mercoledì 3 dicembre 2014

Ecco perché la "sinistra" PD dev'essere spazzata via

Jobs act, la minoranza Pd si piega all’ultima fiducia 

Palazzo Madama. Oggi in aula l'annuncio del voto di fiducia. Domani il jobs act sarà legge. Solo due i no annunciati dalla sinistra Pd

Daniela Preziosi, il Manifesto 2.12.2014 
«Que­sto prov­ve­di­mento non l’ho votato a otto­bre, non potrò votarlo a dicem­bre». Nell’aula di palazzo Madama la sena­trice Lucre­zia Ric­chiuti annun­cia il suo no al jobs. E’ il primo no che arriva dal Pd ma non ce ne saranno molti altri. Cor­ra­dino Mineo, altro civa­tiano che già a otto­bre non ha par­te­ci­pato al voto, ci vuole pen­sare ancora 24 ore. Ma con­fida che il jobs act è par­tito al senato con un voto di fidu­cia e ora qui con un voto di fidu­cia, insomma i sena­tori non devono toc­care palla «e que­sto è vera­mente troppo, non credo che lo voterò». Altri sette col­le­ghi ave­vano chie­sto, con tanto di docu­mento, che quello del senato non fosse solo un pas­sag­gio formale. 

Sono Erica D’Adda, Fede­rico For­naro, Maria Gra­zia Gatti, Ceci­lia Guerra, Patri­zia Manas­sero, Carlo Pego­rer e Wal­ter Tocci (che al pre­ce­dente voto aveva votato sì alla fidu­cia ma subito aveva ras­se­gnato le dimis­sioni, poi respinte dall’aula). Ma la richie­sta è inac­cet­ta­bile per il governo che ha con­cesso qual­che ritocco alla camera («ritoc­chi cosme­tici», li hanno defi­niti nel giro stretto ren­ziano) solo dopo aver rice­vuto ampie ras­si­cu­ra­zioni che il pas­sag­gio al senato sarebbe stato rapido e indo­lore. «Resta un dis­senso netto e pro­fondo», annun­cia D’Adda. Ma dif­fi­cile che qual­cuno di que­sti sette sena­tori voti no alla fidu­cia e metta a rischio la tenuta del governo. 
Per­ché di voto di fidu­cia si trat­terà. Oggi la mini­stra Boschi lo comu­ni­cherà all’aula, e gio­vedì il jobs act sarà que­stione chiusa. Per­sino in anti­cipo rispetto allo scio­pero gene­rale del 12 dicem­bre. In attesa di un voto scon­tato – il resto della mino­ranza Pd ha spo­stato le osti­lità sul fronte della legge elet­to­rale — ieri la delega ha ini­ziato il suo breve ultimo miglio. Nell’indifferenza dell’aula che aspetta solo l’arrivo «della signo­rina Buo­na­sera» (la mini­stra Boschi, ndr) come ha ghi­gnato il 5stelle Endrizzi. 
Respinte le pre­giu­di­ziali di costi­tu­zio­na­lità, la mag­gio­ranza affida il cal­cio d’avvio al sena­tore Pie­tro Ichino, uno dei padri del testo insieme al col­lega ex mini­stro ber­lu­sco­niano Mau­ri­zio Sac­coni. Al no di Forza Ita­lia, Lega, Fdi, M5S e Sel si alter­nano i sì delle forze di mag­gio­ranza della quale per l’ultima volta vanno in scena le loro oppo­ste moti­va­zioni: se per il dem Bruno Astorre «ci saranno più garan­zie per tutti», per l’alfaniano Bruno Man­cuso «final­mente si eli­mina l’art.18». 
Che quest’ultima sia la verità inne­ga­bile nono­stante gli sforzi les­si­cali del Pd ren­ziano ma anche ber­sa­niano, fuori dall’aula lo spiega anche Tiziano Treu, padre di tutte le pre­ca­riz­za­zioni nostrane: «Migliaia di pagine a par­lare dell’art. 18 è segno della nostra per­ver­sione intel­let­tuale. L’art.18 è un sim­bolo, ma di sim­boli si può morire». Comun­que il sim­bolo è sal­tato. Inu­tile aggrap­parsi al resi­duo rein­te­gro sul posto di lavoro, spiega Ric­chiuti: «Se è molto più sicuro licen­ziare per motivi eco­no­mici, nes­sun datore licen­zierà per motivi disci­pli­nari. Quindi esi­ste l’istituto del rein­te­gro per i licen­zia­menti disci­pli­nari? Nella pra­tica no».

