venerdì 12 dicembre 2014

Il Meridiano di Valery

Opere scelte
Paul Valéry: Opere scelte, Mondadori pagg. CIII-1771, euro 80

Risvolto
l volume raccoglie una scelta di testi di Valéry suddivisi in sezioni per genere letterario. La poesia è presente con i grandi testi che gli hanno dato fama (Incanti - di cui fa parte il celeberrimo Cimitero marino - e La giovane Parca), un'ampia raccolta delle poesie giovanili (da lui pubblicate con il titolo Album di antichi versi) e una scelta delle poesie ritrovate nella corrispondenza con gli amici: versi finora ignoti, ove l'erotismo si fonde con la tenerezza.


Accanto alla poesia, il Meridiano presenta un campione di prosa poetica (Alfabeto, L'angelo), i grandi dialoghi, il teatro e un'ampia sezione di saggistica - dedicata all'arte, al pensiero astratto, ai problemi concreti del mondo attuale. Ma è la sezione "Modelli e strumenti del pensiero" a delineare il percorso del tutto personale di Valéry: da Monsieur Teste - che fece dello scrittore l'idolo dei surrealisti - al suo particolare Leonardo da Vinci, dall'analisi del funzionamento della mente condotta attraverso i Quaderni, alle riflessioni sulla creatività letteraria che hanno costituito il suo Corso di Poetica al Collège de France, totalmente inedito. Tutte le traduzioni sono nuove. Il ricchissimo apparato critico, che indaga in particolare il processo creativo di Valéry, è firmato da Maria Teresa Giaveri, la studiosa che a Valéry ha dedicato decenni di studi e passione.

Paul Valéry il poeta che inventò l’idea di linkSaggi e versi profetici esce il suo Meridianodi Valerio Magrelli Repubblica 12.12.14
QUELLA di Paul Valéry è la storia di una strana metamorfosi, e il Meridiano che la sua maggiore studiosa italiana, Maria Teresa Giaveri, ha appena curato col titolo Opere scelte ( Mondadori, pagg. 1771, euro 80) non fa che confermarlo nel migliore dei modi, anche grazie a un’ottima squadra di cinque traduttori (Maria Teresa Giaveri, Antonio Lavieri, Massimo Scotti, Paola Sodo e Anita Tatone). Diviso in sei parti, il volume spazia dalla poesia alla prosa poetica.

Dai dialoghi al teatro, con una voce che, dedicata a Modelli e strumenti del pensiero , accoglie alcuni testi posti nel segno di tre “eroi intellettuali”: Monsieur Teste, Leonardo da Vinci e Robinson (proprio quello di Defoe, spiega la Giaveri, trasfigurato in nume tutelare della attività cerebrali). Quanto all’ultima sezione, sulla saggistica, vi ritroviamo ambiti diversi quali pittura, letteratura e estetica, senza dimenticare Attualità e politica . Davvero un bel crogiuolo! Ma come conciliare versi metricamente analoghi a quelli di un Racine, con interventi di taglio geopolitico o sociologico?

