domenica 23 novembre 2014

La riproduzione del volto umano nella storia dell'arte

Facce. Una storia del voltoHans Belting: Facce. Una storia del volto, Carocci 

Risvolto
Dalle maschere teatrali alla mimica degli attori, dal ritratto europeo alla fotografia, dal cinema all'arte contemporanea, Hans Belting ripercorre in questo volume i diversi tentativi di fissare la vita del volto e del sé. Affascinante indagine sui vari modi in cui gli uomini hanno raffigurato sé stessi nel corso della storia, "Facce" offre innumerevoli spunti di riflessione che mettono in crisi le nostre idee più consolidate.

Hans Belting: volto, se ci sei batti un colpo 

Dalle funzioni antropologiche della maschera alla concezione moderna del ritratto: "Facce", uno studio di argomento un po' spettrale dello storico dell'arte Hans Belting, per Carocci 
di Pierpaolo Ascari, il Manifesto 23.11.2014
Per quanto non ne desse l’impressione, le ricer­che della natu­ra­lezza e della vero­si­mi­glianza con­sen­ti­rono a Carlo Gol­doni di rea­liz­zare una vera e pro­pria genea­lo­gia della morale bor­ghese, pro­ba­bil­mente incon­sa­pe­vole ma effet­tiva. Per­ché fu pro­prio ricon­se­gnando alla let­te­ra­tura il posto che le spet­tava, dirà più o meno De Sanc­tis, che le sue com­me­die pote­rono espri­mere un’intelligenza poli­tica a lui stesso ignota. Per Gol­doni, in fondo, si era sem­pli­ce­mente trat­tato di cogliere al volo l’occasione che gli veniva offerta da un attore di nome Fran­ce­sco Goli­netti per man­dare in con­gedo la vec­chia com­me­dia dell’arte. E fu pro­prio a que­sto signore, infatti, che nel 1738 affidò la prima parte inte­ra­mente scritta di una com­me­dia, rica­vando dallo stu­dio del volto dell’attore un Pan­ta­lone final­mente diverso da quello che per circa due secoli aveva cal­cato la scena.

Die­tro la maschera del mer­cante libi­di­noso e privo di scru­poli, sul volto di Goli­netti era dun­que apparso il carat­tere del buon bor­ghese che «è gene­roso senza pro­di­ga­lità, alle­gro senza essere sciocco, ama le donne senza com­pro­met­tersi, ama i pia­ceri senza rovi­narsi, si intro­mette in tutto ma a fin di bene» e desi­dera fon­da­men­tal­mente una cosa: star­sene in pace. A par­tire da L’uomo di mondo, que­sto Pan­ta­lone rifor­mato avrebbe dovuto affron­tare a viso sco­perto le avven­ture sem­pre meno gra­ti­fi­canti del Padre di fami­glia, del Vero amico e dei Pun­ti­gli dome­stici, por­tando a matu­ra­zione il per­so­nag­gio che si nascon­deva sotto la maschera tra­di­zio­nale e cedendo infine il testi­mone alla pro­ta­go­ni­sta ecce­zio­nal­mente sve­glia della Locan­diera.
In que­sto modo, men­tre a Parigi veni­vano con­dan­nati i primi due tomi dell’Enci­clo­pé­die, nella rap­pre­sen­ta­zione tea­trale che la bor­ghe­sia vene­ziana pro­muo­veva di se stessa inter­venne una prima, signi­fi­ca­tiva meta­mor­fosi. Da quel momento in avanti la maschera sarebbe stata indos­sata solo nei giorni che pre­ce­dono la Qua­re­sima e al riscatto morale del cor­te­san sareb­bero suben­trati i meriti dell’astuzia e della simu­la­zione. Per il per­so­nag­gio di Pan­ta­lone, intanto, si era veri­fi­cata una spe­cie di ritorno alle ori­gini, per­ché alla resa dei conti non aveva dovuto fare altro che ram­men­dare gli abiti del vec­chio insi­dioso per con­se­gnarli a Miran­do­lina, la ragazza intri­gante che «sem­bra rispet­ta­bile». Dopo tanto chiasso, nel vero carat­tere che affio­rava sul volto di Fran­ce­sco Goli­netti si stava annun­ciando la stessa maschera che di lì a poco avreb­bero comin­ciato a indos­sare l’attore di Dide­rot e il sedut­tore di Søren Kier­ke­gaard, coloro che non cre­dono a una sola parola di quello che dicono, nep­pure con lo sguardo.
