«Questo provvedimento non l’ho votato a ottobre, non potrò votarlo a dicembre». Nell’aula di palazzo Madama la senatrice Lucrezia Ricchiuti annuncia il suo no al jobs. E’ il primo no che arriva dal Pd ma non ce ne saranno molti altri. Corradino Mineo, altro civatiano che già a ottobre non ha partecipato al voto, ci vuole pensare ancora 24 ore. Ma confida che il jobs act è partito al senato con un voto di fiducia e ora qui con un voto di fiducia, insomma i senatori non devono toccare palla «e questo è veramente troppo, non credo che lo voterò». Altri sette colleghi avevano chiesto, con tanto di documento, che quello del senato non fosse solo un passaggio formale.
Sono Erica D’Adda, Federico Fornaro, Maria Grazia Gatti, Cecilia Guerra, Patrizia Manassero, Carlo Pegorer e Walter Tocci (che al precedente voto aveva votato sì alla fiducia ma subito aveva rassegnato le dimissioni, poi respinte dall’aula). Ma la richiesta è inaccettabile per il governo che ha concesso qualche ritocco alla camera («ritocchi cosmetici», li hanno definiti nel giro stretto renziano) solo dopo aver ricevuto ampie rassicurazioni che il passaggio al senato sarebbe stato rapido e indolore. «Resta un dissenso netto e profondo», annuncia D’Adda. Ma difficile che qualcuno di questi sette senatori voti no alla fiducia e metta a rischio la tenuta del governo.
Perché di voto di fiducia si tratterà. Oggi la ministra Boschi lo comunicherà all’aula, e giovedì il jobs act sarà questione chiusa. Persino in anticipo rispetto allo sciopero generale del 12 dicembre. In attesa di un voto scontato – il resto della minoranza Pd ha spostato le ostilità sul fronte della legge elettorale — ieri la delega ha iniziato il suo breve ultimo miglio. Nell’indifferenza dell’aula che aspetta solo l’arrivo «della signorina Buonasera» (la ministra Boschi, ndr) come ha ghignato il 5stelle Endrizzi.
Respinte le pregiudiziali di costituzionalità, la maggioranza affida il calcio d’avvio al senatore Pietro Ichino, uno dei padri del testo insieme al collega ex ministro berlusconiano Maurizio Sacconi. Al no di Forza Italia, Lega, Fdi, M5S e Sel si alternano i sì delle forze di maggioranza della quale per l’ultima volta vanno in scena le loro opposte motivazioni: se per il dem Bruno Astorre «ci saranno più garanzie per tutti», per l’alfaniano Bruno Mancuso «finalmente si elimina l’art.18».
Che quest’ultima sia la verità innegabile nonostante gli sforzi lessicali del Pd renziano ma anche bersaniano, fuori dall’aula lo spiega anche Tiziano Treu, padre di tutte le precarizzazioni nostrane: «Migliaia di pagine a parlare dell’art. 18 è segno della nostra perversione intellettuale. L’art.18 è un simbolo, ma di simboli si può morire». Comunque il simbolo è saltato. Inutile aggrapparsi al residuo reintegro sul posto di lavoro, spiega Ricchiuti: «Se è molto più sicuro licenziare per motivi economici, nessun datore licenzierà per motivi disciplinari. Quindi esiste l’istituto del reintegro per i licenziamenti disciplinari? Nella pratica no».
Cuperlo “Sbagliato forzare i tempi. Sembra voglia votare”
Legge elettorale, Cuperlo punzecchia il premier
intervista di Francesca Schianchi La Stampa 3.12.14
«Fare
le riforme è un dovere: dopo anni di discussioni, superare il
bicameralismo attuale e avere una buona legge elettorale è un modo per
ridare credibilità alle istituzioni. Il punto è farle bene».
Gianni Cuperlo, lei in Direzione ha chiesto che si discutano altre modifiche.
«Bisogna
procedere, certo, ma bisogna tener conto che la riforma elettorale e
quella costituzionale sono come i pedali di una bicicletta, che sta in
piedi solo se si agisce su entrambi i pedali».