Come far convivere nella stessa persona lo studioso di matematica e quello di estetica, il critico letterario e l’esperto di medicina? In verità ci troviamo di fronte a un essere “almeno” doppio, come i mostruosi fauni tanto cari al suo grande maestro, Mallarmé. D’altronde, ultimo erede del simbolismo, Valéry fu anche l’intellettuale capace di prevedere l’avvento della televisione già nel 1928: «Verrà un giorno in cui un tramonto sul Pacifico, o un Tiziano del museo di Madrid, appariranno sul muro della nostra camera in modo altrettanto potente ed illusorio di una sinfonia diffusa via radio. Come l’acqua, il gas o l’energia elettrica, con uno sforzo quasi nullo arrivano nelle case da lontano per rispondere ai nostri bisogni, così saremo alimentati da impulsi visivi o auditivi, che nasceranno o svaniranno a un minimo segno, quasi un cenno». Inoltre, descrivendo un futuro gestito da una “società per la distribuzione di Realtà Sensibile a domicilio”, il poeta si spinge addirittura a preconizzare la moderna nozione di link: « Prima o poi, sarebbe interessante fare un’opera che mostrasse in ognuno dei suoi nodi, la diversità che vi si può presentare alla mente, e tra cui essa sceglie l’unico seguito che sarà offerto nel testo». Comunque, a ben vedere, non c’è da stupirsi troppo, tenendo conto dei suoi vivi interessi scientifici, e di una corrispondenza in cui troviamo, tra i nomi di filosofi e di fisici, quelli di Henri Bergson o Albert Einstein.
Dicevamo però delle mutazioni a cui andò incontro la sua figura. Nel 1896 bastò una sua breve prosa, La serata con Monsieur Teste , per farne la stella dei giovani letterati francesi, destinati a innescare di lì a poco la bomba dada e l’incendio surrealista. André Breton, che in seguito lo volle come testimone di nozze, dichiarò di avere conosciuto quasi a memoria quell’opera, apparsa proprio l’anno della sua nascita. E questo fu solo l’inizio di un successo letterario e mondano dai particolarissimi risvolti. Dopo quasi un ventennio di apparente silenzio, tra il 1917 e il 1920 apparvero infatti una serie di poemetti che abbagliarono alcuni fra i massimi poeti europei, Ungaretti, Rilke e Guillén, che di lì a poco ne diverranno anche i traduttori. Dopo LaGiovane Parca, fu soprattutto il Cimitero marino che impose Valéry agli occhi del mondo: «Non è forse la poesia più famosa del nostro tempo?», si chiedeva ad esempio, ancora nel 1957, uno storico dell’arte come Cesare Brandi.
Le trasformazioni, tuttavia, non erano finite. In certo modo, nemmeno l’autore di quegli abbaglianti alessandrini o decasillabi corrisponde allo stesso che leggiamo oggi. Ad esso, infatti, è andato sostituendosi un nuovo, per così dire “terzo”, Valéry. Sia chiaro, dopo le delusioni subite da Breton e compagni (che videro con orrore il proprio idolo volgersi al classicismo), non mancarono i detrattori della poesia valeriana. Basti citare Nathalie Sarraute, Cioran, Gombrowicz o Bonnefoy, radicalmente contrari a una versificazione rimata, anacronistica e aliena come un “meteorite”. Tuttavia, lo si è detto, ormai tali reazioni appaiono, sotto molti aspetti, datate, poiché dopo la morte dello scrittore è emerso un continente sconosciuto, un’autentica Atlantide letteraria.
Mi riferisco agli ormai leggendari Quaderni , delle cui venticinquemila pagine esiste un’edizione fotografica in 29 volumi, mentre sta lentamente uscendo un’edizione critica integrale (Adelphi ne ha pubblicato una scelta in cinque volumi). Se si pensa che, secondo molti critici, l’insieme di questi testi costituisce l’impresa suprema di Valéry, è facile capire quanto sfocati risultino i giudizi finora formulati. È un po’ come parlare della Francia senza aver visitato Parigi...
Di cosa si tratta? Immaginate una specie di diario mentale, o meglio, un laboratorio autocognitivo approntato, mattina dopo mattina, nel corso di mezzo secolo. Gran parte dei Cahiers fu composta all’alba, da un “pensatore mattiniero” che ricorreva a innumerevoli tazze di caffè (vedi Balzac).
Dopo quelle poche ore di assoluta concentrazione, Valéry rivendicava il diritto di essere stupido per tutto il resto del giorno. «Amo il pensiero come altri amano il nudo, che disegnerebbero per tutta la vita», leggiamo in un suo aforisma. Ma a parte queste vere folgorazioni («Il ciclone può distruggere una città [..] ma non riuscirà mai a sciogliere un nodo»), i Cahiers , nota la Giaveri, sono soprattutto uno strumento gnoseologico: “esercizio spirituale” secondo l’esempio di Ignazio di Loyola, “ginnastica” come per un atleta, “dressage” come per il cavallo Gladiator, o danza, scherma, scacchi – insomma, l’occasione per un processo di perfezionamento personale. Per questo sembra giusto terminare con il breve, toccante necrologio di Borges: «Yeats, Rilke e Eliot hanno composto versi più memorabili […] Joyce e Stefan George hanno compiuto modificazioni più profonde nel loro strumento linguistico; ma dietro l’opera di quegli eminenti artefici, non c’è una personalità paragonabile a quella di Valéry».