Se il tea­tro ha potuto intra­pren­dere que­sta esplo­ra­zione del volto è solo per­ché la cul­tura euro­pea aveva già prov­ve­duto a tra­sfe­rire le fun­zioni antro­po­lo­gi­che della maschera nella con­ce­zione moderna del ritratto, come sem­bra soste­nere lo sto­rico dell’arte medie­vale Hans Bel­ting nel suo ultimo e splen­dido libro Facce Una sto­ria del volto (Carocci, tra­di­zione di Bal­dacci e Conte, pp. 375, euro 37,00). Un libro che non dis­si­mula la con­si­stenza spet­trale del pro­prio oggetto, dal momento che il volto rimane pur sem­pre un dato di «natura all’interno di una prassi» e non potrà per­tanto che appa­rire «nella sua peri­fe­ria sociale e cul­tu­rale», dall’età della pie­tra ai giorni nostri. Ed è in que­sta peri­fe­ria, allora, che il ritratto si sarebbe comin­ciato a dif­fe­ren­ziare dai rilievi, le icone e le vere imma­gini del culto reli­gioso nel giorno stesso in cui la bor­ghe­sia mer­can­tile avvertì l’urgenza di riven­di­care un ruolo pub­blico, asse­gnando alla tela il dif­fi­cile com­pito di cele­brare una forma di vita ancora sprov­vi­sta di sim­boli.
Con Anto­nello da Mes­sina, così, l’originalità psi­co­lo­gica della classe emer­gente debuttò innan­zi­tutto sui volti della tra­di­zione (Cri­sto, la Ver­gine o San Giro­lamo) per poi deter­mi­nare le smor­fie molto più con­tem­po­ra­nee di uomini, gio­vani o mari­nai che non ebbero più biso­gno nem­meno di un nome. Ai meda­glioni dell’identità dina­stica, dove il ritratto con­ti­nuava a sod­di­sfare una voca­zione gre­ga­ria, suc­ces­sero quindi le pecu­lia­rità di un sog­getto che orienta lo sguardo sullo spet­ta­tore, mobi­li­tando la mimica fac­ciale in una lotta per il rico­no­sci­mento.
Eppure, trat­tan­dosi pur sem­pre del rife­ri­mento a una realtà viva e in con­ti­nua tra­sfor­ma­zione, sui volti della pit­tura non poté che andare in scena il con­ge­la­mento della stessa vita inte­riore che si can­di­da­vano a sim­bo­leg­giare, ren­dendo il lavoro del ritrat­ti­sta tre­men­da­mente com­plesso. Nell’impossibilità di sepa­rare il volto da una sua pre­sta­zione – che Bel­ting chiama «atto lin­gui­stico», entrando impli­ci­ta­mente in pole­mica con Sve­tlana Alpers e l’idea che possa esi­stere una fun­zione descrit­tiva del ritratto indi­pen­dente dalla sua orga­niz­za­zione reto­rica – la ricerca dell’autenticità o della fac­cia auto­noma da qual­siasi con­tin­genza si sarebbe potuta con­clu­dere con l’Auto­ri­tratto come testa di Golia che Cara­vag­gio ese­guì intorno al 1607, dove la piena espres­sione dell’interiorità si irri­gi­di­sce in una maschera fune­ra­ria. Ma se quella del volto dipinto rimane ine­vi­ta­bil­mente una simu­la­zione, rap­presa in una forma sta­tica che può solo citare il ricordo o le ten­sioni della vita, la maschera si dovrà rite­nere vitale, come l’unica mem­brana che separa lo sguardo dell’altro da un povero teschio, dalle future ambi­zioni veri­ta­tive della fisio­gno­mica o dagli oro­scopi della fre­no­lo­gia.