Cuperlo “Sbagliato forzare i tempi. Sembra voglia votare”
Legge elettorale, Cuperlo punzecchia il premier
intervista di Francesca Schianchi La Stampa 3.12.14
«Fare le riforme è un dovere: dopo anni di discussioni, superare il bicameralismo attuale e avere una buona legge elettorale è un modo per ridare credibilità alle istituzioni. Il punto è farle bene».
Gianni Cuperlo, lei in Direzione ha chiesto che si discutano altre modifiche.
«Bisogna procedere, certo, ma bisogna tener conto che la riforma elettorale e quella costituzionale sono come i pedali di una bicicletta, che sta in piedi solo se si agisce su entrambi i pedali».
La proposta di Renzi è di fare entrare in vigore l’Italicum dal 1° gennaio 2016.
«Il Parlamento non è un latte a scadenza. La questione è dare una coerenza al modello istituzionale. E se si slegasse la legge elettorale dal destino della riforma costituzionale, allora il sospetto che si voglia accelerare per arrivare al voto somiglierebbe molto a una prova».
Il premier ripete che non vuole andare a votare.
«E io voglio credergli perché penso come lui che l’interesse del Pd sta nel fare le riforme e ridare così una speranza a famiglie e imprese. Dico solo che per fare buone riforme non è necessario stravolgere l’impianto che c’è, però bisogna avere fiducia nel lavoro del Parlamento e nella possibilità di trovare lì le soluzioni convincenti per i problemi ancora aperti».
Finora c’è stata poca fiducia nel lavoro del Parlamento?
«Storicamente la riforma della Costituzione è sempre stata una prerogativa del Parlamento, con i governi che questo ruolo rispettavano. Oggi si è scelto un metodo diverso, ma il ruolo del Parlamento va preservato».
Quali sono le modifiche necessarie?
«Per quanto riguarda la legge elettorale, non convincono i capilista bloccati: con quella soluzione torneremmo a un Parlamento prevalentemente di nominati. Nella riforma costituzionale è ragionevole alzare il quorum per eleggere il capo dello Stato in modo da evitare che chi vince nelle urne si prenda tutto, compresi gli istituti di garanzia. E penso sarebbe saggio intervenire sulle funzioni del Senato risolvendo alcune incongruenze».
Ma il Patto del Nazareno scricchiola o tiene ed è ostacolo alle modifiche?
«Sullo stato di salute del Patto del Nazareno non sono la persona giusta a cui chiedere… Ma sono preoccupato dello stato di salute della nostra democrazia. Non la vivo come una questione tecnica, ma interamente politica, che riguarda la credibilità della rappresentanza, i motivi della partecipazione o della mancata partecipazione…».
Si riferisce all’astensionismo?
«I dati sull’astensionismo parlano anche di questo. Di quanto sia inefficace una concezione del potere che traduce il diritto e dovere di governare in una scorciatoia decisionista».
È una critica a Renzi?
«Non è una critica, è una mia convinzione. Non è vero che ascoltare le forze che agiscono nella società sia un modo per rallentare decisioni e riforme: rinunciare a quella fatica o compensarla con la forza del leader può portare a un’esplosione di consenso ma, se quel consenso non lo consolidi nel rapporto con i soggetti che scegli di rappresentare, con la stessa rapidità quella fiamma si può consumare».
Ma Renzi è disposto a discutere altre modifiche?
«Me lo auguro. Bisogna superare il pregiudizio per cui chiunque esprime un’opinione diversa lo faccia per finalità altre da quelle che vengono dette».
Non rischiate però di rallentare tutto?
«No. Bisogna avere fiducia nella capacità del Parlamento di fare le scelte giuste. La carta del prendere o lasciare non funziona mai in politica, tanto più non è accettabile quando in gioco c’è la Carta fondamentale».