Pensiero stupendo Rinnovare le idee col metodo Valéry
Eclettico, libero, leonardesco: l'intellettuale che cambia il mondo non cresce in accademiaMarcello Veneziani - il Giornale Dom, 04/01/2015

Paul Valéry, il mondo è un cristallo in versi
Un filo rosso percorre tutti gli scritti del poeta francese: la ricerca di una sintesi tra arte e conoscenza scientificadi Federico Vercellone La Stampa TuttoLibri 14.2.15
A più riprese il nostro tempo si è richiamato alla necessità di superare le due culture, di realizzare una sintesi fruttuosa di arte e scienza. Un grande antesignano di questo cammino, quasi un veggente in grado di scrutare in epoca remota questo nuovo orizzonte è stato Paul Valéry del quale viene ora pubblicato un pregevolissimo Meridiano Mondadori a cura di Marina Giaveri. Ne va qui, fra l’altro, di un pensiero che riflette sulla natura poietica della tecnica, suggerendoci così di proseguire per conto nostro sino a oggi, e cioè sino alla presenza dominante e tuttavia quanto mai affabile delle tecniche digitali.
Il percorso di Valéry è così oggi, e sotto ogni aspetto, quanto mai significativo. Egli sembra affrontare in controtendenza, con sguardo di veggente, un’epoca attraversata da una crisi di valori profonda che leverà dolente le proprie antenne sensibili dapprima nell’arte simbolista e poi nella grande cultura filosofica e sociologica della crisi dei primi decenni del ventesimo secolo.
In questo quadro la crisi personale attraversata dal Valéry ventenne nel 1892 assume i toni di una vera e propria conversione evangelica. Consapevole della debolezza della propria vocazione e delle proprie capacità letterarie, Valéry rinnova il proprio cammino in direzione di un’arte di ispirazione gnoseologica, volta cioè a riattivare il nesso arte-conoscenza. E’ questo probabilmente il filo rosso più evidente che attraversa questa silloge di Opere scelte. Essa contempla in modo esauriente la produzione di Valéry dalla poesia (dagli Album d’antichi versi, agli Incanti, alle Poesie sparse), per venire alla prosa poetica, a Monsieur Teste e all’insegnamento di Poetica al Collège de France, ai dialoghi, tra cui spicca il famoso Eupalinos o L’architetto, al teatro, ai saggi di pittura (Degas, Manet, Berthe Morisot, la prefazione al catalogo di arte italiana), alla letteratura (dalla Fedra di Racine a Mallarmé), all’estetica e alla poetica e ai temi di politica e di attualità.
A proposito di questo quadro tanto mosso e pur così ben composto di un’attività molteplice che si sviluppa su molti piani correlati viene da riprendere quanto Valéry afferma nel Discorso in onore di Goethe definito PATER ÆSTHETICUS IN ÆTERNUM. Goethe è colui il quale è in grado di realizzare, con ritmo volutamente lento, un’opera grandiosa che racchiude in sé le più diverse sfere dell’essere e del sapere. Egli «visse tutto il tempo che era necessario per sperimentare più di una volta ognuna delle molle del suo essere; per farsi di sé molte e diverse idee, di cui disfarsi per riconoscersi sempre più grande». Entriamo così nell’ambito di un pensiero fondamentalmente dialogico. L’io è sempre un noi, un dialogo costante che procede non deduttivamente, ma sulla base dell’analogia, come fra l’altro si ricava dall’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. L’analogia si affida al linguaggio delle immagini e scopre nella struttura intima dell’oggetto relazioni segrete tra esseri all’evidenza profondamente diversi. Essa attraversa dunque i campi del sapere, e va al di là di ogni artificiosa divisione tra le scienze per rinnovare il legame misterioso che attraversa le forme del mondo. Non c’è dunque, né potrebbe darsi mai un sistema esaustivo; se ne possono edificare bensì molti a seconda delle relazioni che si vengono a rilevare e a creare. Lo spirito di sistema cede dunque il passo a una logica poetica che è anche una logica poietica: essa crea il sapere non descrivendo il mondo ma insediandosi nel processo del suo stesso farsi. Dice Valéry: «Il segreto, quello di Leonardo come quello di Bonaparte, come quello che talora possiede un’intelligenza sovrana, risiede, e non potrebbe essere che così, nelle relazioni che essi hanno trovato – che sono stati costretti a trovare – tra elementi la cui legge di continuità ci sfugge».
Abbiamo così a che fare con un pensiero sintetico e dunque simbolico che si immerge nelle sorprendenti regolarità del mondo. «Il mondo» - scrive Valéry - «è irregolarmente disseminato di disposizioni regolari. Fra queste i cristalli; i fiori, le foglie; ornamenti scanalati, pellicce maculate, ali, conchiglie; tracce del vento sulla sabbia e sulle acque ecc.». E’ una geniale anticipazione della teoria della complessità venuta poi a svilupparsi, in particolare nella filosofia della scienza, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. E’ un pensiero che rifiuta dunque la specializzazione per inseguire le ramificazioni di senso delle cose. E’ un pensiero poetico che conosce e sperimenta le gioie del costruire come un essere l’edificio della conoscenza, che pone dunque al centro della riflessione estetica l’architettura. Per quanto riguarda quest’ultimo versante è in gioco un ampliamento gigantesco dei confini della disciplina filosofica che non indagherà più semplicemente i principi del bello e dell’opera d’arte, ma quelli della strutturazione sensibile e oggettiva del mondo fornitaci dalle diverse scienze e, in particolare, dalla fisica.