Più che a un risul­tato finale, quindi, il para­dosso di Cara­vag­gio farebbe pen­sare a un punto di par­tenza per la rap­pre­sen­ta­zione del volto nell’epoca della sua ripro­du­ci­bi­lità tec­nica, con l’avvento della foto­gra­fia e del video, quando il per­fe­zio­na­mento o l’animazione della maschera non avreb­bero con­sen­tito di libe­rarla dal sospetto di mani­po­lare, tra­dire o ren­dere comun­que ingan­ne­vole il rap­porto tra le imma­gini e la vita.
Prima di paro­diare la sua stessa illu­sione di pre­senza, infatti, la foto­gra­fia degli esordi con­ferì alle imma­gini uno sta­tuto ana­logo a quello della reli­quia, che non si limita a com­me­mo­rare qual­cuno ma lo trat­tiene, come il calore nel ferro bat­tutto. I volti ci sono e bat­tono un colpo, come nel corso di una seduta spi­ri­tica e come sarebbe dovuto acca­dere nella spas­so­sis­sima let­tera che Nadar rice­vette nel 1856 da parte di un certo Gaze­bon, il quale gli chie­deva di venire «dagher­ro­ti­pato» a colori e seduto ai tavoli di una grande sala da biliardo ma in con­tu­ma­cia, senza recarsi fisi­ca­mente in rue Saint-Lazar. Così, quando Jean Coc­teau posò per Man Ray con la cor­nice del suo stesso ritratto in mano, non solo la foto­gra­fia smise di regi­strare la pre­senza atmo­sfe­rica di un volto indi­pen­dente da qual­siasi nar­ra­zione, ma il gioco delle maschere risultò final­mente sfac­ciato, privo di ogni ros­sore onto­lo­gico e morale, pro­prio come le mac­chi­na­zioni della locan­diera.
Nel ten­ta­tivo di testi­mo­niare una mag­giore ade­sione alla vita delle teste deca­pi­tate, a que­sto punto, i volti avreb­bero comin­ciato ad adot­tare una stra­te­gia coe­rente all’intuizione di Cara­vag­gio, defi­nen­dosi per nega­zione, come il fan­ta­sma che rende comun­que com­pul­siva e seriale (Andy Warhol), dram­ma­tica (Ing­mar Berg­man), detur­pa­bile (Arnulf Rai­ner) o iro­nica (Nam June Paik) la per­si­stenza della maschera. Non più repor­tage ma anti­frasi della vera pre­senza, per espri­mere «l’essere mute­vole che siamo» la maschera si tro­vava ora a dover con­ti­nuare a spri­gio­nare un’eccedenza irri­du­ci­bile a qual­siasi «intrigo» deter­mi­nato, come scrisse Michel Lei­ris a pro­po­sito di Fran­cis Bacon. Lo avrebbe dovuto fare in pit­tura, senz’altro, ma forse non sarebbe stato super­fluo che avesse comin­ciato a farlo anche per strada, dove tut­tora la fac­cia si mette negli aggior­na­menti di stato o nelle per­for­mance bene­fi­che, non si perde quasi mai ed è entrata sta­bil­mente al ser­vi­zio dell’economia digi­tale. A par­tire dalla con­sa­pe­vo­lezza che quando sui volti non va in scena un’esplorazione, ma un colpo di tea­tro, attra­verso il cam­pio­na­rio delle pose e degli ammic­ca­menti la società dello spet­ta­colo sta ancora esi­bendo alla folla il rive­sti­mento musco­lare di una testa moz­zata, la nostra.

La storia del mondo attraverso le sue facce 
Dalle maschere del teatro alle anime di Dante; dai ritratti dell’arte alla letteratura Il volto è da sempre la parte per il tutto dell’umanità. Lo spiega il saggio di Hans BeltingALBERTO MANGUEL Repubblica 13 12 2014
«CHE cos’è? », chiede Hans Belting in Facce, la sua ammirevole indagine del volto umano. E risponde, con una chiarezza essenziale: «È il volto di ciascuno, ma è anche un volto tra altri volti, un volto che diventa tale solamente quando entra in contatto con altri volti». Nella sua lunga storia, la faccia acquisisce una molteplicità di significati psicologici e connotazioni simboliche che Belting indaga metodicamente, accompagnandoci dai primi rudimentali tratteggiamenti del viso ai sofisticati ritratti di epoche più recenti. Eppure, dopo le oltre trecento pagine di questo erudito saggio, la domanda rimane aperta: che cos’è una faccia? Non lontano dalla cima del Monte Purgatorio, seguendo Virgilio e Stazio, Dante raggiunge la Cornice dei Golosi, dove l’eccesso d’amore per le cose di questo mondo dev’essere espiato attraverso un’irrimediabile inedia.
