venerdì 9 gennaio 2015

Il punto sulla guerra tra bande nel PD

I conti del capo del governo sui franchi tiratori: sono al massimo 150
Dal quarto scrutinio non servirebbero più a nulla agli avversari

di Francesco Verderami Corriere 9.1.15

ROMA Non si era mai visto in una partita a scacchi che la prima mossa la facesse il nero. E invece nella sfida per il Quirinale Bersani ha deciso di anticipare il premier — cui spetta di diritto il bianco — togliendogli il compito di aprire il gioco. Ecco una delle tante novità che già oggi rendono la prossima corsa al Colle assai diversa rispetto alle edizioni precedenti. E c’è più di un motivo se l’ex segretario del Pd ha lanciato pubblicamente la candidatura di Prodi come successore di Napolitano. Nel partito c’è chi dice l’abbia fatto per riproporre sulla scena la generazione dei «rottamati», c’è chi sostiene l’abbia fatto per lanciar poi se stesso, e c’è infine Bersani, che da tempo voleva render nota la sua idea: «Aspetto che Renzi mi risponda “Prodi no”. Gli dirò che l’avevo capito due anni fa...».
Muovere un pezzo così pregiato ed esporlo immediatamente al sacrificio, vale se garantisce al giocatore la possibilità di mettere sotto scacco l’avversario. E Bersani infatti dichiara scacco al premier, additandolo come regista della famosa «operazione dei 101» che fu il principio della fine per l’allora capo della «ditta». Non è uno scacco matto, figurarsi. Ma ora le parti si sono rovesciate, ora è Renzi a dover fronteggiare lo stesso Parlamento e un partito — il suo — dove persino dirigenti a lui vicini ammettono sottovoce che «non sarà facile gestire i gruppi», specie dopo lo scandalo della norma fiscale «salva Berlusconi» per la quale si sentono a disagio.
Loro, non Renzi. Addossandosi di nuovo la responsabilità del codicillo contestato — un autentico segreto di Pulcinella nel Palazzo — e ripetendo che «la manina era la mia» e che «tornerò a metterci mano dopo l’elezione del capo dello Stato», il premier prova a rovesciare il gioco. Visto che aspettano il voto segreto per tendergli un agguato, lui a sua volta vuol tenere alleati e rivali tutti appesi: il Pd, i partner di governo e in misura minore Berlusconi, che già stava appeso e che ora gli starà ancor più appresso, data la posta in palio personale. È una mossa spericolata quella di Renzi, non c’è dubbio, ai limiti dell’azzardo. Un’altra novità paragonata ai metodi passati.
Ma il capo dei democrat scommette su due cose: intanto è convinto che la tempesta provocata dalla norma «salva Berlusconi» si placherà nel giro di pochi giorni, giusto il tempo che esca dal circuito politico-mediatico; e poi ritiene che sul Quirinale nel Pd prevarrà quello che lui definisce «senso di responsabilità istituzionale», e che i suoi avversari interni bollano come «conformismo opportunista». La traduzione, che val bene per entrambe le versioni, è: alla fine, dove vanno? Anche perché Renzi ha fatto i conti: al momento calcola al massimo 150 franchi tiratori, ma dalla quarta votazione ne servirebbero 190 per uccellarlo. Più che a una mediazione, insomma, si prepara a una prova di forza. Anche in questo caso non ci sono precedenti.
Così come non era mai accaduto che per il Colle ci fosse un florilegio di candidature: avanti di questo passo ci saranno più quirinabili che grandi elettori. E Renzi pare alimenti ad arte questa moda, muovendo pezzi sulla scacchiera prima ancora che inizi la partita. Tolto di mezzo Padoan, vittima eccellente sull’altare del Nazareno, il premier si esercita a testare i suoi interlocutori. Ognuno ovviamente fornisce una versione diversa delle volontà di Renzi. «Sono a caccia di una donna». E poi compare il nome di Bassanini. «Voglio una soluzione concordata». E poi spunta l’asse tra Lotti e Verdini. «Non è un incarico per un improvvisato». E intanto Grasso non fa che parlare dell’imminente periodo di supplenza al Quirinale. «Niente nomi per ora». E però chiede: «Ma secondo te, quello lì...».
Come un Mourinho che nelle vigilie importanti sente il rumore dei nemici, Renzi fa «pretattica sfrenata» per dirla con Bersani, che l’altro giorno ai suoi compagni ha raccontato: «Matteo di nomi ne ha già fatti almeno una decina. Praticamente tutti». E dietro quella risata c’è la consapevolezza — anche in autorevoli ministri del Pd — che il premier tenga coperta la vera mossa, da spendere al momento opportuno per dichiarare scacco matto al Parlamento. Chissà. Se ci riuscisse, sarebbe un’assoluta novità.
Di sicuro una novità, un’altra, c’è. Perché non solo Renzi tiene tutti appesi con la norma «salva Berlusconi», anche i grandi elettori sono appesi alla data ufficiale d’inizio della corsa per il Colle. Da tempo l’ipotesi più accreditata dal Quirinale è che Napolitano si dimetta il 14 gennaio, subito dopo il rendiconto del premier per la chiusura del semestre italiano in Europa. Ma visto che al Senato il voto sulla legge elettorale inizierà solo il 13, da ieri in Parlamento ha preso a circolare la voce che il capo dello Stato possa posticipare di qualche giorno il suo addio. Il Cavaliere — già in ansia per la supplenza di Grasso — ha chiesto preoccupato se il ritardo avrebbe implicazioni politiche. Sulla corsa al Colle no. Slitterebbe solo la decisione di Renzi sul decreto fiscale... 