Valéry nume della nostra modernità
Nel periodo fra le due guerre, Il cimi­tero marino era pro­ba­bil­mente la poe­sia con­tem­po­ra­nea più cele­bre in Europa; il suo autore, Paul Valéry, senz’ombra di dub­bio l’intellettuale più omag­giato del con­ti­nente. Per­fino una sua rac­colta di arti­coli sul pre­sente, gli Sguardi sul mondo attuale, com­po­sta di pezzi d’occasione per lo più pen­so­sa­mente super­fi­ciali (e alquanto rea­zio­nari: non manca un elo­gio dell’Idea di dit­ta­tura, ispi­rato da un libro d’interviste di Sala­zar, e datato sini­stra­mente 1934), ha potuto essere per anni, in Fran­cia, poco meno che un best seller.
Vate incen­sato, maî­tre à pen­ser, emblema del ritorno all’ordine dopo il car­ne­vale delle avan­guar­die, l’uomo che per più di vent’anni si era quasi com­ple­ta­mente negato alla parola pub­blica, con­cen­tran­dosi sul quo­ti­diano eser­ci­zio di autoa­na­lisi affi­dato alla scrit­tura pri­vata dei Qua­derni, sale improv­vi­sa­mente con La gio­vane Parca, nel 1917, al rango di poeta uffi­ciale; e si costringe fino alla morte, avve­nuta nel 1945, a ali­men­tare, con rare pub­bli­ca­zioni poe­ti­che – per l’essenziale, la rac­colta Char­mes (Incanti), del 1922 – e innu­me­re­voli inter­venti di cir­co­stanza, spesso su com­mis­sione, la figura mum­mi­fi­cata del clas­sico vivente.
Oggi, i versi di Paul Valéry sono cer­ta­mente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti lau­reati del Nove­cento euro­peo. Li con­danna con poche ecce­zioni all’obsolescenza, se non addi­rit­tura all’illeggibilità, pro­prio quell’ambizione di coniu­gare la moder­nità di un lin­guag­gio poe­tico intran­si­tivo e l’impeccabile ver­si­fi­ca­zione del grand siè­cle (Racine redi­vivo!), pro­prio quell’innesto siste­ma­tico di oscu­rità mal­lar­meana e di ful­gido for­ma­li­smo clas­si­ci­sta che a suo tempo ne giu­sti­ficò la cano­niz­za­zione, ad opera del cena­colo raf­fi­nato (e spesso miope) della «Nou­velle Revue Fra­nçaise». Un altro clas­si­ci­smo, quello moder­ni­sta e para­dos­sale di Eliot e di Mon­tale, capace di riscat­tare poe­ti­ca­mente le rovine della sto­ria e gli oggetti poveri della quo­ti­dia­nità, nutrirà quel che conta della poe­sia del Nove­cento (e oltre); non avranno domani, invece, la cen­sura di ogni con­tin­genza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno, delle sue occa­sioni e soprat­tutto «della massa» che la popola, l’epurazione les­si­cale di ogni sco­ria con­ta­mi­nata dal tempo umano, i capi­saldi, insomma, della poe­tica degli Incanti. A rileg­gerla oggi, la stron­ca­tura sba­raz­zina di Natha­lie Sar­raute, che fece scan­dalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tra­dotto da Einaudi nel 1988, oggi pur­troppo esau­rito), sem­bra addi­rit­tura ovvia.
Eppure, uno stesso punto di par­tenza sto­rico e teo­rico acco­muna l’autore della Gio­vane Parca e i poeti mag­giori del primo Nove­cento: la con­vin­zione con­tro­in­tui­tiva, che Valéry meglio di chiun­que altro ha saputo espri­mere in un sag­gio memo­ra­bile su Bau­de­laire, che «ogni clas­si­ci­smo pre­sup­pone un roman­ti­ci­smo ante­riore», per­ché «l’essenza del clas­si­ci­smo è di venir dopo», e «l’ordine pre­sup­pone un certo disor­dine che esso ha il com­pito di ridurre». Idea di cui si appro­pria tem­pe­sti­va­mente, in Ita­lia, un ammi­ra­tore e emulo di Valéry – poe­ti­ca­mente, dicia­molo pure, assai più dotato di lui – Giu­seppe Unga­retti, per moti­vare la svolta restau­ra­trice che dall’Allegria con­duce a Sen­ti­mento del tempo. Come per Bau­de­laire l’effusione sen­ti­men­tale dei roman­tici è al tempo stesso pre­sup­po­sto impre­scin­di­bile e oggetto di pole­mico rifiuto, così la rot­tura avan­guar­di­sta, lo scar­di­na­mento delle forme tra­di­zio­nali, lo sber­leffo all’istituzione let­te­ra­ria sono ine­lu­di­bile pie­tra di para­gone (per emu­la­zione o per anti­tesi) di ogni poe­sia che si voglia, negli anni imme­dia­ta­mente suc­ces­sivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.
