
Hans Belting:
Facce. Una storia del volto, Carocci
Risvolto
Dalle maschere teatrali alla mimica degli
attori, dal ritratto europeo alla fotografia, dal cinema all'arte
contemporanea, Hans Belting ripercorre in questo volume i diversi
tentativi di fissare la vita del volto e del sé. Affascinante indagine
sui vari modi in cui gli uomini hanno raffigurato sé stessi nel corso
della storia, "Facce" offre innumerevoli spunti di riflessione che
mettono in crisi le nostre idee più consolidate.
Hans Belting: volto, se ci sei batti un colpo
Dalle funzioni antropologiche della maschera alla concezione moderna del ritratto: "Facce", uno studio di argomento un po' spettrale dello storico dell'arte Hans Belting, per Carocci
di Pierpaolo Ascari, il Manifesto 23.11.2014
Per quanto non ne desse l’impressione, le ricerche della naturalezza e della verosimiglianza consentirono a Carlo Goldoni di realizzare una vera e propria genealogia della morale borghese, probabilmente inconsapevole ma effettiva. Perché fu proprio riconsegnando alla letteratura il posto che le spettava, dirà più o meno De Sanctis, che le sue commedie poterono esprimere un’intelligenza politica a lui stesso ignota. Per Goldoni, in fondo, si era semplicemente trattato di cogliere al volo l’occasione che gli veniva offerta da un attore di nome Francesco Golinetti per mandare in congedo la vecchia commedia dell’arte. E fu proprio a questo signore, infatti, che nel 1738 affidò la prima parte interamente scritta di una commedia, ricavando dallo studio del volto dell’attore un Pantalone finalmente diverso da quello che per circa due secoli aveva calcato la scena.
Dietro la maschera del mercante libidinoso e privo di scrupoli, sul volto di Golinetti era dunque apparso il carattere del buon borghese che «è generoso senza prodigalità, allegro senza essere sciocco, ama le donne senza compromettersi, ama i piaceri senza rovinarsi, si intromette in tutto ma a fin di bene» e desidera fondamentalmente una cosa: starsene in pace. A partire da L’uomo di mondo, questo Pantalone riformato avrebbe dovuto affrontare a viso scoperto le avventure sempre meno gratificanti del Padre di famiglia, del Vero amico e dei Puntigli domestici, portando a maturazione il personaggio che si nascondeva sotto la maschera tradizionale e cedendo infine il testimone alla protagonista eccezionalmente sveglia della Locandiera.
In questo modo, mentre a Parigi venivano condannati i primi due tomi dell’Enciclopédie, nella rappresentazione teatrale che la borghesia veneziana promuoveva di se stessa intervenne una prima, significativa metamorfosi. Da quel momento in avanti la maschera sarebbe stata indossata solo nei giorni che precedono la Quaresima e al riscatto morale del cortesan sarebbero subentrati i meriti dell’astuzia e della simulazione. Per il personaggio di Pantalone, intanto, si era verificata una specie di ritorno alle origini, perché alla resa dei conti non aveva dovuto fare altro che rammendare gli abiti del vecchio insidioso per consegnarli a Mirandolina, la ragazza intrigante che «sembra rispettabile». Dopo tanto chiasso, nel vero carattere che affiorava sul volto di Francesco Golinetti si stava annunciando la stessa maschera che di lì a poco avrebbero cominciato a indossare l’attore di Diderot e il seduttore di Søren Kierkegaard, coloro che non credono a una sola parola di quello che dicono, neppure con lo sguardo.
Se il teatro ha potuto intraprendere questa esplorazione del volto è solo perché la cultura europea aveva già provveduto a trasferire le funzioni antropologiche della maschera nella concezione moderna del ritratto, come sembra sostenere lo storico dell’arte medievale Hans Belting nel suo ultimo e splendido libro Facce Una storia del volto (Carocci, tradizione di Baldacci e Conte, pp. 375, euro 37,00). Un libro che non dissimula la consistenza spettrale del proprio oggetto, dal momento che il volto rimane pur sempre un dato di «natura all’interno di una prassi» e non potrà pertanto che apparire «nella sua periferia sociale e culturale», dall’età della pietra ai giorni nostri. Ed è in questa periferia, allora, che il ritratto si sarebbe cominciato a differenziare dai rilievi, le icone e le vere immagini del culto religioso nel giorno stesso in cui la borghesia mercantile avvertì l’urgenza di rivendicare un ruolo pubblico, assegnando alla tela il difficile compito di celebrare una forma di vita ancora sprovvista di simboli.