Mentre i due poeti antichi parlano della loro arte, Dante, ormai mondato del peccato di orgoglio che lo aveva indotto ad accettare l’invito di Omero nel Nobile Castello, cammina mestamente dietro i suoi maestri.
I tre poeti sono accolti da una ressa di spiriti pallidi e silenziosi, con la pelle attaccata alle ossa, con gli occhi scuri e scavati come anelli senza gemme. Forse sono i discorsi di Virgilio e Stazio sulla poesia che fanno venire in mente a Dante che le cose sono metafore di se stesse, che nello sforzo di tradurre l’esperienza della realtà in linguaggio a volte vediamo le cose come le parole che le definiscono, e le fattezze delle cose come la loro scrittura incarnata. «Chi nel viso de li uomini legge “omo”», osserva Dante, «ben avria quivi conosciuta l’emme ». Pietro Alighieri, il figlio di Dante, nel suo commento alla Divina commedia sottolineava che l’immagine del volto che proclama letteralmente di essere un volto era ben nota all’epoca di Dante. Nella scrittura gotica, le O sono come occhi umani, mentre la M raffigura le sopracciglia e il naso. Tutto questo ben si accorda con la tradizione della Genesi in base alla quale tutte le creature portano il nome inscritto nel loro aspetto, e questo consente ad Adamo di identificarle correttamente quando Dio, subito dopo averle create, gli ordina di dar loro un nome.
La faccia è la nostra identità pubblica: dice al mondo chi siamo. La maschera, la faccia che imita una faccia, era chiamata in greco antico “persona”, come se per affermare la presenza di un individuo la sola cosa necessaria fossero le sue fattezze. Una presenza o un’assenza. I ritratti sui sarcofagi romani di Fayyum, le miniature che le vedove nel Rinascimento portavano al collo in segno di lutto, le fotografie color seppia dei cari trapassati sulle lapidi di marmo in Sicilia, attestano tutti la persistenza di questi ricordi del morto, ancora riconoscibile dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Forse proprio perché il concetto del volto come identità appartiene a un immaginario universale gli iconoclasti di Bisanzio, i rivoluzionari durante il Terrore, le masse protestanti di Cromwell, hanno tutti diretto la loro furia annichilatrice contro le fattezze dei santi, venerati per superstizione, e dei nemici aristocratici, attraverso un gesto metonimico che cancellava la persona cancellandone il volto.
Questa intuizione forse ha una giustificazione fisiologica, che ci insegna che «Io sono» comincia con «Io non sono». Nei primi mesi della nostra vita, quando il mondo comincia a prendere forma in un sistema ordinato di segni dotati di un significato, salviamo dal guazzabuglio di immagini che si affastellano su di noi l’immagine di un viso. Il primo senso di identità del bambino piccolo (un’esperienza che gli esseri umani hanno in comune soltanto con elefanti, scimmie e delfini) viene dal vedersi in uno specchio e scoprire che questa faccia non è quella di chiunque altro. «Io non sono la faccia che sta sopra il seno che mi dà il latte», impara il bambino, «non sono la faccia che mi guarda preoccupata quando piango, non sono la faccia che ride con me quando sorrido. Sono un’altra faccia, una faccia tutta mia». Tutte le facce, reali o immaginarie, seguono questo processo. Il dottor Frankenstein conclude la costruzione del mostro solo dopo avergli dato una faccia adeguata all’eccezionalità della sua creatura. È questa faccia che Boris Karloff ha reso immortale nei film di James Whale, grazie all’abilità del truccatore Jack Pearce. Pearce si attenne rigorosamente alla descrizione di Mary Shelley: lì dove, secondo il romanzo, il dottore aveva inserito un cervello nella cavità del teschio preso da un morto, Pearce tracciò una lunga cicatrice spaventosa; e diede alla pelle quel pallore cadaverico raccontato dalla Shelley usando – visto che si trattava di un film in bianco e nero – la vernice verde. Per segnalare la sorgente elettrica che aveva portato in vita il mostro, Pearce inserì due bulloni sui lati del collo della creatura, che fungevano da orribili elettrodi. Questa faccia mostruosa, piena implicitamente dei frammenti delle moltitudini smembrate da cui il dottore aveva preso le varie componenti, era quasi troppo grande per essere vera: come la faccia nell’ Uomo che fu giovedì di Chesterton, fa venire il timore che se dovessimo avvicinarci troppo «la faccia sarebbe troppo grande per essere possibile». La faccia enorme del Mostro è il contrario della faccia svuotata di Greta Garbo, che fissa il mare intorno a lei ne La regina Cristina.