La proposta di Renzi è di fare entrare in vigore l’Italicum dal 1° gennaio 2016.
«Il
Parlamento non è un latte a scadenza. La questione è dare una coerenza
al modello istituzionale. E se si slegasse la legge elettorale dal
destino della riforma costituzionale, allora il sospetto che si voglia
accelerare per arrivare al voto somiglierebbe molto a una prova».
Il premier ripete che non vuole andare a votare.
«E
io voglio credergli perché penso come lui che l’interesse del Pd sta
nel fare le riforme e ridare così una speranza a famiglie e imprese.
Dico solo che per fare buone riforme non è necessario stravolgere
l’impianto che c’è, però bisogna avere fiducia nel lavoro del Parlamento
e nella possibilità di trovare lì le soluzioni convincenti per i
problemi ancora aperti».
Finora c’è stata poca fiducia nel lavoro del Parlamento?
«Storicamente
la riforma della Costituzione è sempre stata una prerogativa del
Parlamento, con i governi che questo ruolo rispettavano. Oggi si è
scelto un metodo diverso, ma il ruolo del Parlamento va preservato».
Quali sono le modifiche necessarie?
«Per
quanto riguarda la legge elettorale, non convincono i capilista
bloccati: con quella soluzione torneremmo a un Parlamento
prevalentemente di nominati. Nella riforma costituzionale è ragionevole
alzare il quorum per eleggere il capo dello Stato in modo da evitare che
chi vince nelle urne si prenda tutto, compresi gli istituti di
garanzia. E penso sarebbe saggio intervenire sulle funzioni del Senato
risolvendo alcune incongruenze».
Ma il Patto del Nazareno scricchiola o tiene ed è ostacolo alle modifiche?
«Sullo
stato di salute del Patto del Nazareno non sono la persona giusta a cui
chiedere… Ma sono preoccupato dello stato di salute della nostra
democrazia. Non la vivo come una questione tecnica, ma interamente
politica, che riguarda la credibilità della rappresentanza, i motivi
della partecipazione o della mancata partecipazione…».
Si riferisce all’astensionismo?
«I
dati sull’astensionismo parlano anche di questo. Di quanto sia
inefficace una concezione del potere che traduce il diritto e dovere di
governare in una scorciatoia decisionista».
È una critica a Renzi?
«Non
è una critica, è una mia convinzione. Non è vero che ascoltare le forze
che agiscono nella società sia un modo per rallentare decisioni e
riforme: rinunciare a quella fatica o compensarla con la forza del
leader può portare a un’esplosione di consenso ma, se quel consenso non
lo consolidi nel rapporto con i soggetti che scegli di rappresentare,
con la stessa rapidità quella fiamma si può consumare».
Ma Renzi è disposto a discutere altre modifiche?
«Me
lo auguro. Bisogna superare il pregiudizio per cui chiunque esprime
un’opinione diversa lo faccia per finalità altre da quelle che vengono
dette».
Non rischiate però di rallentare tutto?
«No. Bisogna avere
fiducia nella capacità del Parlamento di fare le scelte giuste. La
carta del prendere o lasciare non funziona mai in politica, tanto più
non è accettabile quando in gioco c’è la Carta fondamentale».
Il rischio guerriglia per il Colle
di Luigi La Spina La Stampa 3.12.14
Il
passato remoto non ci conforta troppo e quello prossimo addirittura ci
sconforta. La storia delle elezioni per il Presidente della Repubblica,
durante la seconda metà del secolo scorso, è costellata di memorabili
guerriglie.