Con Antonello da Messina, così, l’originalità psicologica della classe emergente debuttò innanzitutto sui volti della tradizione (Cristo, la Vergine o San Girolamo) per poi determinare le smorfie molto più contemporanee di uomini, giovani o marinai che non ebbero più bisogno nemmeno di un nome. Ai medaglioni dell’identità dinastica, dove il ritratto continuava a soddisfare una vocazione gregaria, successero quindi le peculiarità di un soggetto che orienta lo sguardo sullo spettatore, mobilitando la mimica facciale in una lotta per il riconoscimento.
Eppure, trattandosi pur sempre del riferimento a una realtà viva e in continua trasformazione, sui volti della pittura non poté che andare in scena il congelamento della stessa vita interiore che si candidavano a simboleggiare, rendendo il lavoro del ritrattista tremendamente complesso. Nell’impossibilità di separare il volto da una sua prestazione – che Belting chiama «atto linguistico», entrando implicitamente in polemica con Svetlana Alpers e l’idea che possa esistere una funzione descrittiva del ritratto indipendente dalla sua organizzazione retorica – la ricerca dell’autenticità o della faccia autonoma da qualsiasi contingenza si sarebbe potuta concludere con l’Autoritratto come testa di Golia che Caravaggio eseguì intorno al 1607, dove la piena espressione dell’interiorità si irrigidisce in una maschera funeraria. Ma se quella del volto dipinto rimane inevitabilmente una simulazione, rappresa in una forma statica che può solo citare il ricordo o le tensioni della vita, la maschera si dovrà ritenere vitale, come l’unica membrana che separa lo sguardo dell’altro da un povero teschio, dalle future ambizioni veritative della fisiognomica o dagli oroscopi della frenologia.
Più che a un risultato finale, quindi, il paradosso di Caravaggio farebbe pensare a un punto di partenza per la rappresentazione del volto nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, con l’avvento della fotografia e del video, quando il perfezionamento o l’animazione della maschera non avrebbero consentito di liberarla dal sospetto di manipolare, tradire o rendere comunque ingannevole il rapporto tra le immagini e la vita.
Prima di parodiare la sua stessa illusione di presenza, infatti, la fotografia degli esordi conferì alle immagini uno statuto analogo a quello della reliquia, che non si limita a commemorare qualcuno ma lo trattiene, come il calore nel ferro battutto. I volti ci sono e battono un colpo, come nel corso di una seduta spiritica e come sarebbe dovuto accadere nella spassosissima lettera che Nadar ricevette nel 1856 da parte di un certo Gazebon, il quale gli chiedeva di venire «dagherrotipato» a colori e seduto ai tavoli di una grande sala da biliardo ma in contumacia, senza recarsi fisicamente in rue Saint-Lazar. Così, quando Jean Cocteau posò per Man Ray con la cornice del suo stesso ritratto in mano, non solo la fotografia smise di registrare la presenza atmosferica di un volto indipendente da qualsiasi narrazione, ma il gioco delle maschere risultò finalmente sfacciato, privo di ogni rossore ontologico e morale, proprio come le macchinazioni della locandiera.
Nel tentativo di testimoniare una maggiore adesione alla vita delle teste decapitate, a questo punto, i volti avrebbero cominciato ad adottare una strategia coerente all’intuizione di Caravaggio, definendosi per negazione, come il fantasma che rende comunque compulsiva e seriale (Andy Warhol), drammatica (Ingmar Bergman), deturpabile (Arnulf Rainer) o ironica (Nam June Paik) la persistenza della maschera. Non più reportage ma antifrasi della vera presenza, per esprimere «l’essere mutevole che siamo» la maschera si trovava ora a dover continuare a sprigionare un’eccedenza irriducibile a qualsiasi «intrigo» determinato, come scrisse Michel Leiris a proposito di Francis Bacon. Lo avrebbe dovuto fare in pittura, senz’altro, ma forse non sarebbe stato superfluo che avesse cominciato a farlo anche per strada, dove tuttora la faccia si mette negli aggiornamenti di stato o nelle performance benefiche, non si perde quasi mai ed è entrata stabilmente al servizio dell’economia digitale. A partire dalla consapevolezza che quando sui volti non va in scena un’esplorazione, ma un colpo di teatro, attraverso il campionario delle pose e degli ammiccamenti la società dello spettacolo sta ancora esibendo alla folla il rivestimento muscolare di una testa mozzata, la nostra.