Prodi e salva-Silvio l’ultima trincea dei bersaniani per fermare Renzi

di Stefano Folli Repubblica 9.1.15

Il segretario della Lega Salvini sta diventando l’unica voce dell’opposizione
NON ha torto Matteo Salvini quando nota l’anomalia di un’Italia politica assorbita dalla discussione per iniziati intorno alla legge elettorale mentre l’attenzione dell’Europa è tutta per l’11 settembre francese e le sue ricadute. Avrebbe ancora più ragione se in Parlamento la Lega non fosse coinvolta allo stesso livello degli altri gruppi intorno alle clausole della riforma. E non c’è da stupirsi, visto che dall’esito di queste manovre dipendono gli assetti dei prossimi anni.
D’altra parte, le anomalie non finiscono qui. Proprio la strage di Parigi ha proiettato Salvini sulle reti televisive come unica voce di peso dell’opposizione non «grillina». Si conferma il vuoto nel centrodestra, vuoto sempre più colmato dalla Lega, a fronte di un Berlusconi vincolato all’intesa con Renzi. E viceversa. Di conseguenza emerge una terza anomalia. Quasi alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica la vera dialettica non è fra il Pd e Forza Italia, bensì fra il Pd fedele alla linea del presidente del Consiglio e il Pd dissidente, vale a dire la più volte citata minoranza dei Bersani, D’Alema, Civati e altri. Un gruppo frastagliato, privo di disciplina interna e finora sconfitto in tutte le schermaglie intrecciate con il premier.
Oggi qualcosa sta cambiando? È presto per esserne certi, ma se gli avversari di Renzi vogliono giocare la loro partita in vista del Quirinale, questo è il momento di entrare in campo. Ecco perché sono interessanti le affermazioni rese ieri da Bersani, ex segretario del partito uscito di scena dopo il voto del 2013 e la rielezione di Napolitano. Allora, quando si trattò di eleggere il capo dello Stato, «ci fu un mix fra chi non voleva Prodi e chi non voleva Bersani. C’era qualche complotto in giro...». Bersani parlava all’”Aria che tira” e le sue parole sembrano pesate con una certa cura.
L’accusa di complotto è solo in apparenza generica. In realtà l’ex segretario e i suoi amici sono convinti che sia stato Renzi il regista del sabotaggio, attraverso i fatidici 101 franchi tiratori che affossarono la candidatura di Prodi e di fatto misero anche il segretario con le spalle al muro. Avere evocato quell’episodio — e non è la prima volta — ha un solo significato: la richiesta al presidente del Consiglio di sanare la ferita di quasi due anni fa «ripartendo da Prodi». Una sorta di «heri dicebamus» che implica un negoziato fra Renzi e la minoranza. Per meglio dire, fra Renzi e Bersani stesso.
Sotto il profilo della convenienza politica, il premier avrebbe tutto l’interesse ad accogliere l’invito. Ma l’uomo è spavaldo e non gradisce che gli si tagli la strada. Bersani, del resto, non gli ha lesinato critiche sul pasticcio del decreto fiscale. A conferma che quello è il punto dolente su cui il pragmatismo renziano può incagliarsi, ovvero può riprendere slancio sfruttando fino in fondo l’appoggio esterno di Berlusconi. Sta di fatto che ieri a Palazzo Madama, in sintonia con l’intervento del suo vecchio segretario, il senatore Mucchetti ha chiesto la presenza di Renzi in aula per spiegare la genesi della fatidica norma cosiddetta salva-Berlusconi inserita nel decreto. Mucchetti ha parlato a titolo personale, ma con l’autorizzazione del suo gruppo. Ha usato un tono misurato, così da non mescolarsi coi gruppi d’opposizione, dai Cinque Stelle al Sel, ma le frasi erano inequivocabili.
Ovvio che il presidente del Consiglio non si piegherà alla richiesta. Tuttavia il doppio segnale fuori e dentro il Parlamento (Bersani e il puntiglioso senatore) non va sottovalutato. C’è un segmento del partito che chiede a Renzi di tornare in un certo senso al 2013. Il che significa non ricadere nella tentazione del «veto » e non escludere Prodi e forse lo stesso Bersani dalla rosa dei possibili candidati alla presidenza. Ieri la minoranza del Pd ha messo le carte in tavola; vedremo come risponderà Renzi nei prossimi giorni.