Il rischio guerriglia per il Colle
di Luigi La Spina La Stampa 3.12.14

Il passato remoto non ci conforta troppo e quello prossimo addirittura ci sconforta. La storia delle elezioni per il Presidente della Repubblica, durante la seconda metà del secolo scorso, è costellata di memorabili guerriglie.
Battaglie a Camere riunite, che solo in due occasioni, quella che decise la nomina di Cossiga e quella che portò Ciampi al Quirinale, si arresero a un quasi generale accordo tra i partiti. La tormentata vicenda della scorsa primavera che portò alla rielezione di Napolitano, poi, è talmente vicina nel tempo e sanguinosa nella memoria di tutti per non ispirare tristi presagi. Così, in vista delle probabili dimissioni, durante il mese di gennaio, dell’unico presidente bis della nostra Repubblica, si stanno infittendo le preoccupazioni per il possibile nuovo spettacolo di divisioni, tradimenti, rivalse personali sulla scena della nostra già travagliata politica nazionale. Con il corollario di giustificati e accorati appelli perché si eviti la replica di un copione così squallido.
L’ipotesi di una nuova sequela di scrutini nulli nella giungla di peones imbizzarriti, capi e capetti dediti a vendette trasversali, leader smarriti e impotenti, non rappresenta solamente un incubo per chi teme per il decoro delle istituzioni, per chi paventa l’offesa al bon ton parlamentare e, magari, prevede, in questo caso, la scelta di una persona non all’altezza del prestigio e delle responsabilità di una carica così importante. La vera e propria angoscia per questa prima prova della politica italiana, all’inizio del nuovo anno, deriva dalla congiuntura economica nella quale si svolgerà.
Al di là delle strumentali interpretazioni ottimistiche dei cattivi segnali che, da tutte le parti, piovono sullo stato della nostra economia, è evidente la gravità della situazione occupazionale, specialmente giovanile, di una ripresa dei consumi che ancora non appare all’orizzonte, di una produzione industriale stagnante. Tra tutte queste notizie negative, l’unico dato confortante è certamente quello del famoso spread, un termine che ormai anche gli anglofobi si sono rassegnati a usare, tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi. Una differenza così rassicurante che si può spiegare solo con un motivo: il valore che la stabilità, vera o presunta, del nostro governo assume nella percezione della comunità finanziaria internazionale.
Ecco perché se anche questa convinzione, più o meno fondata, dovesse essere travolta da una battaglia rovinosa per la nomina del nuovo Presidente della Repubblica, una battaglia con conseguenze devastanti per tutti i principali partiti e, quindi, con un inevitabile ricorso ad elezioni politiche anticipate, l’effetto sui mercati finanziari sarebbe drammatico.
Ci sono speranze che questo lugubre scenario ci sia evitato? È ormai pensiero comune, persino scontato, che l’occasione della nuova nomina per il Quirinale potrebbe rappresentare, per Renzi, «la tempesta perfetta». In tanti l’aspettano per scaricare i risentimenti per le sue sbrigative rottamazioni, per i maldigeriti accordi del Nazareno con Berlusconi, per i suoi attacchi ai sindacati e per il generale disprezzo per le liturgie concertative e compromissorie a cui erano abituati. 
Tocca al presidente del Consiglio e al segretario del primo partito in Parlamento, quindi, la regia di una partita che si annuncia difficilissima. Non solo perché si tratta della regola consueta in queste elezioni, ma proprio perché l’esito potrebbe determinare il suo destino, arrivato a un bivio decisivo. Se Renzi dovesse perdere, la sua carriera potrebbe restare, nella storia della nostra Repubblica, l’esempio della più folgorante ascesa e della più folgorante caduta di un giovane leader politico. Se dovesse vincere, il suo spietato «ratto» del potere si potrebbe trasformare in un lungo regno al governo del nostro Stato. 
Le lezioni del passato non serviranno a molto. L’accordo che De Mita riuscì a concludere per la subitanea elezione di Cossiga al Quirinale, nel 1985, fu l’ultima ingannevole prova di forza di una prima Repubblica che, invece, si avviava al declino. Quello del 1999, con la regia di Veltroni, che scelse Ciampi, sempre al primo scrutinio, fu favorito sia dal prestigio di una personalità fuori dalle etichette di partito, sia dal riconoscimento del ruolo svolto dall’ex governatore della Banca d’Italia e dell’ex ministro del Tesoro per la partecipazione immediata del nostro Paese alla moneta unica europea. Circostanze irripetibili e figure pubbliche troppo lontane dalle attuali per indicare possibili strategie imitative.
L’unico ricordo storico che potrebbe suggerire un parallelo riguarda, forse, un’altra emergenza della nostra vita politica. Quella che costrinse, sotto la minaccia del terrorismo mafioso contro lo Stato, a una repentina intesa dei partiti per risolvere il lungo stallo degli scrutini che dovevano decidere il successore di Cossiga e che portò, nel maggio 1992, alla nomina di Scalfaro. Ora è l’emergenza della nostra economia a non sopportare pure una guerriglia per il Quirinale. Ma il segnale di responsabilità deve darlo subito Renzi, proponendo un nome autorevole, di grande garanzia democratica e di sicura competenza istituzionale. Se avrà paura di una personalità troppo indipendente, anche da lui, troppo ingombrante, anche per lui, quella partita l’avrà persa prima di cominciarla.