La con­sa­pe­vo­lezza di «venir dopo», appunto, è il pri­mum della scrit­tura: solo il pro­vin­cia­li­smo dei nostri erme­tici potrà rimuo­verla tout court, nella vel­leità di una poe­sia sedi­cente pura. I moder­ni­sti la inte­grano invece, que­sta con­sa­pe­vo­lezza, nella sostanza stessa dei testi: così nella poe­tica del cor­re­la­tivo ogget­tivo; così nella rifra­zione degli ete­ro­nimi in Pes­soa; così nell’ostentata, arte­fatta natu­ra­lezza di Saba (gli esempi, diver­sis­simi e con­ver­genti, si potreb­bero mol­ti­pli­care). Valéry segue un per­corso diverso: espunge quasi ogni river­bero di crea­tu­rale impu­rità dai suoi rari, algidi versi, peral­tro sem­pre mira­bili per levi­gata fat­tura, e affida al con­tra­rio alla prosa sag­gi­stica, e più ancora alle pagine tor­men­tate dei Qua­derni, una rifles­sione inquieta e spre­giu­di­cata, che ha tratti di ver­ti­gi­noso acume e di asso­luta moder­nità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schi­zo­fre­nia: come se rifiu­tasse di spez­zare il cri­stallo polito della metrica rego­lare, il vieto simu­la­cro del bello tra­di­zio­nale, pur rico­no­scen­done l’intima, inso­ste­ni­bile vacuità di «pic­colo monu­mento forse fune­bre», fatto delle «parole più pure» e della «forme più nobili» della lin­gua fran­cese – e non senza intuire, forse, che i suoi con­fusi bro­gliacci avreb­bero tro­vato gra­zia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.
Per que­sto con­viene salu­tare con gra­ti­tu­dine il lavoro immenso che ha con­sen­tito a Maria Teresa Gia­veri di offrire, per la prima volta in Ita­lia, e con cura edi­to­riale impec­ca­bile, una cor­posa sil­loge di Opere scelte («I Meri­diani», Mon­da­dori, pp. CIII + 1782, euro 80,00), capace di resti­tuire, in sei ampie sezioni (Poe­sia, Prosa poe­tica, Modelli e stru­menti del pen­siero, Dia­lo­ghi, Tea­tro, Saggi: tra­du­zioni tutte rigo­ro­sa­mente nuove), l’immagine com­plessa e sfac­cet­tata di uno scrit­tore molto diverso da quello cano­niz­zato negli anni trenta e, al con­tra­rio di quello, in parte ancora incon­te­sta­bil­mente vivo: non solo (non tanto) nella levi­gata len­tezza, pun­teg­giata di squarci illu­mi­nanti, dei dia­lo­ghi socra­tici (in spe­cie i cele­ber­rimi Eupa­li­nos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprat­tutto) nella prosa gio­va­nile di Mon­sieur Teste e nello ster­mi­nato can­tiere dei Qua­derni: al tempo stesso tra­boc­cante zibal­done di pen­sieri e asce­tica gin­na­stica della mente, cui sono dedi­cate ogni mat­tina le ener­gie più fre­sche; e, ancora, nella ten­den­ziosa luci­dità dei saggi let­te­rari, che costrui­scono una genea­lo­gia della lirica moderna con cui rimane ine­vi­ta­bile fare i conti (la linea Bau­de­laire, Mal­larmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazio­nale angu­sta – que­sto scrit­tore come pochi inti­ma­mente franco-francese (ancor­ché di ori­gini ita­liane per parte di madre, e di costumi cosmo­po­liti) elegge a testa di turco un roman­ti­ci­smo sen­ti­men­tale di cui fa mostra d’ignorare la com­ples­sità filo­so­fica svi­lup­pata oltre Reno.
Di Valéry, dun­que, reg­gono oggi soprat­tutto i Qua­derni: eser­ci­zio di scrit­tura inau­gu­rato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incri­nata – fra le amba­sce della cele­bre notte di Genova, e non solo – la fidu­cia nel pla­to­ni­smo del mae­stro rive­rito, Sté­phane Mal­larmé, e nella pos­si­bi­lità, per la parola poe­tica, di attin­gere l’ideale. L’interesse della ricerca si con­cen­tra ormai sui mec­ca­ni­smi di fun­zio­na­mento della mente; il valore della scrit­tura diventa mera­mente gno­seo­lo­gico: non più l’opera per­fetta, ma la cono­scenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mal­larmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filo­so­fia della com­po­si­zione vota un auten­tico culto. Rari gli altri inter­lo­cu­tori di que­sto auten­tico «Robin­son intel­let­tuale», che sfiora l’egotismo for­giando di volta in volta i con­cetti di cui si serve, e fin­gendo di igno­rare il con­tem­po­ra­neo dibat­tito cul­tu­rale – i rife­ri­menti alle scienze esatte sono più pre­gnanti di quelli al dibat­tito filo­so­fico o let­te­ra­rio. E, di qua­derno in qua­derno, deli­nea, con pun­ti­glioso rigore razio­nale, l’abbozzo di una dot­trina della crea­zione arti­stica, per poi offrirne un com­pen­dio, a par­tire dal 1937, nel corso di Poe­tica al Col­lège de France, di cui Gia­veri regala al let­tore ita­liano la tra­du­zione di tre lezioni (due ine­dite anche in fran­cese).
Quella dei Qua­derni è una nebu­losa di appunti, afo­ri­smi, for­mu­la­zioni par­ziali che non tro­vano mai (e pro­ba­bil­mente non pote­vano tro­vare) defi­ni­tiva siste­ma­zione; ma pochi altri testi con­ten­gono un insieme più fecondo di intui­zioni dispa­rate, capaci di nutrire gli studi let­te­rari (e non solo) dei decenni a venire. Il cata­logo è impres­sio­nante (e incompleto).