Il regista Rouben Mamoulian aveva detto alla Garbo che voleva che in quella scena «si svuotasse di ogni emozione, non pensasse a nulla». Gli spettatori riempiono quel volto classico, sgombrato di qualsiasi cosa, con i loro desideri e le loro paure.
In definitiva, noi cerchiamo conferma dell’esistenza nel volto visto, intuito o immaginato, come il pellegrino croato nel Paradiso , che dopo aver visto il velo della Veronica esclama: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace/ or fu sì fatta la sembianza vostra? ».
Ogni mattina nello specchio riceviamo una rassicurazione simile. Se crediamo o meno nella sua modesta supposizione dipende dalle nostre aspettative , dalla nostra memoria, dalla nostra capacità di rassegnarci all’evidenza delle cose viste. ( Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA
La morale della pittura: il mio volto dipinto sono io Mercoledì 11 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Lo studio della faccia e del capo, questi arti privilegiati della nostra persona, e così pure quello della maschera, sia nel caso di quella dell’umanità primitiva, che della maschera mortuaria come identità del volto ormai spento, sono stati sempre alla base delle figurazioni improvvisate o perfezionate da parte dell’uomo, che ha cercato in questo modo di preservare quella struttura che la morte avrebbe cancellato.
Ma il ritratto non è solo un elemento più o meno frequente nella storia dell’arte tanto dell’antichità che del presente, è soprattutto la figurazione che viene a trasformarsi in simbolo e in icona della persona umana nella quale il capo si è identificato; ed è proprio di questo studio del ritratto, sia del volto che della faccia, che tratta un testo molto raffinato e approfondito di Hans Belting Facce. Una storia del volto (traduzione di Jean-Pierre Baldacci e Luca Conte, Carocci, pagine 375, e 37).
Lo studio del ritratto, non solo come opera d’arte, ma come esempio di una interpretazione che di solito non è stata sufficientemente esplorata, viene considerata in questo saggio come rappresentativa, non solo della lunga storia dell’arte figurativa, ma come esempio del rapporto tra arte, fisionomia e antropologia a seconda delle epoche in cui il ritratto appare. Occorre, quindi, tener conto dell’indubbio valore delle distinzioni nell’uso del ritratto, già a partire da quelle attuate dalle popolazioni barbariche come le civiltà aurignaziane, su su fino a giungere alle diverse interpretazioni che ne hanno dato la psicologia, l’antropologia e alcuni studi specialistici some quello ad esempio del grande Johann Kaspar Lavater, il grande antropologo amico di Goethe, che ha dedicato buona parte dei suoi studi al rapporto tra il capo dell’uomo e l’entità della sua intelligenza e coscienza. Che poi il ritratto sia stato ancora prima di un’opera d’arte, una maniera dell’umanità primitiva per fissare il volto dell’amico (o del nemico), costituisce la ragione prima, dell’importanza che questa forma d’arte ha avuto lungo tutto il percorso della civiltà. Non c’è dubbio che ancora prima del ritratto, la maschera, e tanto più la maschera mortuaria, hanno costituito per lunghi periodi uno dei mezzi più efficaci per conservare e trasmettere il ricordo di un volto. Non solo le maschere utilizzate da popolazioni barbariche, ma tutti i ritratti delle varie epoche hanno avuto soprattutto il compito e il merito di tramandare ai posteri, oltre che agli amici e ai compagni, il ricordo dell’individuo scomparso, che nell’immagine della sua faccia e del suo volto prolungava in un certo senso la sua esistenza, anche per chi non lo aveva conosciuto vivente, raddoppiandone l’immagine del volto e della faccia.