Battaglie a Camere riunite, che solo in due occasioni,
quella che decise la nomina di Cossiga e quella che portò Ciampi al
Quirinale, si arresero a un quasi generale accordo tra i partiti. La
tormentata vicenda della scorsa primavera che portò alla rielezione di
Napolitano, poi, è talmente vicina nel tempo e sanguinosa nella memoria
di tutti per non ispirare tristi presagi. Così, in vista delle probabili
dimissioni, durante il mese di gennaio, dell’unico presidente bis della
nostra Repubblica, si stanno infittendo le preoccupazioni per il
possibile nuovo spettacolo di divisioni, tradimenti, rivalse personali
sulla scena della nostra già travagliata politica nazionale. Con il
corollario di giustificati e accorati appelli perché si eviti la replica
di un copione così squallido.
L’ipotesi di una nuova sequela di
scrutini nulli nella giungla di peones imbizzarriti, capi e capetti
dediti a vendette trasversali, leader smarriti e impotenti, non
rappresenta solamente un incubo per chi teme per il decoro delle
istituzioni, per chi paventa l’offesa al bon ton parlamentare e, magari,
prevede, in questo caso, la scelta di una persona non all’altezza del
prestigio e delle responsabilità di una carica così importante. La vera e
propria angoscia per questa prima prova della politica italiana,
all’inizio del nuovo anno, deriva dalla congiuntura economica nella
quale si svolgerà.
Al di là delle strumentali interpretazioni
ottimistiche dei cattivi segnali che, da tutte le parti, piovono sullo
stato della nostra economia, è evidente la gravità della situazione
occupazionale, specialmente giovanile, di una ripresa dei consumi che
ancora non appare all’orizzonte, di una produzione industriale
stagnante. Tra tutte queste notizie negative, l’unico dato confortante è
certamente quello del famoso spread, un termine che ormai anche gli
anglofobi si sono rassegnati a usare, tra i nostri titoli di Stato e
quelli tedeschi. Una differenza così rassicurante che si può spiegare
solo con un motivo: il valore che la stabilità, vera o presunta, del
nostro governo assume nella percezione della comunità finanziaria
internazionale.
Ecco perché se anche questa convinzione, più o meno
fondata, dovesse essere travolta da una battaglia rovinosa per la nomina
del nuovo Presidente della Repubblica, una battaglia con conseguenze
devastanti per tutti i principali partiti e, quindi, con un inevitabile
ricorso ad elezioni politiche anticipate, l’effetto sui mercati
finanziari sarebbe drammatico.
Ci sono speranze che questo lugubre
scenario ci sia evitato? È ormai pensiero comune, persino scontato, che
l’occasione della nuova nomina per il Quirinale potrebbe rappresentare,
per Renzi, «la tempesta perfetta». In tanti l’aspettano per scaricare i
risentimenti per le sue sbrigative rottamazioni, per i maldigeriti
accordi del Nazareno con Berlusconi, per i suoi attacchi ai sindacati e
per il generale disprezzo per le liturgie concertative e compromissorie a
cui erano abituati.
Tocca al presidente del Consiglio e al
segretario del primo partito in Parlamento, quindi, la regia di una
partita che si annuncia difficilissima. Non solo perché si tratta della
regola consueta in queste elezioni, ma proprio perché l’esito potrebbe
determinare il suo destino, arrivato a un bivio decisivo. Se Renzi
dovesse perdere, la sua carriera potrebbe restare, nella storia della
nostra Repubblica, l’esempio della più folgorante ascesa e della più
folgorante caduta di un giovane leader politico. Se dovesse vincere, il
suo spietato «ratto» del potere si potrebbe trasformare in un lungo
regno al governo del nostro Stato.
Le lezioni del passato non
serviranno a molto. L’accordo che De Mita riuscì a concludere per la
subitanea elezione di Cossiga al Quirinale, nel 1985, fu l’ultima
ingannevole prova di forza di una prima Repubblica che, invece, si
avviava al declino. Quello del 1999, con la regia di Veltroni, che
scelse Ciampi, sempre al primo scrutinio, fu favorito sia dal prestigio
di una personalità fuori dalle etichette di partito, sia dal
riconoscimento del ruolo svolto dall’ex governatore della Banca d’Italia
e dell’ex ministro del Tesoro per la partecipazione immediata del
nostro Paese alla moneta unica europea. Circostanze irripetibili e
figure pubbliche troppo lontane dalle attuali per indicare possibili
strategie imitative.
