lunedì 12 gennaio 2015

Ancora su "L'uso dei corpi" di Agamben

L'uso dei corpiLeggi anche qui (Gnoli) e qui (Negri)


La vita è forma e si genera vivendo 
Filosofia. Da vent’anni Giorgio Agamben ha esibito, e poi sciolto, le relazioni fondamentali dell’ontologia politica. Qui, dove vita e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere sono tutt’uno, l’opera coincide con l’inoperosità

Andrea Cavalletti, 28.12.2014 

Chiu­dendo nel 2011 Altis­sima povertà (il volume IV, 1 della grande opera Homo sacer), Gior­gio Agam­ben evi­den­ziava la gran­dezza e i limiti della regola fran­ce­scana: una forma di esi­stenza che situan­dosi fuori dal diritto, rifiu­tando la pro­prietà in nome dell’uso, defi­niva tut­ta­via l’uso ancora rispetto al diritto, in maniera uni­ca­mente nega­tiva. Era infatti man­cata al fran­ce­sca­ne­simo «una defi­ni­zione dell’uso in se stesso», che veniva infine con­ce­pito dai suoi difen­sori come una serie di atti di rinun­cia. Agam­ben si con­ge­dava dun­que dal let­tore lasciando aperta la duplice domanda: «Come potrebbe dav­vero un uso tra­dursi in un ethos e in una forma di vita? E quale onto­lo­gia e quale etica cor­ri­spon­de­ranno a una vita che, nell’uso, si costi­tui­sce come inse­pa­ra­bile dalla sua forma?». 
L’altro libro del 2011, Opus dei (Homo sacer, II, 5), un’indagine archeo­lo­gica del para­digma ope­ra­tivo, dell’ufficio e (nella loro intima con­nes­sione) della volontà e del comando – ossia di quell’apparato con­cet­tuale che da Ari­sto­tele a Kant ha infor­mato l’intera cul­tura occi­den­tale – accen­nava, nelle bat­tute finali, al pros­simo oriz­zonte di ricerca: «Il pro­blema della filo­so­fia che viene è quello di pen­sare un’ontologia al di là dell’operatività e del comando e un’etica e una poli­tica del tutto libe­rate dai con­cetti di dovere e volontà». Le indi­ca­zioni dei due libri erano dun­que rigo­ro­sa­mente con­ver­genti: l’ethos final­mente affran­cato dalla volontà e dal dovere coin­cide con la forma di vita, e que­sta non è che uso, può essere cioè con­ce­pita solo ela­bo­rando un’ontologia della non ope­ra­ti­vità. Già in Homo sacer, I (1995), d’altra parte, Agam­ben usava i trat­tini per scri­vere forma-di-vita, nomi­nando così un «essere che è solo la sua nuda esi­stenza, una vita che è la sua forma e resta inse­pa­ra­bile da essa», e che si potrebbe pen­sare al di là della distin­zione ari­sto­te­lica fra potenza e atto, della par­ti­zione clas­sica fra zoè e bios, o del bando sovrano che separa e detiene la nuda vita. La ricerca ven­ten­nale poteva ora giun­gere a com­pi­mento, coin­ci­dere cioè con la «defi­ni­zione dell’uso in se stesso». 
L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, pp. 366, euro 18,00) risponde alle attese con la forza diri­mente del capo­la­voro. È, que­sto nono e ultimo volume, un libro con cui sarà d’ora in poi neces­sa­rio – anche se non facile – misu­rarsi, non solo per­ché, per ric­chezza, eru­di­zione e chia­rezza spe­cu­la­tiva si impone nel pano­rama filo­so­fico di que­sto tempo, ma per­ché dav­vero dischiude una nuova dimen­sione del pen­siero men­tre resti­tui­sce – con buona pace della «potenza costi­tuente», cioè delle isti­tu­zioni e del governo – tutta la serietà dell’anarchia (intesa in senso filo­so­fico e poli­tico insieme).
Quella vita che è solo la sua nuda esi­stenza, la vita che appunto il diritto esclude e cat­tura, la vita ban­dita e sacra (insa­cri­fi­ca­bile, spie­gava già Agam­ben andando oltre Keré­nyi, nel senso che può essere uccisa senza com­met­tere omi­ci­dio), si pre­senta all’inizio del nuovo lavoro in una frase di Guy Debord: «cette clan­de­sti­nité de la vie pri­vée sur laquelle on ne pos­sède jamais que des docu­ments déri­soi­res». È la vita cor­po­rea, sepa­rata da noi come lo è un clan­de­stino e insieme inse­pa­ra­bile, pro­prio come non si separa da noi colui che «con­di­vide nasco­sta­mente con noi l’esistenza». Certo, rispetto all’ultimo Fou­cault, che aveva pen­sato la sot­tra­zione del corpo, in nome del pia­cere, ai mec­ca­ni­smi di potere della ses­sua­lità, Agam­ben aveva espresso le pro­prie riserve osser­vando che il corpo è per noi «già sem­pre preso in un dispo­si­tivo … già sem­pre corpo bio­po­li­tico e nuda vita». 