Cacciari: “Matteo è più debole. Un errore la sua retromarcia”
Il filosofo: il patto del Nazareno è la sua unica salvezza «Renzi sta vivendo un indebolimento fisiologico». intervista di Francesca Schianchi La Stampa 7.1.15
Cosa intende, professor Cacciari?
«La debolezza di Renzi viene dal fatto che non si esce dalla crisi e l’80% delle riforme non interessa ai cittadini. Ed è destinato a indebolirsi sempre più man mano che le riforme stentano a decollare o escono col contagocce».
Ha contribuito a indebolirlo anche il caos sulla delega fiscale?
«Nella genesi è un infortunio, un incidente di percorso. Il modo in cui invece è stato gestito è al limite dell’osceno».
A cosa si riferisce?
«Quello che mi scandalizza è la marcia indietro del governo: se riteneva che la norma fosse giusta, ritirarla perché poteva favorire Berlusconi è una follia inaudita. E sono allibito da come i giornali non lo abbiano sottolineato».
Lei non crede quindi a chi pensa a uno scambio di favori tra Renzi e Berlusconi?
«Io non ho mai fatto il dietrologo in vita mia. Con un governo composto da ministri debolissimi, penso che qualche tecnico abbia ritenuto buona quella norma senza rendersi conto di favorire Berlusconi».
C’è un altro episodio che ha messo in difficoltà Renzi, il volo di Stato per Courmayeur. Come lo definirebbe?
«Inopportuno. Lui che è quello che va in bici, prende un volo di Stato per andare a sciare… Ma io dico: fatti accompagnare in auto! ».
Debolissimi i ministri, indebolito Renzi, pure il patto del Nazareno è più fragile?
«Ma dove vuole che vadano? Finché Renzi non trova una maggioranza alternativa - e Grillo non è ancora seriamente interessato a una trattativa - è costretto a tenere in piedi il patto del Nazareno. Renzi non può fare a meno di Berlusconi e Berlusconi non può fare a meno di Renzi. Tra i due poi c’è affinità psicologica: e guardi che la personalità conta molto in politica. Dopodiché, il patto si può rompere anche al di là della volontà dei due interessati».
Ad esempio come?
«Ad esempio se vanno a sbattere sull’elezione del presidente della Repubblica».
Secondo lei vanno a sbattere o il patto terrà?
«Mah… Io penso che terrà, e me lo auguro, perché un casino sull’elezione del capo dello Stato sarebbe un male per il Paese. È una partita imprevedibile, ma penso possa esserci qualche nome che metta d’accordo un’area vasta del Pd e Berlusconi».
Chi?
«Amato. Ma anche Veltroni. Mentre la vedo più difficile per altri nomi, come D’Alema o Prodi».