La storia del mondo attraverso le sue facce
Dalle maschere del teatro alle anime di Dante; dai ritratti dell’arte alla letteratura Il volto è da sempre la parte per il tutto dell’umanità. Lo spiega il saggio di Hans BeltingALBERTO MANGUEL Repubblica 13 12 2014
«CHE cos’è? », chiede Hans Belting in Facce, la sua ammirevole indagine del volto umano. E risponde, con una chiarezza essenziale: «È il volto di ciascuno, ma è anche un volto tra altri volti, un volto che diventa tale solamente quando entra in contatto con altri volti». Nella sua lunga storia, la faccia acquisisce una molteplicità di significati psicologici e connotazioni simboliche che Belting indaga metodicamente, accompagnandoci dai primi rudimentali tratteggiamenti del viso ai sofisticati ritratti di epoche più recenti. Eppure, dopo le oltre trecento pagine di questo erudito saggio, la domanda rimane aperta: che cos’è una faccia? Non lontano dalla cima del Monte Purgatorio, seguendo Virgilio e Stazio, Dante raggiunge la Cornice dei Golosi, dove l’eccesso d’amore per le cose di questo mondo dev’essere espiato attraverso un’irrimediabile inedia.
Mentre i due poeti antichi parlano della loro arte, Dante, ormai mondato del peccato di orgoglio che lo aveva indotto ad accettare l’invito di Omero nel Nobile Castello, cammina mestamente dietro i suoi maestri.
I tre poeti sono accolti da una ressa di spiriti pallidi e silenziosi, con la pelle attaccata alle ossa, con gli occhi scuri e scavati come anelli senza gemme. Forse sono i discorsi di Virgilio e Stazio sulla poesia che fanno venire in mente a Dante che le cose sono metafore di se stesse, che nello sforzo di tradurre l’esperienza della realtà in linguaggio a volte vediamo le cose come le parole che le definiscono, e le fattezze delle cose come la loro scrittura incarnata. «Chi nel viso de li uomini legge “omo”», osserva Dante, «ben avria quivi conosciuta l’emme ». Pietro Alighieri, il figlio di Dante, nel suo commento alla Divina commedia sottolineava che l’immagine del volto che proclama letteralmente di essere un volto era ben nota all’epoca di Dante. Nella scrittura gotica, le O sono come occhi umani, mentre la M raffigura le sopracciglia e il naso. Tutto questo ben si accorda con la tradizione della Genesi in base alla quale tutte le creature portano il nome inscritto nel loro aspetto, e questo consente ad Adamo di identificarle correttamente quando Dio, subito dopo averle create, gli ordina di dar loro un nome.
La faccia è la nostra identità pubblica: dice al mondo chi siamo. La maschera, la faccia che imita una faccia, era chiamata in greco antico “persona”, come se per affermare la presenza di un individuo la sola cosa necessaria fossero le sue fattezze. Una presenza o un’assenza. I ritratti sui sarcofagi romani di Fayyum, le miniature che le vedove nel Rinascimento portavano al collo in segno di lutto, le fotografie color seppia dei cari trapassati sulle lapidi di marmo in Sicilia, attestano tutti la persistenza di questi ricordi del morto, ancora riconoscibile dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Forse proprio perché il concetto del volto come identità appartiene a un immaginario universale gli iconoclasti di Bisanzio, i rivoluzionari durante il Terrore, le masse protestanti di Cromwell, hanno tutti diretto la loro furia annichilatrice contro le fattezze dei santi, venerati per superstizione, e dei nemici aristocratici, attraverso un gesto metonimico che cancellava la persona cancellandone il volto.