Ma l’accento batte qui sull’uso, che si tratta di iso­lare, strap­pan­dolo alla sua assi­mi­la­zione all’atto, alla pro­du­zione, all’opera. Ora, un puro uso del corpo era stato con­ce­pito dalla cul­tura clas­sica nella figura e nell’attività dello schiavo che, spiega Agam­ben, non è inter­pre­ta­bile secondo una nozione di lavoro tanto impli­cita e ovvia per noi quanto ignota ai Greci. L’operaio potrà anche essere schia­viz­zato, ma lo schiavo non è un ope­raio. Il suo corpo, diceva Ari­sto­tele, è uno stru­mento, ma non pro­duce come il plet­tro o la spola un’opera sepa­rata dal suo uso; è piut­to­sto uno stru­mento pra­tico, simile cioè a una veste e a un letto, che sol­tanto si usano. Impro­dut­tivo, e pres­so­ché privo di virtù, quest’uomo-suppellettile è così l’escluso dalla vita poli­tica che rende pos­si­bile agli altri di essere liberi, inte­ra­mente poli­tici, vera­mente umani. 
Si rico­no­sce lo schema tipico dell’esclusione inclu­dente, o dell’«eccezione» – nel senso che Agam­ben ha dato a que­sto ter­mine. Ma pro­prio per que­sto, secondo un gesto teo­rico anch’esso tipico e com­ple­men­tare, «lo schiavo rap­pre­senta la cat­tura nel diritto di una figura dell’agire umano che ci resta ancora da delibare». 
L’indagine si stringe dun­que sul verbo chre­sthai: usare (che infatti non può reg­gere l’accusativo) indica nel suo signi­fi­cato più pro­prio (cioè mediale) non una rela­zione di un sog­getto con un oggetto este­riore ma la rela­zione che si ha con se stessi. La dif­fe­renza da Fou­cault è ora segnata sot­til­mente: è vero infatti che in una lezione famosa del corso del 1982, L’ermeneutica del sog­getto, la nozione pla­to­nica, ma anche stoica, di chre­sis, veniva resti­tuita al suo senso più ampio e vario (com­por­ta­mento, con­te­gno, atti­tu­dine) e inter­pre­tata nel segno della «cura di sé» e del sog­getto: chi ha cura di sé, inse­gnava Fou­cault, si occupa di se stesso come sog­getto della chre­sis, cioè di com­por­ta­menti, atti­tu­dini e così via. Ma se già la chre­sis, secondo la distin­zione acuta di Agam­ben, è un «rap­porto con sé», essa com­porta uno spo­sta­mento essen­ziale al di là della dimen­sione del soggetto. 
Non c’è più un sog­getto della chre­sis di cui occu­parsi, ma solo uso, solo rap­porto con sé e nes­sun sé come sog­getto. Qui Agam­ben potrebbe sem­brare vicino a Hei­deg­ger, secondo il quale l’espressione Selbstsorge (cura di sé) – che segna dall’antichità la com­pren­sione pre-ontologica del sog­getto – è solo una tau­to­lo­gia, poi­ché l’Esserci è già sem­pre alle prese con se stesso (Essere e tempo, § 40). Ma mai il suo con­fronto col mae­stro dei semi­nari di Le Thor è stato così cri­tico e ser­rato come in que­sto libro. Pro­prio il modo in cui Hei­deg­ger pri­vi­le­gia la cura e descrive l’uso, assi­mi­lan­dolo all’energeia, dimo­stra secondo Agam­ben che egli non è uscito dalla cor­nice ari­sto­te­lica. «Defi­nire l’uso in sé stesso» signi­fica invece pen­sare un uso della potenza che non è sem­plice pas­sag­gio all’atto. Signi­fica lavo­rare sulle nozioni di hexis, habi­tus, abi­tu­dine, distin­guere, oltre la cop­pia potenza/atto, un «uso abi­tuale»: se Glenn Gould è un pia­ni­sta anche quando non suona, non lo è in quanto «tito­lare o padrone della potenza di suo­nare, che può met­tere o non met­tere in opera», ma per­ché non cessa mai di essere colui che ha l’uso del piano, «vive abi­tual­mente l’uso di sé» come pia­ni­sta. L’uso non è un’attività, ma una forma-di-vita.