Il for­ma­li­smo e lo strut­tu­ra­li­smo degli anni ses­santa e set­tanta, pre­ve­di­bil­mente, hanno potuto vedere in Valéry un pre­cur­sore – al punto che le due rivi­ste pari­gine più signi­fi­ca­tive di quella sta­gione, «Tel Quel» e «Poé­ti­que», gli sono debi­trici del titolo. Il ruolo rico­no­sciuto, nella genesi del testo let­te­ra­rio, a «non so qual pre­sen­ti­mento delle rea­zioni esterne», e la con­sa­pe­vo­lezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella con­creta sin­go­la­rità della let­tura («è l’esecuzione della poe­sia che è poe­sia»), anti­ci­pano – ed era cosa molto meno scon­tata – le tesi della cri­tica della ricezione.
La volontà di pro­muo­vere la «fab­bri­ca­zione dell’opera» a «cosa prin­ci­pale» (per­ché «fare una poe­sia è poe­sia»), lo stu­dio instan­ca­bile dei pro­cessi men­tali che pre­sie­dono alla crea­zione arti­stica (intesa («come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita inte­rior­mente», e anche il fascino per i mano­scritti del pas­sato (di Sten­d­hal, di Hugo), lo pre­di­spo­ne­vano a diven­tare il nume tute­lare, oltre che un oggetto d’indagine pri­vi­le­giato, della cri­ti­que géné­ti­que (ver­sione fran­cese, teo­ri­ca­mente più agguer­rita, della nostrana cri­tica delle varianti e degli scar­ta­facci). Infine, l’odierna voga degli studi cogni­tivi può tro­vare sti­molo e riscon­tro in quell’instancabile autoa­na­lisi del pen­siero, e dei suoi più sot­tili mec­ca­ni­smi, che sem­bra fare dell’impresa intel­let­tuale di Paul Valéry il rove­scio difen­sivo, ma non per que­sto meno gran­dioso, dell’opera di Sig­mund Freud.
Per­ché dav­vero, come l’avanguardia è l’implicito anti­mo­dello della sua poe­sia, così la psi­coa­na­lisi pare il rimosso – o, se si pre­fe­ri­sce, il ber­sa­glio nasco­sto – della sua per­so­nale filo­so­fia della mente: che dei sogni, della memo­ria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei mec­ca­ni­smi psi­chici, cerca osti­na­ta­mente di descri­vere il fun­zio­na­mento facendo eco­no­mia di ogni ipo­tesi di incon­scio.
Una postura intel­let­tuale, que­sta, che non poteva non entrare in rotta di col­li­sione con il movi­mento sur­rea­li­sta, a lungo ege­mone sulla scena let­te­ra­ria fran­cese; ma che sul medio e lungo periodo si è rive­lata più pro­dut­tiva dell’opera in versi anche in ter­mini di discen­denza let­te­ra­ria, come mostra bene un esem­pio ita­liano. È infatti alle prose e ai Qua­derni, assai più che agli Incanti, che ha guar­dato un poeta come Vale­rio Magrelli: non solo nel sag­gio einau­diano che ha dedi­cato all’autoscopia di Mon­sieur Teste e alla ripresa del mito di Nar­ciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nei temi e nelle forme delle rac­colte in versi degli anni ottanta.