Questa intuizione forse ha una giustificazione fisiologica, che ci insegna che «Io sono» comincia con «Io non sono». Nei primi mesi della nostra vita, quando il mondo comincia a prendere forma in un sistema ordinato di segni dotati di un significato, salviamo dal guazzabuglio di immagini che si affastellano su di noi l’immagine di un viso. Il primo senso di identità del bambino piccolo (un’esperienza che gli esseri umani hanno in comune soltanto con elefanti, scimmie e delfini) viene dal vedersi in uno specchio e scoprire che questa faccia non è quella di chiunque altro. «Io non sono la faccia che sta sopra il seno che mi dà il latte», impara il bambino, «non sono la faccia che mi guarda preoccupata quando piango, non sono la faccia che ride con me quando sorrido. Sono un’altra faccia, una faccia tutta mia». Tutte le facce, reali o immaginarie, seguono questo processo. Il dottor Frankenstein conclude la costruzione del mostro solo dopo avergli dato una faccia adeguata all’eccezionalità della sua creatura. È questa faccia che Boris Karloff ha reso immortale nei film di James Whale, grazie all’abilità del truccatore Jack Pearce. Pearce si attenne rigorosamente alla descrizione di Mary Shelley: lì dove, secondo il romanzo, il dottore aveva inserito un cervello nella cavità del teschio preso da un morto, Pearce tracciò una lunga cicatrice spaventosa; e diede alla pelle quel pallore cadaverico raccontato dalla Shelley usando – visto che si trattava di un film in bianco e nero – la vernice verde. Per segnalare la sorgente elettrica che aveva portato in vita il mostro, Pearce inserì due bulloni sui lati del collo della creatura, che fungevano da orribili elettrodi. Questa faccia mostruosa, piena implicitamente dei frammenti delle moltitudini smembrate da cui il dottore aveva preso le varie componenti, era quasi troppo grande per essere vera: come la faccia nell’ Uomo che fu giovedì di Chesterton, fa venire il timore che se dovessimo avvicinarci troppo «la faccia sarebbe troppo grande per essere possibile». La faccia enorme del Mostro è il contrario della faccia svuotata di Greta Garbo, che fissa il mare intorno a lei ne La regina Cristina.
Il regista Rouben Mamoulian aveva detto alla Garbo che voleva che in quella scena «si svuotasse di ogni emozione, non pensasse a nulla». Gli spettatori riempiono quel volto classico, sgombrato di qualsiasi cosa, con i loro desideri e le loro paure.
In definitiva, noi cerchiamo conferma dell’esistenza nel volto visto, intuito o immaginato, come il pellegrino croato nel Paradiso , che dopo aver visto il velo della Veronica esclama: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace/ or fu sì fatta la sembianza vostra? ».
Ogni mattina nello specchio riceviamo una rassicurazione simile. Se crediamo o meno nella sua modesta supposizione dipende dalle nostre aspettative , dalla nostra memoria, dalla nostra capacità di rassegnarci all’evidenza delle cose viste. ( Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA
La morale della pittura: il mio volto dipinto sono io Mercoledì 11 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Lo studio della faccia e del capo, questi arti privilegiati della nostra persona, e così pure quello della maschera, sia nel caso di quella dell’umanità primitiva, che della maschera mortuaria come identità del volto ormai spento, sono stati sempre alla base delle figurazioni improvvisate o perfezionate da parte dell’uomo, che ha cercato in questo modo di preservare quella struttura che la morte avrebbe cancellato.
Ma il ritratto non è solo un elemento più o meno frequente nella storia dell’arte tanto dell’antichità che del presente, è soprattutto la figurazione che viene a trasformarsi in simbolo e in icona della persona umana nella quale il capo si è identificato; ed è proprio di questo studio del ritratto, sia del volto che della faccia, che tratta un testo molto raffinato e approfondito di Hans Belting Facce. Una storia del volto (traduzione di Jean-Pierre Baldacci e Luca Conte, Carocci, pagine 375, e 37).
Lo studio del ritratto, non solo come opera d’arte, ma come esempio di una interpretazione che di solito non è stata sufficientemente esplorata, viene considerata in questo saggio come rappresentativa, non solo della lunga storia dell’arte figurativa, ma come esempio del rapporto tra arte, fisionomia e antropologia a seconda delle epoche in cui il ritratto appare. Occorre, quindi, tener conto dell’indubbio valore delle distinzioni nell’uso del ritratto, già a partire da quelle attuate dalle popolazioni barbariche come le civiltà aurignaziane, su su fino a giungere alle diverse interpretazioni che ne hanno dato la psicologia, l’antropologia e alcuni studi specialistici some quello ad esempio del grande Johann Kaspar Lavater, il grande antropologo amico di Goethe, che ha dedicato buona parte dei suoi studi al rapporto tra il capo dell’uomo e l’entità della sua intelligenza e coscienza. Che poi il ritratto sia stato ancora prima di un’opera d’arte, una maniera dell’umanità primitiva per fissare il volto dell’amico (o del nemico), costituisce la ragione prima, dell’importanza che questa forma d’arte ha avuto lungo tutto il percorso della civiltà. Non c’è dubbio che ancora prima del ritratto, la maschera, e tanto più la maschera mortuaria, hanno costituito per lunghi periodi uno dei mezzi più efficaci per conservare e trasmettere il ricordo di un volto. Non solo le maschere utilizzate da popolazioni barbariche, ma tutti i ritratti delle varie epoche hanno avuto soprattutto il compito e il merito di tramandare ai posteri, oltre che agli amici e ai compagni, il ricordo dell’individuo scomparso, che nell’immagine della sua faccia e del suo volto prolungava in un certo senso la sua esistenza, anche per chi non lo aveva conosciuto vivente, raddoppiandone l’immagine del volto e della faccia.