L’unico ricordo storico che potrebbe suggerire
un parallelo riguarda, forse, un’altra emergenza della nostra vita
politica. Quella che costrinse, sotto la minaccia del terrorismo mafioso
contro lo Stato, a una repentina intesa dei partiti per risolvere il
lungo stallo degli scrutini che dovevano decidere il successore di
Cossiga e che portò, nel maggio 1992, alla nomina di Scalfaro. Ora è
l’emergenza della nostra economia a non sopportare pure una guerriglia
per il Quirinale. Ma il segnale di responsabilità deve darlo subito
Renzi, proponendo un nome autorevole, di grande garanzia democratica e
di sicura competenza istituzionale. Se avrà paura di una personalità
troppo indipendente, anche da lui, troppo ingombrante, anche per lui,
quella partita l’avrà persa prima di cominciarla.
Partita a scacchi sulla sorte dell’Italicum
di Marcello Sorgi La Stampa 3.12.14
Matteo
Renzi prova a far quadrare il cerchio della legge elettorale,
proponendo una clausola mirata a fugare i timori di alleati e avversari
sul desiderio del premier di chiudere in anticipo la legislatura. Anche a
costo di far votare la Camera con il nuovo sistema maggioritario, e il
Senato (nel caso in cui lo scioglimento arrivasse prima del
completamento della riforma) con il proporzionale previsto dalla
sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum.
La
proposta è di stabilire un limite temporale esplicito, ad esempio
gennaio 2016, per l’entrata in vigore della nuova legge, che non
potrebbe essere adoperata nella prossima primavera, ma verrebbe comunque
approvata in Senato entro la fine dell’anno e definitivamente varata
dalla Camera a inizio 2015. Renzi è convinto di riuscirci grazie alla
disponibilità di Napolitano, resa esplicita dalla nota del Quirinale di
lunedì, di non annunciare le dimissioni almeno fino alla conclusione del
semestre europeo di presidenza italiana. Il Capo dello Stato ha
aggiunto che farà le sue valutazioni indipendentemente dall’attività in
corso di governo e Parlamento. Ma basterebbe che l’uscita di scena del
Presidente si collocasse nella seconda metà di gennaio, a giudizio di
Renzi, per consentire l’approvazione del nuovo sistema elettorale prima
che si apra la partita del Quirinale, di cui però tutti parlano come se
fosse già cominciata.
La ministra Boschi ieri sera a Otto e mezzo ha
confermato che questo è il percorso che Renzi ha individuato per
superare le ultime resistenze, e in nessun caso il premier accetterebbe
invece l’aggancio della legge elettorale al varo della riforma del
Senato. Ufficialmente l’orizzonte del governo resta quello della
conclusione naturale della legislatura nel 2018. Ma l’urgenza di Renzi
di arrivare al risultato fa pensare ad alleati e avversari che il
premier non abbia affatto rinunciato all’idea dello scioglimento delle
Camere, una volta incassato l’Italicum. Il testo sta per uscire dalla
commissione Affari istituzionali e arriverà in aula il 22 dicembre.
Tecnicamente il tempo di approvarla ci sarebbe. Occorrerà vedere quale
sarà l’atteggiamento delle opposizioni, quante migliaia di emendamenti
saranno presentati, e soprattutto come si comporterà Forza Italia, che
aveva chiesto di rallentare l’iter della legge affrontando prima il
problema dell’elezione del successore di Napolitano. Renzi ha detto e
ripetuto che stavolta non si straccerà le vesti se l’accordo con
Berlusconi dovesse venir meno e l’incrinatura del patto del Nazareno ha
riportato quasi per miracolo il Pd all’unità. Quei venti o trenta voti
che l’ex-Cavaliere garantiva al Senato il premier potrebbe cercarli
nelle file del Movimento 5 stelle: la cui diaspora, dopo la sconfitta
elettorale e dopo il passo indietro di Grillo, è appena cominciata.