Sinistra destra e terzo stato
Le due parti in commedia del governo Renzi e il partito che non c’èdi Luca Ricolfi  Il Sole 24 Ore 2.1.15
Ma Renzi è di destra o di sinistra? O meglio: le politiche messe in campo dal governo Renzi sono di destra o di sinistra?
La domanda se la fanno in molti, chi con preoccupazione, chi con curiosità. Capisco la preoccupazione del mondo sindacale, che vede in Renzi il picconatore delle sacrosante conquiste del movimento operaio. E capisco pure la curiosità di chi, come il mondo del lavoro autonomo, ha sempre guardato con sospetto ai governi di sinistra, ben poco sensibili alle esigenze delle imprese, degli artigiani, dei commercianti, dei liberi professionisti. E tuttavia ad entrambi vorrei dire: non temete, Renzi è sia di destra sia di sinistra. Se guardiamo con distacco a quel che ha fatto in 10 mesi di governo è difficile, davvero difficile, stabilire se è stato più attento alle esigenze del lavoro dipendente o a quelle del lavoro indipendente. Nei primi mesi, il pendolo è oscillato decisamente a favore del mondo sindacale, al di là delle frecciate polemiche verso la Cgil: gli 80 euro in busta paga non sono certo stati un gesto pro-imprese, che si aspettavano semmai un abbattimento dell’Irap. Negli ultimi mesi, invece, il pendolo ha invertito il suo verso: il depotenziamento dell’articolo 18, l’alleggerimento dell’Irap, la decontribuzione delle assunzioni a tempo indeterminato sono tutti gesti che guardano più al lavoro autonomo che a quello dipendente.
Visto da questa angolatura, il consenso che Renzi riesce a convogliare verso di sé e verso il Pd non deve stupirci. Certo, ad esso contribuisce anche l’autolesionismo degli avversari: Forza Italia fa di tutto per autoaffondarsi, e il Movimento Cinque Stelle non fa nulla per diventare una cosa seria. E tuttavia la vera forza del governo Renzi sta nella sua capacità di fare sia cose tradizionalmente considerate di sinistra, sia cose tradizionalmente considerate di destra. In un certo senso l’esatto contrario del governo Prodi del 2006-2008, che con la sua (modesta) riduzione del cuneo fiscale, suddivisa fra lavoratori e imprese, finì per fare qualcosa che non appariva né di destra né di sinistra.
Se le cose stanno così, diventa abbastanza naturale prevedere che, nei prossimi anni, Renzi non avrà avversari. La sua politica economica, infatti, pare capace di realizzare due miracoli: recuperare, grazie al bonus, molti elettori delusi del centro sinistra, e attirare, grazie alla riduzione del costo del lavoro, molti elettori che un tempo si riconoscevano nel centro destra.
E tuttavia … Tuttavia c’è un piccolo problema. La società italiana è sempre meno una società divisa in due, con una metà che guarda a sinistra e l’altra metà che guarda a destra. Questa semplificazione poteva reggere, forse, quindici o venti anni fa, nel cuore degli anni ’90 del secolo scorso. Allora a fronteggiarsi, anche politicamente, c’erano effettivamente due società. Da una parte la prima società, ovvero il mondo dei garantiti, fatto di dipendenti pubblici e occupati a tempo indeterminato delle imprese maggiori, protetti dall'articolo 18 ma anche dalle dimensioni aziendali (secondo il principio “too big to fail”). Dall’altra la seconda società, ovvero il mondo del rischio, fatto di piccole imprese, lavoratori autonomi, operai e impiegati, tutti esposti alle turbolenze del mercato e sostanzialmente privi di reti di protezione.
Gli uni, i garantiti, guardavano prevalentemente a sinistra, gli altri, gli esposti al rischio, guardavano prevalentemente a destra.
