di un’occasione d’incontro, con­tatto e scam­bio. E negli stessi anni e nella stessa Vienna in cui Schiele dise­gnava i suoi nudi Freud e Sch­ni­tz­ler met­te­vano in guar­dia dal rove­scio bifronte, dall’attacco che i pro­cessi pri­mari, l’amore e la morte, ci pos­sono por­tare attra­verso la meta­mor­fosi dell’uno nell’altro: il nudo non è mai sem­plice e diretto, per­ché nella sua espo­si­zione esi­bi­sce la pro­pria vul­ne­ra­bi­lità, ma eser­cita anche un indi­scusso potere. 
Figura di con­fine, ambi­gua e con­trad­dit­to­ria, che impone sem­pre il pas­sag­gio dal nudo alla nudità, dalla fisi­cità che esplode alla forma che costringe, dal desi­de­rio susci­tato alla vio­lenza subita: pas­sag­gio imper­cet­ti­bile, e non­di­meno stra­ziante, spie­gava Geor­ges Didi-Huberman qual­che anno fa nel sag­gio Aprire Venere, in cui l’essere toc­cati e con­tur­bati dai tratti dei corpi rap­pre­sen­tati, subire l’attrazione e la sedu­zione delle imma­gini, diviene essere col­piti e feriti, ovvero essere aperti dal nega­tivo che appar­tiene a quelle stesse imma­gini. Allora nudità viene a coin­ci­dere con desi­de­rio, ma anche e soprat­tutto con cru­deltà. Didi-Huberman dimo­strava come fosse pro­prio la per­fe­zione clas­sica (col suo cam­pione nella Venere del Bot­ti­celli) a con­te­nere l’ineludibile carica di vio­lenza che ogni per­fe­zione porta con sé nella forma della rie­mer­sione del represso. Il corpo apre una ferita: su se stesso, per­ché si esi­bi­sce, si espone, si dà, ma anche sullo spet­ta­tore, che non può più igno­rarlo, né sfug­gir­gli. È vio­la­bile, ma insieme vio­lenta. Si aprono, del resto, i nudi di Schiele, non solo nell’ovvia e per­sino banale prof­ferta vagi­nale, ma soprat­tutto dove la ferita taglia e sco­pre, come quando le ver­te­bre si rita­gliano delle nic­chie su una schiena distesa e nodosa. 
Sono solo otto anni quelli che la mostra esplora, dal 1910, quando Schiele, su pres­sione di Klimt, lasciò l’Accademia, al 1918, quando morì, tra­volto dalla Grande Influenza, all’età di 28 anni, ma la pro­fon­dità di un’esperienza este­tica si dispiega tutta in que­ste due stanze, dove il corpo ricon­qui­sta la sua anima, straor­di­na­ria espe­rienza di con­tatto con ciò che non si vede ma forse, molto pro­ba­bil­mente, fidu­cio­sa­mente, c’è.

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