Il premier tenta di rassicurare per piegare le resistenze
di Massimo Franco Corriere 3.12.14
Matteo
Renzi vuole il primo «sì» del Senato alla riforma elettorale entro
dicembre: tanto più dopo la sponda istituzionale che gli ha offerto
lunedì il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, scansando a gennaio il
tema delle proprie dimissioni. Ma sa anche che per ottenerlo deve
rassicurare i suoi avversari nel Pd e dentro Forza Italia: deve
convincerli che non vuole andare alle urne nel 2015. Per questo, ieri ha
proposto «una clausola di salvaguardia che fa entrare in vigore la
legge elettorale il 1° gennaio 2016». E’ una mossa abile e obbligata,
che può piegare qualche resistenza.
Ma non tutti gli oppositori che
vedono il premier in difficoltà appaiono inclini a gesti distensivi,
anzi. Non ci si accorge della sconnessione vistosa tra il dibattito
tormentato sui tempi delle riforme parlamentari, e gli arresti eseguiti
ieri a Roma dalla magistratura contro una quarantina di esponenti della
nomenklatura capitolina: una retata trasversale. La determinazione della
Procura rivela un mondo politico distratto e prigioniero delle
divisioni interne. Si accentua l’impressione di un sistema sovraesposto
ai rischi di delegittimazione.
Il Movimento 5 stelle preferisce
vedere in quanto accade intorno al Campidoglio i frutti avvelenati del
patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. In realtà, il
malaffare è cominciato molto prima, e dunque l’accusa suona strumentale.
Oltre tutto, l’alleanza tra presidente del Consiglio e fondatore di
Forza Italia appare in bilico. Il premier insiste per il sì alla riforma
elettorale entro dicembre; Berlusconi sta facendo di tutto per
impedirlo. Sullo sfondo, ci sono sempre i timori di elezioni anticipate.
Ma c’è anche la questione del Quirinale, vero spartiacque non solo
della legislatura ma degli equilibri dei prossimi anni.
La quasi
certezza che Napolitano si dimetterà tra qualche settimana ha irrigidito
tutte le posizioni; e rimesso in forse soluzioni date quasi per certe.
Il capo dello Stato ne è così consapevole che l’altro ieri ha fatto
ribadire dal suo ufficio stampa il rifiuto di essere utilizzato da chi
vuole rinviare le riforme; e con il suo gesto ha voluto tendere la mano a
palazzo Chigi. La sponda, tuttavia, potrebbe rivelarsi comunque
scivolosa per un Renzi determinato ad approvare il sistema elettorale
tra diffidenze diffuse. I berlusconiani intensificano la polemica sul
doppio spartito dell’attacco alla politica economica del governo, e del
sospetto per la «fretta» del premier.
Trovano alleati oggettivi in
una minoranza del Pd decisa alla guerriglia parlamentare e ostile al
compromesso raggiunto alcune settimane fa nella coalizione tra Pd e Ncd.
Renzi si rende conto dell’insidia: di qui a febbraio si gioca tutto. E
capisce che,oltre a forzare i tempi dell’approvazione, deve trovare
qualche punto di incontro con gli avversari. Non si può «legare la
riforma elettorale a quella costituzionale: sarebbe un atto contro la
Costituzione», ha ammonito ieri. Eppure il Pd rimane diviso, e nessuno
sembra in grado di ricompattarlo: nonostante le vittorie elettorali.
Quirinale, il premier tende la mano a Bersani
In
vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica Renzi
riannoda i fili del dialogo con l’ex segretario Pd che apre: “La
condivisione è possibile sapendo che io non accetto scambi, non è nella
mia natura”. La paura dei 101
di Goffredo De Marchis Repubblica 3.12.14
ROMA
Un presidente della Repubblica che parta dalla proposta del Partito
democratico. Questa è la base su cui Matteo Renzi sta cercando un
dialogo con la minoranza e con quella che considera la guida morale di
quel pezzo del Pd: Pier Luigi Bersani. Per questo i suoi interlocutori
da alcuni giorni gli sentono ripetere parole che starebbero bene in
bocca all’ex segretario: «Se noi troviamo una compattezza interna non ce
n’è per nessuno. Passa dal Pd la gestione della partita per il Colle.