Eseguire il ritratto di qualcuno non consiste solo nella riproduzione fedele e abile dei suoi tratti, ma significa anche impadronirsi della personalità ritratta, divenirne «proprietari» e rendere pubblica l’interpretazione di un volto segreto nello stesso modo in cui quell’individuo, ancora ignoto, acquista una identità che viene condivisa dai diversi spettatori. Non solo da un punto di vista anatomo-fisiologico, ma già dalla semplice osservazione è facile intuire che l’influsso del volto e della faccia costituiscono la centrale del pensiero e del sentimento umano e quello delle azioni volontarie di ogni individuo.
Anche per quello che riguarda l’espressione del volto come trasmettitrice del pensiero e della volontà dell’individuo, credo che la faccia stia a costituire un vero e proprio fanale del nostro pensiero più occulto; e del resto anche nei volti degli animali domestici più vicino all’uomo è facile realizzare come le loro «facce», che di solito non vengono definite con questo nome, denotino quello che è l’intima emozione e l’intima volontà di questi animali attraverso l’espressività delle loro «facce». Mi si conceda di usare questo termine che di solito non si addice agli animali. Che poi il nostro volto sia il faro del nostro pensiero e della nostra personalità è da sempre un fatto ben noto; basta riflettere alle facce delle opere d’arte lungo i secoli.
Non dimentichiamo tuttavia che il ritratto molto spesso aggiunge alle espressioni evidenti, delle caratteristiche positive o negative che non sono sempre presenti nelle persone ritratte: espressioni del volto, acutezza dello sguardo, piega ironica delle labbra e via dicendo. In questo modo un ritratto, pur assomigliando al suo modello, presenta, per quanto riguarda la sua effettiva conformazione, delle espressività che non appartengono più all’individuo ritratto, ma sono state attribuite allo stesso per volontà o per superficialità del ritrattante — e questo vale non solo per l’antica o recente opera pittorica, ma è facilmente riscontrabile in tutte le figurazioni dei nostri giorni, grazie ai mezzi fotografici, cibernetici. Certamente per molti ritratti dell’antichità e anche di persone a noi vicine, la fiducia nella sincerità del ritratto dovrebbe essere sbugiardata e controllata. E del resto che le peculiarità del nostro cervello e quindi dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, dovessero in qualche maniera proiettarsi all’esterno, è sin troppo evidente.
Attraverso la faccia è ovvio che i sentimenti riescono ad essere proiettati all’esterno e a farne partecipe ogni persona. Lo studio compiuto da Belting, oltretutto, non si arresta ad un’elencazione delle più celebri opere d’arte che del volto umano hanno fatto la loro meta, ma vale come supporto fisio-psicologico del personaggio ritratto; il testo infatti si complica tenendo conto di alcune fondamentali premesse, come quelle dovute agli studi di Gall e di Lavater, tra i primi a rendersi conto dell’interdipendenza tra forma del cranio, della calotta cranica e pensiero umano. È proprio in base a questi studi che constatiamo di rimanere affascinati ogni volta che fissiamo lo sguardo ad un nostro interlocutore o quando ci capita di osservarci nello specchio (quando ne siamo attratti senza la nostra consapevolezza), il che permette di chiederci fino a che punto i tratti del nostro volto e di quello dei diversi ritrattati, corrispondano ai nostri sentimenti e alle nostre espressività. Effettivamente, i tratti del nostro volto possono comunicare senza che ne siamo consapevoli un atteggiamento che alla nostra coscienza sembrerebbe ambiguo.
Da quanto abbiamo detto risulta che molto spesso — nonostante la nostra buona volontà — non possiamo fidarci fino in fondo né della nostra né dell’altrui espressività del volto.
Nessun commento:
Posta un commento