Partita a scacchi sulla sorte dell’Italicum
di Marcello Sorgi La Stampa 3.12.14

Matteo Renzi prova a far quadrare il cerchio della legge elettorale, proponendo una clausola mirata a fugare i timori di alleati e avversari sul desiderio del premier di chiudere in anticipo la legislatura. Anche a costo di far votare la Camera con il nuovo sistema maggioritario, e il Senato (nel caso in cui lo scioglimento arrivasse prima del completamento della riforma) con il proporzionale previsto dalla sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum.
La proposta è di stabilire un limite temporale esplicito, ad esempio gennaio 2016, per l’entrata in vigore della nuova legge, che non potrebbe essere adoperata nella prossima primavera, ma verrebbe comunque approvata in Senato entro la fine dell’anno e definitivamente varata dalla Camera a inizio 2015. Renzi è convinto di riuscirci grazie alla disponibilità di Napolitano, resa esplicita dalla nota del Quirinale di lunedì, di non annunciare le dimissioni almeno fino alla conclusione del semestre europeo di presidenza italiana. Il Capo dello Stato ha aggiunto che farà le sue valutazioni indipendentemente dall’attività in corso di governo e Parlamento. Ma basterebbe che l’uscita di scena del Presidente si collocasse nella seconda metà di gennaio, a giudizio di Renzi, per consentire l’approvazione del nuovo sistema elettorale prima che si apra la partita del Quirinale, di cui però tutti parlano come se fosse già cominciata.
La ministra Boschi ieri sera a Otto e mezzo ha confermato che questo è il percorso che Renzi ha individuato per superare le ultime resistenze, e in nessun caso il premier accetterebbe invece l’aggancio della legge elettorale al varo della riforma del Senato. Ufficialmente l’orizzonte del governo resta quello della conclusione naturale della legislatura nel 2018. Ma l’urgenza di Renzi di arrivare al risultato fa pensare ad alleati e avversari che il premier non abbia affatto rinunciato all’idea dello scioglimento delle Camere, una volta incassato l’Italicum. Il testo sta per uscire dalla commissione Affari istituzionali e arriverà in aula il 22 dicembre. Tecnicamente il tempo di approvarla ci sarebbe. Occorrerà vedere quale sarà l’atteggiamento delle opposizioni, quante migliaia di emendamenti saranno presentati, e soprattutto come si comporterà Forza Italia, che aveva chiesto di rallentare l’iter della legge affrontando prima il problema dell’elezione del successore di Napolitano. Renzi ha detto e ripetuto che stavolta non si straccerà le vesti se l’accordo con Berlusconi dovesse venir meno e l’incrinatura del patto del Nazareno ha riportato quasi per miracolo il Pd all’unità. Quei venti o trenta voti che l’ex-Cavaliere garantiva al Senato il premier potrebbe cercarli nelle file del Movimento 5 stelle: la cui diaspora, dopo la sconfitta elettorale e dopo il passo indietro di Grillo, è appena cominciata.