Quindi adesso lavoro per la tenuta e la consapevolezza del mio partito
». Che si può tradurre così: evitiamo un bis dei 101 di Prodi. «Nel 2013
c’era un Pd in difficoltà mentre Forza Italia e Grillo avevano una
linea dura e solida. Oggi è esattamente il contrario. Dobbiamo sfruttare
l’occasione ». È questo il terreno su cui Bersani ha più volte
richiamato il suo successore: «Partire dal Pd». O meglio: «Da quel 25
per cento che ha segnato una vittoria striminzita ma ci ha permesso di
fare ben due governi». Una rivendicazione personale che l’ex leader
prima o poi vorrebbe veder riconosciuta dal premier. Se Largo del
Nazareno sceglierà una candidatura alta e forte, «non ci sarà nemmeno
bisogno di grandi contrattazioni interne », dice un bersaniano doc come
Alfredo D’Attorre. «La condivisione è possibile — spiega Bersani ai suoi
collaboratori —. Sapendo che io non accetto scambi, non è nella mia
natura ». Resta però di fondo la diffidenza dell’ex segretario. «So che
Matteo è sempre alla ricerca di colpi di immagine. Il modello Muti per
fare un esempio. Però il Paese è ancora su una strada piena di curve e
ci vuole una personalità che sappia guidare la macchina». Bersani non
solo considererebbe la scelta di marketing come «una stravaganza ».
Sarebbe, dice, «un abbassamento del livello politico e istituzionale che
comporterebbe un danno per l’Italia». Bisogna studiare un’altra
soluzione.
Nei suoi colloqui quotidiani con la minoranza, allora, il
vicesegretario Lorenzo Guerini propone un accordo sul metodo e
soprattutto sull’unità del Pd. «Poi troveremo il candidato», dice. Ma i
colloqui sono sempre più frequenti e ora coinvolgono anche la legge
elettorale, un passaggio preliminare all’elezione del capo dello Stato e
sul quale minoranza e maggioranza del partito sono sempre distanti.
Eppure
anche sull’Italicum da Renzi viene qualche apertura. In vista del voto
quirinalizio. Il premier sa che Bersani è il punto di riferimento di
Area riformista, la corrente di Roberto Speranza, Maurizio Martina, Nico
Stumpo e Guglielmo Epifani che conta parecchi voti tra Camera e Senato.
Sa anche che la scelta dell’ex segretario di votare “sì” al Jobs Act,
seppure per disciplina, ha avuto l’effetto di contenere il dissenso nel
gruppo parlamentare limitandolo a 40 deputati. Per tutti questi motivi
oggi è indispensabile guardare ai bersaniani e dimenticare l’affondo
della Leopolda quando scaricò «quelli che ci vogliono riportare al 25
per cento », parole che hanno segnato il punto più basso del rapporto
Renzi-Bersani e che sancivano uno strappo profondo nel Pd. Tra vecchi e
nuovi, tra il passato e il futuro. Oggi Renzi deve ricucire quel filo.
Non
è certo una gentile concessione ai rottamati, quella del premier. Il
patto del Nazareno fa acqua da molte parti e rischia di trascinare nel
caos la corsa al Colle. Non a caso Bersani si incunea nella frizione
Renzi-Berlusconi e torna ad attaccare sulla legge elettorale. Il tema
sono le preferenze. «Non mollo sull’Italicum », avverte. E sempre di più
gli sviluppi del dibattito al Senato diventano fondamentali per
vaticinare il voto per il Quirinale. I gruppi parlamentari dei
contraenti del Nazareno tengono sull’Italicum? Un bersaniano prevede
«mare mosso» a Palazzo Madama. «Il nucleo d’acciaio sono le liste
bloccate, nient’altro», racconta. Proprio quello che l’ex segretario
vuole intaccare per scendere da 350 nominati a 100-150. «Se il numero è
100 — ha risposto Guerini a Francesco Boccia in una conversazione di
ieri — ve lo scordate». Renzi proverà a mediare su una composizione
della Camera fatta da 2/3 di eletti (380 deputati) e 1/3 bloccati (250).