Eseguire il ritratto di qualcuno non consiste solo nella riproduzione fedele e abile dei suoi tratti, ma significa anche impadronirsi della personalità ritratta, divenirne «proprietari» e rendere pubblica l’interpretazione di un volto segreto nello stesso modo in cui quell’individuo, ancora ignoto, acquista una identità che viene condivisa dai diversi spettatori. Non solo da un punto di vista anatomo-fisiologico, ma già dalla semplice osservazione è facile intuire che l’influsso del volto e della faccia costituiscono la centrale del pensiero e del sentimento umano e quello delle azioni volontarie di ogni individuo.
Anche per quello che riguarda l’espressione del volto come trasmettitrice del pensiero e della volontà dell’individuo, credo che la faccia stia a costituire un vero e proprio fanale del nostro pensiero più occulto; e del resto anche nei volti degli animali domestici più vicino all’uomo è facile realizzare come le loro «facce», che di solito non vengono definite con questo nome, denotino quello che è l’intima emozione e l’intima volontà di questi animali attraverso l’espressività delle loro «facce». Mi si conceda di usare questo termine che di solito non si addice agli animali. Che poi il nostro volto sia il faro del nostro pensiero e della nostra personalità è da sempre un fatto ben noto; basta riflettere alle facce delle opere d’arte lungo i secoli.
Non dimentichiamo tuttavia che il ritratto molto spesso aggiunge alle espressioni evidenti, delle caratteristiche positive o negative che non sono sempre presenti nelle persone ritratte: espressioni del volto, acutezza dello sguardo, piega ironica delle labbra e via dicendo. In questo modo un ritratto, pur assomigliando al suo modello, presenta, per quanto riguarda la sua effettiva conformazione, delle espressività che non appartengono più all’individuo ritratto, ma sono state attribuite allo stesso per volontà o per superficialità del ritrattante — e questo vale non solo per l’antica o recente opera pittorica, ma è facilmente riscontrabile in tutte le figurazioni dei nostri giorni, grazie ai mezzi fotografici, cibernetici. Certamente per molti ritratti dell’antichità e anche di persone a noi vicine, la fiducia nella sincerità del ritratto dovrebbe essere sbugiardata e controllata. E del resto che le peculiarità del nostro cervello e quindi dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, dovessero in qualche maniera proiettarsi all’esterno, è sin troppo evidente.
Attraverso la faccia è ovvio che i sentimenti riescono ad essere proiettati all’esterno e a farne partecipe ogni persona. Lo studio compiuto da Belting, oltretutto, non si arresta ad un’elencazione delle più celebri opere d’arte che del volto umano hanno fatto la loro meta, ma vale come supporto fisio-psicologico del personaggio ritratto; il testo infatti si complica tenendo conto di alcune fondamentali premesse, come quelle dovute agli studi di Gall e di Lavater, tra i primi a rendersi conto dell’interdipendenza tra forma del cranio, della calotta cranica e pensiero umano. È proprio in base a questi studi che constatiamo di rimanere affascinati ogni volta che fissiamo lo sguardo ad un nostro interlocutore o quando ci capita di osservarci nello specchio (quando ne siamo attratti senza la nostra consapevolezza), il che permette di chiederci fino a che punto i tratti del nostro volto e di quello dei diversi ritrattati, corrispondano ai nostri sentimenti e alle nostre espressività. Effettivamente, i tratti del nostro volto possono comunicare senza che ne siamo consapevoli un atteggiamento che alla nostra coscienza sembrerebbe ambiguo.
Da quanto abbiamo detto risulta che molto spesso — nonostante la nostra buona volontà — non possiamo fidarci fino in fondo né della nostra né dell’altrui espressività del volto.  

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