Il premier tenta di rassicurare per piegare le resistenze
di Massimo Franco Corriere 3.12.14

Matteo Renzi vuole il primo «sì» del Senato alla riforma elettorale entro dicembre: tanto più dopo la sponda istituzionale che gli ha offerto lunedì il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, scansando a gennaio il tema delle proprie dimissioni. Ma sa anche che per ottenerlo deve rassicurare i suoi avversari nel Pd e dentro Forza Italia: deve convincerli che non vuole andare alle urne nel 2015. Per questo, ieri ha proposto «una clausola di salvaguardia che fa entrare in vigore la legge elettorale il 1° gennaio 2016». E’ una mossa abile e obbligata, che può piegare qualche resistenza. 
Ma non tutti gli oppositori che vedono il premier in difficoltà appaiono inclini a gesti distensivi, anzi. Non ci si accorge della sconnessione vistosa tra il dibattito tormentato sui tempi delle riforme parlamentari, e gli arresti eseguiti ieri a Roma dalla magistratura contro una quarantina di esponenti della nomenklatura capitolina: una retata trasversale. La determinazione della Procura rivela un mondo politico distratto e prigioniero delle divisioni interne. Si accentua l’impressione di un sistema sovraesposto ai rischi di delegittimazione. 
Il Movimento 5 stelle preferisce vedere in quanto accade intorno al Campidoglio i frutti avvelenati del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. In realtà, il malaffare è cominciato molto prima, e dunque l’accusa suona strumentale. Oltre tutto, l’alleanza tra presidente del Consiglio e fondatore di Forza Italia appare in bilico. Il premier insiste per il sì alla riforma elettorale entro dicembre; Berlusconi sta facendo di tutto per impedirlo. Sullo sfondo, ci sono sempre i timori di elezioni anticipate. Ma c’è anche la questione del Quirinale, vero spartiacque non solo della legislatura ma degli equilibri dei prossimi anni. 
La quasi certezza che Napolitano si dimetterà tra qualche settimana ha irrigidito tutte le posizioni; e rimesso in forse soluzioni date quasi per certe. Il capo dello Stato ne è così consapevole che l’altro ieri ha fatto ribadire dal suo ufficio stampa il rifiuto di essere utilizzato da chi vuole rinviare le riforme; e con il suo gesto ha voluto tendere la mano a palazzo Chigi. La sponda, tuttavia, potrebbe rivelarsi comunque scivolosa per un Renzi determinato ad approvare il sistema elettorale tra diffidenze diffuse. I berlusconiani intensificano la polemica sul doppio spartito dell’attacco alla politica economica del governo, e del sospetto per la «fretta» del premier. 
Trovano alleati oggettivi in una minoranza del Pd decisa alla guerriglia parlamentare e ostile al compromesso raggiunto alcune settimane fa nella coalizione tra Pd e Ncd. Renzi si rende conto dell’insidia: di qui a febbraio si gioca tutto. E capisce che,oltre a forzare i tempi dell’approvazione, deve trovare qualche punto di incontro con gli avversari. Non si può «legare la riforma elettorale a quella costituzionale: sarebbe un atto contro la Costituzione», ha ammonito ieri. Eppure il Pd rimane diviso, e nessuno sembra in grado di ricompattarlo: nonostante le vittorie elettorali. 