Oggi non è più così. Non perché non ci siano più una società delle garanzie e una società del rischio, ma perché oggi c’è anche una terza società. Una società che c’era già prima, ma che negli anni della crisi è cresciuta di dimensioni, fino a diventare di ampiezza comparabile alle altre due. Questa terza società è la società degli esclusi, o outsider, nel senso letterale di “coloro che stanno fuori”. Una sorta di Terzo Stato in versione moderna. Essa è formata innanzitutto di donne e di giovani, ma più in generale è costituita da quanti aspirano a un lavoro regolare (non importa se a tempo determinato o indeterminato), e invece si trovano in una di queste tre condizioni: occupato in nero, disoccupato, inattivo ma disponibile al lavoro. Si tratta di ben 10 milioni di persone, più o meno quanti sono i membri della società delle garanzie così come i membri della società del rischio.
Ora, il dato interessante è che, ad oggi, questo segmento della società italiana è sostanzialmente privo di rappresentanza. E lo è per una ragione economica, prima ancora che politica. L’interesse degli esclusi è diametralmente opposto a quello dei garantiti, ed è in parte diverso da quello della società del rischio. La priorità degli esclusi è, per definizione, quella di essere inclusi. Il problema è che tale inclusione richiede scelte economiche molto diverse da quelle che hanno permesso a Renzi di dialogare felicemente con la prima e la seconda società. Includere, infatti, significherebbe puntare tutte le carte sulla creazione di posti di lavoro aggiuntivi (a noi ne mancano circa 6 milioni, se come riferimento assumiamo la media Ocse). Precisamente il contrario di quanto, nel comprensibile desiderio di attirare voti, il governo Renzi ha fatto finora e intende fare nei prossimi anni, almeno a giudicare dalle tabelle della Legge di stabilità, che per il 2018 prevedono ancora quasi 3 milioni di disoccupati.
Per capire perché gli interessi del Terzo Stato non siano in cima alle preoccupazioni di questo governo, basta riflettere sulle due decisioni cruciali di allocazione delle risorse effettuate nel corso del 2014, ossia gli 80 euro in busta paga e la decontribuzione per i neo-assunti. I 10 miliardi in busta paga sono, per loro natura, una misura a favore di chi un lavoro già ce l’ha, mentre un loro impiego per investimenti pubblici, o per abbattere l’Irap, avrebbero potuto dare una mano a chi un lavoro non ce l’ha. Quanto ai 5 miliardi di decontribuzione per i neo-assunti, possono apparire un provvedimento per generare nuova occupazione, ma lo saranno solo in misura minima perché, in assenza di vincoli di addizionalità (aumento del numero di occupati rispetto all’anno prima), finiranno per essere usati soprattutto per sostituire chi va in pensione o si dimette per maternità, senza creazione di posti di lavoro aggiuntivi. Un punto, quest'ultimo, su cui le preoccupazioni di Susanna Camusso appaiono tutt’altro che ingiustificate.
Ecco perché, a mio parere, il futuro del Pd e del governo Renzi è meno scontato di quel che può apparire a prima vista. Finché la terza società, la società degli esclusi, resterà sostanzialmente priva di rappresentanza, Renzi e il Pd potranno dormire sonni tranquilli, perché la loro capacità di recitare due parti in commedia, quella della sinistra e quella della destra, permetterà loro di rappresentare sia la prima sia, entro certi limiti, la seconda società. Se tuttavia la situazione cambiasse, e un partito, vecchio o nuovo, provasse a intercettare umori e interessi della terza società, il gioco del Pd si farebbe meno facile. Perché, allora, la domanda non sarebbe più se quel che fa Renzi è di sinistra o di destra, ma diventerebbe improvvisamente un’altra: può esistere una sinistra che lascia ad altri il compito di difendere gli esclusi?

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