Ma Berlusconi è d’accordo? «Nel patto adesso — dice il bersaniano — c’è
anche il sospetto di Berlusconi sul voto anticipato. Per questo l’esito
dell’Italicum al Senato sarà la prova del nove per capire come andranno
le cose sul Quirinale». Dentro Forza Italia e dentro al Pd.
Berlusconi: Matteo ha bisogno di noi
Il Cavaliere assicura di non voler ostacolare le riforme: tanto da Grillo non cava nulla Sfida aperta al governo sull’economia (anche per contendere lo spazio di Salvini)
di Paola Di Caro Corriere 3.12.14
ROMA La linea resta la stessa.
Realistica: se si vuole ottenere qualcosa da Matteo Renzi — un nome
condiviso per il Quirinale e la durata più lunga possibile della
legislatura — non ci si può mettere di traverso su riforme e legge
elettorale. E però Silvio Berlusconi, tornato ieri a Roma per fare il
punto con i suoi e preparare le prossime uscite, non ha fretta di
accontentare il premier.
«I problemi ce li hanno loro in casa, e
soprattutto in commissione i numeri non dovrebbero tenerli tranquilli...
Non sarà facile per Renzi portare a casa riforme e legge elettorale:
dovrà evitare forzature e avrà assoluto bisogno di noi visto che dal M5S
non cava nulla...» dice il Cavaliere a quanti, fra i suoi, gli dicono
di tenere duro perché l’Italicum ultima versione ha «molte parti che non
ci stanno affatto bene». Il segnale mandato da Algeri dal leader del Pd
— la possibilità che nell’Italicum sia prevista una clausola che fa
entrare in vigore la legge solo dal 2016 — in verità però è letto come
la volontà di rassicurare gli avversari, proprio per evitare che gli
scontenti dei vari schieramenti si saldino e facciano slittare, se non
saltare, ogni intesa.
Così la vede sicuramente il gruppo di senatori
che fa riferimento a quel Raffaele Fitto con cui Berlusconi non ha
ancora ripreso a dialogare, arrabbiato com’è per la linea di opposizione
interna e per l’autonomia con cui la componente si muove, minando
l’autorità e la potenzialità a trattare del leader. I 18 fedelissimi
fittiani ieri in massa si sono iscritti a parlare in commissione proprio
per mandare un avvertimento al premier: niente scherzi, servono
garanzie che non vengano sciolte le Camere. E l’idea dell’entrata in
vigore dell’Italicum non prima di un anno è «già un passo avanti»,
dicono.
Ma anche nell’inner circle berlusconiano l’apertura è stata
valutata positivamente: «Vediamo cosa proporranno davvero nei prossimi
giorni. La clausola? Sentiamo come la vorranno scrivere, se ne può
discutere...», dice Paolo Romani. Che insiste sull’importanza di alcuni
nodi dell’Italicum, primo fra tutti quel premio alla lista e non più
alla coalizione che a FI provocherebbe molti problemi.
Sì perché,
con il leader della Lega Matteo Salvini, dopo il momento dei complimenti
adesso è arrivato per Berlusconi quello della competizione. Rallegrato
dal successo del tax day, il Cavaliere vuole tentare di riprendersi gli
spazi perduti di opposizione, contendendoli alla Lega, sui temi
dell’economia: giovedì dovrebbe tenersi una conferenza stampa per
annunciare la prossima battaglia contro il governo, quella per la flat
tax, vecchio cavallo di cavallo degli azzurri. E Berlusconi vuole
esserci, in prima fila.
Nessun commento:
Posta un commento