Quirinale, il premier tende la mano a Bersani
In vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica Renzi riannoda i fili del dialogo con l’ex segretario Pd che apre: “La condivisione è possibile sapendo che io non accetto scambi, non è nella mia natura”. La paura dei 101

di Goffredo De Marchis Repubblica 3.12.14

ROMA Un presidente della Repubblica che parta dalla proposta del Partito democratico. Questa è la base su cui Matteo Renzi sta cercando un dialogo con la minoranza e con quella che considera la guida morale di quel pezzo del Pd: Pier Luigi Bersani. Per questo i suoi interlocutori da alcuni giorni gli sentono ripetere parole che starebbero bene in bocca all’ex segretario: «Se noi troviamo una compattezza interna non ce n’è per nessuno. Passa dal Pd la gestione della partita per il Colle. Quindi adesso lavoro per la tenuta e la consapevolezza del mio partito ». Che si può tradurre così: evitiamo un bis dei 101 di Prodi. «Nel 2013 c’era un Pd in difficoltà mentre Forza Italia e Grillo avevano una linea dura e solida. Oggi è esattamente il contrario. Dobbiamo sfruttare l’occasione ». È questo il terreno su cui Bersani ha più volte richiamato il suo successore: «Partire dal Pd». O meglio: «Da quel 25 per cento che ha segnato una vittoria striminzita ma ci ha permesso di fare ben due governi». Una rivendicazione personale che l’ex leader prima o poi vorrebbe veder riconosciuta dal premier. Se Largo del Nazareno sceglierà una candidatura alta e forte, «non ci sarà nemmeno bisogno di grandi contrattazioni interne », dice un bersaniano doc come Alfredo D’Attorre. «La condivisione è possibile — spiega Bersani ai suoi collaboratori —. Sapendo che io non accetto scambi, non è nella mia natura ». Resta però di fondo la diffidenza dell’ex segretario. «So che Matteo è sempre alla ricerca di colpi di immagine. Il modello Muti per fare un esempio. Però il Paese è ancora su una strada piena di curve e ci vuole una personalità che sappia guidare la macchina». Bersani non solo considererebbe la scelta di marketing come «una stravaganza ». Sarebbe, dice, «un abbassamento del livello politico e istituzionale che comporterebbe un danno per l’Italia». Bisogna studiare un’altra soluzione.
Nei suoi colloqui quotidiani con la minoranza, allora, il vicesegretario Lorenzo Guerini propone un accordo sul metodo e soprattutto sull’unità del Pd. «Poi troveremo il candidato», dice. Ma i colloqui sono sempre più frequenti e ora coinvolgono anche la legge elettorale, un passaggio preliminare all’elezione del capo dello Stato e sul quale minoranza e maggioranza del partito sono sempre distanti.
Eppure anche sull’Italicum da Renzi viene qualche apertura. In vista del voto quirinalizio. Il premier sa che Bersani è il punto di riferimento di Area riformista, la corrente di Roberto Speranza, Maurizio Martina, Nico Stumpo e Guglielmo Epifani che conta parecchi voti tra Camera e Senato. Sa anche che la scelta dell’ex segretario di votare “sì” al Jobs Act, seppure per disciplina, ha avuto l’effetto di contenere il dissenso nel gruppo parlamentare limitandolo a 40 deputati. Per tutti questi motivi oggi è indispensabile guardare ai bersaniani e dimenticare l’affondo della Leopolda quando scaricò «quelli che ci vogliono riportare al 25 per cento », parole che hanno segnato il punto più basso del rapporto Renzi-Bersani e che sancivano uno strappo profondo nel Pd. Tra vecchi e nuovi, tra il passato e il futuro. Oggi Renzi deve ricucire quel filo.
Non è certo una gentile concessione ai rottamati, quella del premier. Il patto del Nazareno fa acqua da molte parti e rischia di trascinare nel caos la corsa al Colle. Non a caso Bersani si incunea nella frizione Renzi-Berlusconi e torna ad attaccare sulla legge elettorale. Il tema sono le preferenze. «Non mollo sull’Italicum », avverte. E sempre di più gli sviluppi del dibattito al Senato diventano fondamentali per vaticinare il voto per il Quirinale. I gruppi parlamentari dei contraenti del Nazareno tengono sull’Italicum? Un bersaniano prevede «mare mosso» a Palazzo Madama. «Il nucleo d’acciaio sono le liste bloccate, nient’altro», racconta. Proprio quello che l’ex segretario vuole intaccare per scendere da 350 nominati a 100-150. «Se il numero è 100 — ha risposto Guerini a Francesco Boccia in una conversazione di ieri — ve lo scordate». Renzi proverà a mediare su una composizione della Camera fatta da 2/3 di eletti (380 deputati) e 1/3 bloccati (250). Ma Berlusconi è d’accordo? «Nel patto adesso — dice il bersaniano — c’è anche il sospetto di Berlusconi sul voto anticipato. Per questo l’esito dell’Italicum al Senato sarà la prova del nove per capire come andranno le cose sul Quirinale». Dentro Forza Italia e dentro al Pd.



