mercoledì 3 dicembre 2014
Efim Zelmanov
«Fu sovvertita la politica di Alessandro III, che impediva lo studio a quelli che venivano volgarmente chiamati i “figli della serva”. I bolscevichi diffusero l’educazione a livello popolare, e quando Stalin comprese l’importanza pratica della scienza, dal giorno alla notte portò gli scienziati a essere i lavoratori più rispettati e pagati del paese».
“Trionfi e soprusi le mie peripezie da matematico nell’era sovietica”
Efim Zelmanov, vincitore della Medaglia Fields nel ’94, svela la sua vita a cavallo tra due mondi
di Piergiorgio Odifreddi Repubblica 3.12.14
HO INCONTRATO E
fim Zelmanov nei primi anni Ottanta in Siberia, quando eravamo entrambi
giovani matematici. Dopo di allora ci eravamo persi di vista, ma al
meeting di Heidelberg del settembre scorso ci siamo ritrovati
immediatamente, nonostante i trent’anni di separazione, e abbiamo subito
cominciato a ricordare episodi di quel passato remoto. Poiché nel
frattempo Zelmanov ha fatto carriera, vincendo nel 1994 la medaglia
Fields, l’occasione era ghiotta per parlare con un protagonista e un
osservatore d’eccezione.
Oltre che con un grande studioso russo: nato
nel 1955 a Khabarovsk, nell’allora Unione Sovietica, è celebre per le
sue ricerche e per le sue scoperte nel campo delle algebre non
associative e della teoria dei gruppi. Proprio la sua soluzione di un
famoso problema in questo secondo campo, il problema di Burnside
ristretto, lo ha portato alla vittoria della Fields.
Direi che
possiamo dividere la matematica del suo Paese in tre periodi: prima,
durante e dopo l’Urss. Qual era la situazione nella Russa zarista?
«C’erano
grandi matematici, come Lobachevskij, uno dei padri della geometria non
euclidea. E c’erano forti legami con la matematica europea: anzitutto
tramite l’Accademia di San Pietroburgo, in cui Eulero lavorò per più di
trent’anni. Era un livello rispettabile, ma niente a che vedere, ad
esempio, con la matematica francese di quel periodo. Tutto cambiò con la
Rivoluzione: la matematica e la fisica furono percepite come qualcosa
di potenzialmente utile».
Come si manifestò questo interesse?
«Fu
sovvertita la politica di Alessandro III, che impediva lo studio a
quelli che venivano volgarmente chiamati i “figli della serva”. I
bolscevichi diffusero l’educazione a livello popolare, e quando Stalin
comprese l’importanza pratica della scienza, dal giorno alla notte portò
gli scienziati a essere i lavoratori più rispettati e pagati del paese.
Per i giovani brillanti, la scienza divenne il modo migliore per fare
carriera e ottenere prestigio in maniera “pulita”, diversamente dalla
politica».
Ma tutto ciò non si rifletté adeguatamente nei premi Nobel.
«L’Urss
aveva i propri premi Stalin. Ma ci furono comunque alcuni premi Nobel:
una mezza dozzina in fisica, e un paio in chimica ed economia».
Ci furono anche delle purghe?
«Alla
fine degli anni ‘40 si pensò di fare una caccia alle streghe in fisica,
analoga a quella in biologia guidata da Lysenko. Ma il direttore del
progetto atomico Kurchatov domandò molto semplicemente al Partito: “Cosa
preferite, la purezza ideologica o la bomba?”. Naturalmente, fu scelta
la seconda».
Se la fisica e la matematica erano tenute in gran conto, perché allora la politica antisemita?
«Quella
venne dopo, in realtà. Basta pensare che il progettista della bomba
atomica era Khariton, che non solo era ebreo, ma aveva la madre a Tel
Aviv, e suo padre era stato espulso dall’Urss come
controrivoluzionario».
Quando cominciarono i problemi?
«Con il
ritorno al nazionalismo, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Poco prima
della morte di Stalin, nel 1952. Da quel momento le cose andarono avanti
altalenando, tra ondate di antisemitismo e periodi di relativa
tranquillità ».
A parte le paranoie di Stalin, qual era la ragione dell’antisemitismo sovietico?