I due epi­sodi mag­giori della rice­zione ita­liana di Valéry – Unga­retti e Magrelli, appunto – dise­gnano esem­plar­mente il destino di un’opera: da monu­men­tale cau­zione di un irri­gi­di­mento clas­si­ci­sta a sti­molo semi­nale, e disperso nell’infinibilità del work in pro­gress, di un’autorappresentazione fluida, meta­mor­fica, apo­re­tica. Anche se poi quell’«Inesausta volontà di auto­co­stru­zione», che dà il titolo all’elegante intro­du­zione di Maria Teresa Gia­veri, quel rifiuto di ogget­ti­vare sé stesso nella mate­ria­lità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io fac­cio la mia mente»), quel subor­di­nare la cono­scenza e la scrit­tura stessa alla tra­sfor­ma­zione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in defi­ni­tiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stu­pe­fa­cente, quasi situa­zio­ni­sta moder­nità, per un altro – ancora un para­dosso – affonda le sue radici nell’humus del dan­dy­smo fin de siè­cle, si ammanta di pre­tese este­tiz­zanti, e insomma rivela inso­spet­ta­bili paren­tele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pac­chiano vate: ovvia­mente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Gio­vane Parca non manca di ren­der visita e omaggi.
Per l’allievo più dotato dello schivo Mal­larmé, del poeta moderno più auten­ti­ca­mente alieno da esi­bi­zio­ni­smo, per il poeta meta­fi­sico che nel finale del Cimi­tero marino ha offerto un pre­coce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il cele­bre «Le vent se lève!… il faut ten­ter de vivre», che nella tra­du­zione di Gia­veri suona (svan­tag­gio­sa­mente infe­dele): «S’alza il vento!… Affron­tiamo la vita» – pare l’ennesima iro­nia della sorte.

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