Per que­sto la seconda, ric­chis­sima parte del libro, muove nella dire­zione che Hei­deg­ger ha intra­vi­sto senza poter seguire: Agam­ben vi intra­prende dap­prima una accu­rata archeo­lo­gia del «dispo­si­tivo ari­sto­te­lico», onto­lo­gico e insieme lin­gui­stico, che ogni volta isola il sog­getto scin­dendo essenza ed esi­stenza, per adden­trarsi poi nel campo ancora ine­splo­rato dell’«ontologia modale». Se una volta il pen­siero moderno si è spinto fino a que­sto ter­ri­to­rio, è stato nel car­teg­gio tra Leib­niz e Des Bos­ses e con quel con­cetto a cui Leib­niz ha dato il nome («inat­tendu et énig­ma­ti­que» dirà Char­les Blon­del) di vin­cu­lum sub­stan­tiale. Caduto – con l’eccezione note­vole di Maine de Biran – in un cono d’ombra per tutto l’Ottocento, il vin­cu­lum, che per Leib­niz uni­sce la mol­te­pli­cità bru­li­cante delle monadi in una sola sostanza, è stato risco­perto nel 1930 appunto da Blon­del (in chiave anti­kan­tiana), poi dallo sto­rico Alfred Boehm e in tempi più vicini da Gil­les Deleuze, che gli ha affi­dato un ruolo chiave nel pas­sag­gio dall’ontologia clas­sica alla sua «filo­so­fia dell’avere». 
L’originale stra­te­gia di Agam­ben punta invece sul ter­mine «esi­genza»: se il vin­colo, come diceva già Leib­niz, esige le monadi, pro­prio l’esigenza dev’essere ora sosti­tuita alla sostanza come con­cetto cen­trale dell’ontologia. L’essere non si appro­pria dei modi d’essere, ma li esige, ossia si dispiega in essi, non è altro che le sue modi­fi­ca­zioni. La vita non è che la sua forma e la forma – secondo la bella espres­sione di Vit­to­rino – si genera vivendo. Tutte le oppo­si­zioni (esistenza/essenza; potenza/atto… ) su cui si era costruita la tra­di­zione meta­fi­sica ven­gono così revo­cate, e con esse anche tutte le par­ti­zioni su cui, con un pro­getto cor­ri­spon­dente, la filo­so­fia poli­tica ha nei secoli inne­scato e nutrito il dispo­si­tivo della sovra­nità (nuda vita/ potere; oikos/ polis; violenza/ ordine; moltitudine/ popolo). 
Nella forma-di-vita, nella vita che si forma o genera vivendo, zoè e bios non sono più in una rela­zione oppo­si­tiva, ma «si con­trag­gono l’una sull’altra», entrano in con­tatto. Agam­ben riprende que­sta parola da Gior­gio Colli, e nel suo signi­fi­cato tec­nico: il con­tatto è «un vuoto di rap­pre­sen­ta­zione» (dove rap­pre­sen­ta­zione signi­fica a sua volta, per Colli, «una sem­plice rela­zione»). Ora, Homo sacer, I inse­gnava che la forma pura del rap­porto è il bando sovrano. Giun­gere, nell’uso o nel con­tatto, ad di là della rela­zione, vuol dire per­ciò oltre­pas­sare dav­vero una soglia ontologico-politica, pen­sare insieme l’essere e la poli­tica non più come rap­porto o rappresentanza. 
Coe­ren­te­mente, quindi, l’ultima parte della ricerca – che è anche una rica­pi­to­la­zione dell’intero dise­gno di Homo sacer – pro­pone una «Teo­ria della potenza desti­tuente». Che cos’è infatti l’uso come potenza non più subor­di­nata all’atto, ormai sciolta dall’energeia ? Senz’opera, senza pro­du­zione, non lavoro né paresse, è la costante disat­ti­va­zione della mac­china onto­lo­gica, è la potenza che svela, espone e neu­tra­lizza tutte oppo­si­zioni col­la­bo­ranti. E se la filo­so­fia, secondo il motto di Kojève che Agam­ben ama ricor­dare, è quel discorso che par­lando di qual­cosa parla anche del fatto che sta par­lando, desti­tuente è pro­prio que­sta ven­ten­nale ricerca. 
Con l’acribia del filo­logo e l’acume del teo­rico, l’autore di Homo sacer non ha fatto che esi­bire e scio­gliere, da vent’anni a que­sta parte, le rela­zioni fon­da­men­tali dell’ontologia poli­tica. E qui, dove vita e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere non si distin­guono più, l’opera chia­mata Homo sacer coin­cide con l’inoperosità. 
Al di là del sog­getto, e dei prin­cipi del dovere, della volontà, al di là del comando, del bando sovrano o del vin­colo tra potere costi­tuente e potere costi­tuito, lì dove non vi sono più isti­tu­zioni né governi, oltre la bio-politica, si può final­mente nomi­nare la vera anar­chia. Modo o forma-di-vita, que­sta sol­tanto «si libera come con­tatto»: disat­ti­vando il dispo­si­tivo che la trat­tiene, cioè «con la lucida espo­si­zione» della stessa ano­mia o «anar­chia interna al potere».

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