«Dopo
la sua caduta, il genero di Kruscev gli domandò perché avesse impedito
l’accesso degli ebrei alle migliori università, e lui rispose che le
relazioni con Nasser erano più importanti: probabilmente il suo
antisemitismo fu un effetto interno della sua politica estera. E lo
stesso per Breznev, soprattutto dopo la rottura delle relazioni con
Israele in seguito alla Guerra dei Sei Giorni».
Ma gli accademici come la presero?
«Non
si lasciarono sfuggire l’occasione di occupare i posti di prestigio
degli ebrei. E, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, gli
scienziati e i matematici non ebrei andarono ben oltre quanto gli veniva
richiesto di fare».
A lei, essere ebreo che problemi ha creato?
«Parecchi.
Dopo aver finito le superiori con una medaglia d’oro, non passai
l’esame di ammissione all’università. E in seguito non ebbi mai un posto
all’università, ma solo in un istituto di ricerca: come l’altro ebreo
Grigori Margulis, che vinse una delle due medaglia Fields sovietiche nel
1978, e al quale fu impedito di andare a ritirarla».
Quante medaglie furono vinte invece dopo la caduta dell’Urss?
«Sette.
Siamo al livello degli americani e dei francesi, anche se molti dei
vincitori hanno in realtà studiato all’estero, e sono russi solo di
nascita e cultura».
Lei invece fece il suo lavoro in Urss. Come ci riuscì, nonostante gli ostacoli?
«Io
non sono religioso, e sono ebreo solo di nascita. L’ebraismo non è mai
stato uno dei fattori qualificanti della mia vita, anche se
all’università me l’hanno fatto pesare come se lo fosse. Ma in realtà i
problemi erano con le autorità, più che con i colleghi».
A parte le medaglie Fields, cos’è successo alla matematica dopo la caduta dell’Urss?
«Come
nella termodinamica: il gas si espanse, e quasi tutti i migliori
lasciarono il paese. Negli Stati Uniti successe di nuovo ciò che già era
successo negli anni Trenta con la fuga dal nazismo: tutti i posti
liberi vennero riempiti da gente di altissimo valore, tedeschi in un
caso e sovietici nel secondo, con gravi contraccolpi per l’offerta
interna».
E quelli che rimasero?
«Quando un professore viene
pagato meno di uno spazzino il problema non è soltanto finanziario, ma
anche di dignità personale. E se uno vuole mantenere una famiglia, deve
rivolgersi altrove nel mercato. Qualche giovane che si azzarda a far
ricerca rimane, ma mentre prima tutti quelli brillanti ambivano a
entrare nell’accademia, oggi si tratta solo di eccezioni. A parte quelli
che vanno a studiare all’estero, e che spesso poi ci rimangono».
Lei voleva emigrare già prima del 1989?
«No,
non direi. Sono andato per la prima volta negli Stati Uniti
nell’autunno del 1989, e quando mi offrirono un posto in Wisconsin, la
mia condizione fu di poter stare un semestre lì e uno in Russia. Ma
avevo dei figli piccoli, e tenere un piede da una parte e uno dall’altra
alla fine non mi è sembrato né giusto, né comodo per loro».
E nel 1994 è venuta la medaglia Fields. Cos’è cambiato dopo?
«Parecchio.
Per il primo anno, ho creduto che non avrei più potuto fare matematica:
solo pubbliche relazioni. In seguito, la cosa più difficile è stata
trovarsi di fronte a un problema, e domandarsi se è degno delle
attenzioni di una medaglia Fields: non si va da nessuna parte, in quel
modo, e ho dovuto imparare a non farmi quelle domande».
Ora torna spesso in Russia?
«Ho
cambiato cittadinanza, ed è difficile ottenere un visto per gente come
me. Sono tornato due o tre volte, e non le dirò come ho brigato per
farlo. Ma con Internet sono rimasto in contatto con i miei passati
colleghi, anche senza vederli di persona. E a volte ci incontriamo
all’estero, ai convegni».
E cosa le dicono?
«Che molte cose sono
comunque migliorate: ad esempio, ora c’è una classe media nel paese. Ma
nel passato, nonostante i mobili e gli edifici derelitti, c’era la
percezione di essere al centro dell’universo. Ora, invece, i mobili e
gli edifici sono migliorati, ma la sensazione è di essere finiti alla
periferia dell’impero».
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