Berlusconi: Matteo ha bisogno di noi
Il Cavaliere assicura di non voler ostacolare le riforme: tanto da Grillo non cava nulla Sfida aperta al governo sull’economia (anche per contendere lo spazio di Salvini)

di Paola Di Caro Corriere 3.12.14

ROMA La linea resta la stessa. Realistica: se si vuole ottenere qualcosa da Matteo Renzi — un nome condiviso per il Quirinale e la durata più lunga possibile della legislatura — non ci si può mettere di traverso su riforme e legge elettorale. E però Silvio Berlusconi, tornato ieri a Roma per fare il punto con i suoi e preparare le prossime uscite, non ha fretta di accontentare il premier. 
«I problemi ce li hanno loro in casa, e soprattutto in commissione i numeri non dovrebbero tenerli tranquilli... Non sarà facile per Renzi portare a casa riforme e legge elettorale: dovrà evitare forzature e avrà assoluto bisogno di noi visto che dal M5S non cava nulla...» dice il Cavaliere a quanti, fra i suoi, gli dicono di tenere duro perché l’Italicum ultima versione ha «molte parti che non ci stanno affatto bene». Il segnale mandato da Algeri dal leader del Pd — la possibilità che nell’Italicum sia prevista una clausola che fa entrare in vigore la legge solo dal 2016 — in verità però è letto come la volontà di rassicurare gli avversari, proprio per evitare che gli scontenti dei vari schieramenti si saldino e facciano slittare, se non saltare, ogni intesa. 
Così la vede sicuramente il gruppo di senatori che fa riferimento a quel Raffaele Fitto con cui Berlusconi non ha ancora ripreso a dialogare, arrabbiato com’è per la linea di opposizione interna e per l’autonomia con cui la componente si muove, minando l’autorità e la potenzialità a trattare del leader. I 18 fedelissimi fittiani ieri in massa si sono iscritti a parlare in commissione proprio per mandare un avvertimento al premier: niente scherzi, servono garanzie che non vengano sciolte le Camere. E l’idea dell’entrata in vigore dell’Italicum non prima di un anno è «già un passo avanti», dicono. 
Ma anche nell’inner circle berlusconiano l’apertura è stata valutata positivamente: «Vediamo cosa proporranno davvero nei prossimi giorni. La clausola? Sentiamo come la vorranno scrivere, se ne può discutere...», dice Paolo Romani. Che insiste sull’importanza di alcuni nodi dell’Italicum, primo fra tutti quel premio alla lista e non più alla coalizione che a FI provocherebbe molti problemi. 
Sì perché, con il leader della Lega Matteo Salvini, dopo il momento dei complimenti adesso è arrivato per Berlusconi quello della competizione. Rallegrato dal successo del tax day, il Cavaliere vuole tentare di riprendersi gli spazi perduti di opposizione, contendendoli alla Lega, sui temi dell’economia: giovedì dovrebbe tenersi una conferenza stampa per annunciare la prossima battaglia contro il governo, quella per la flat tax, vecchio cavallo di cavallo degli azzurri. E Berlusconi vuole esserci, in prima fila. 

Nessun commento: