sabato 7 febbraio 2015

Il silenzio nella letteratura italiana

Silenzi d'autore
Bice Mortara Garavelli: Silenzi d’autore, Laterza pagg. 152 euro 18

Risvolto
Il silenzio personificato come nell’Orlando furioso di Ariosto; il silenzio meravigliato del montanaro che – in una similitudine della Divina Commedia – ‘ammuta’ quando vede per la prima volta la città; il religioso silenzio di Chiara d’Assisi e quello ‘sfavillante’ che Elsa Morante coglie nello stupore infantile; il silenzio ‘di chiostro e di caserma’ di Gozzano e il silenzio ‘che tutto nega e tutto comprende’ di Lalla Romano. Il silenzio come reazione all’indicibile crudeltà in Primo Levi. Quante parole può nascondere un silenzio? Moltissime, soprattutto quando è d’autore, carico di significati che vanno oltre quelli veicolati dalla lingua. Bice Mortara Garavelli attraversa le pagine letterarie più note sul silenzio, dalla classicità greco-latina fino alla letteratura dei nostri giorni, lungo un percorso che rivela ciò che l’assenza di parole può dire.


Da Dante a Manzoni a Primo Levi se le parole non bastano più

Il suono del silenzio che si ascolta nei libri

di Francesco Erbani Repubblica 7.2.15

«TACI, a meno che il tuo parlare sia meglio del silenzio»: è la traduzione non proprio letterale di « Aut tace, aut loquere meliora silentio » , l’iscrizione che Salvator Rosa regge con una mano nell’autoritratto che il pittore realizzò a metà del Seicento e che ora è alla National Gallery di Londra. Il silenzio compete con la parola. Non è solo il niente, non è il contrario del rumore né il grado zero della comunicazione. È mancanza e rinuncia, ma anche il “non detto” ha la propria capacità comunicativa.
E la letteratura ha elaborato nei secoli una esauriente gamma di significati che al silenzio si possono attribuire e che riscattano un’immagine apparentemente priva di senso, bensì ricchissima di sfumature, di implicazioni culturali ed emotive. Bice Mortara Garavelli, linguista, studiosa di grammatica (l’ha insegnata per tanti anni all’Università di Torino) ha composto una galleria di silenzi traendoli da un repertorio che va dai tragici greci fino a Carlo Levi, da Dante, Ariosto e Manzoni a Elsa Morante, a Primo Levi, a Lalla Romano ( Silenzi d’autore , Laterza, pagg. 135, euro 18). Mortara Garavelli si è occupata di retorica e si è spinta a ricostruire una storia della punteggiatura, seguita da un prontuario dedicato al punto, alla virgola, al punto e virgola e ai due punti: a dispetto di una presunta aridità della questione, l’ultima edizione disponibile, quella del 2012, avvisa che con essa si è giunti alla quindicesima ristampa.
L’antologia sul silenzio potrebbe allungarsi a volontà, ma intanto dà la misura della frequenza del cimento di autori di diverso carattere con una funzione del linguaggio e della comunicazione che non è solo assenza. O che all’assenza fornisce un valore. Partendo dalle ultime prove ecco che cosa dice Mario Brunello, grande violoncellista, in un libro che intitola proprio al Silenzio (il Mulino), degli esperimenti di un altro grande musicista, John Cage, il quale volle che una volta terminata l’esecuzione della sua opera 4,33, il pianista restasse in silenzio esattamente per quattro minuti e trentatré secondi: «L’intento di Cage era ridefinire il concetto tra suono e silenzio e ricondurre i due elementi a una parità di fronte all’arte musicale».
La parità, o quasi, fra il suono e il silenzio nel linguaggio musicale ha ampia cittadinanza, come ce l’ha in architettura quella fra il pieno e il vuoto. In musica o in architettura il silenzio e il vuoto hanno un’evidenza. In letteratura per definire il silenzio occorre ricorrere al suo contrario, la parola. L’Innominato dei Promessi sposi vede il silenzio accompagnarsi alle tenebre e in coppia, il silenzio e le tenebre, aprono il varco a una morte spaventosa. Il silenzio e la notte sono affiancati nella Gerusalemme liberata . Nel V dell’Inferno Dante esprime il buio in quanto «d’ogne luce muto», perseguendo la trasposizione da una sensazione della vista a una dell’udito già presente nel I dell’Inferno: la selva oscura è un luogo «dove ‘l sol tace».
Fu il teologo e vescovo Gregorio Nazianzeno (III secolo) a elevare il silenzio al rango della parola ingiungendo a chi parla di esser sicuro che quel che sta dicendo è certamente meglio del silenzio stesso. Quasi che il silenzio fosse la condizione naturale alla quale si può derogare solo se ci sono cose molto importanti per interromperlo. Per Ariosto, racconta Mortara Garavelli, il silenzio diventa persona. Nel quattordicesimo canto dell’ Orlando furioso l’arcangelo Michele è inviato sulla terra alla ricerca del silenzio, «quel nimico di parole». Il primo luogo verso il quale si dirige è un convento «dove sono i parlari in modo esclusi, / che ‘l Silenzio, ove cantano i salteri, /ove dormeno, ove hanno la pietanza, / e finalmente è scritto in ogni stanza ». Ma ormai nei conventi, per somma delusione dell’arcangelo, il silenzio «non v’abita più, fuor che in iscritto». Dalla ricerca si appura che dove c’è discordia non c’è silenzio, e che il silenzio, un tempo fiancheggiatore di filosofi e di santi, ora «fece alle sceleragini tragitto».
L’esperienza quotidiana, alla quale può attingere la letteratura, mostra che in silenzio si comunicano tante cose, spesso più efficacemente che parlando. Lo attesta Giovanni Boccaccio nella novella del Decameron in cui nar- ra l’amore straziato di Ellisabetta, alla quale i fratelli uccidono l’amante. È stato Cesare Segre, rileva Mortara Garavelli, a mettere in evidenza come i prolungati silenzi della donna, cadenzati dal pianto, esprimano dolore con «repressa eloquenza». Di contro, i silenzi dei fratelli sono opprimenti, non vogliono convincere, ma reprimere.
Un balzo di secoli e d’atmosfera porta Mortara Garavelli all’ Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, nelle cui pagine il silenzio, insieme alla ristrettezza di orizzonti, pare dominare l’intera generazione che va in guerra (in quella stessa guerra dove Renato Serra trova la morte nel 1915). Da Serra al mondo contadino di Carlo Levi, il quale racconta le «terre zitte e solennemente silenziose» di Lucania. O, ancora, alla Napoli di Anna Maria Ortese, dove «il rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici» non riesce a coprire il fatto che «latente e orribile vi si avvertiva il silenzio».
La galleria di Silenzi d’autore è ancora molto estesa. Ma è sull’indicibile per definizione che può chiudersi questa breve rassegna. Ad Auschwitz, scrive Primo Levi in Se questo è un uomo , «per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo».

Da Omero a Primo Levi
Il rumore del silenzioNel rumore del silenzio l’anima della nostra lingua  Evoca meditazioni, dolcezze, dolore, indifferenza: Bice Mortara Garavelli lo “ascolta” negli scrittori per capire l’anima della nostra lingua e del nostro tempoCesare Martinetti Tuttolibri 7 2 2015
Quante parole per dire l’assenza di parole. Eppure, in fondo, che cos’è il silenzio se non, come diceva Calvino, «la rete di rumori minuti che l’avvolge». Un «linguaggio», addirittura, per Leopardi, quello «di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci), dell’ira, della meraviglia, del timore». Nelle Confessioni, sant’Agostino lo mette accanto all’oscurità che precede la creazione: le tenebre dove non c’era luce, il silenzio dove non c’era suono. Per Pope, il traduttore inglese di Omero, era l’assoluto fuori dal tempo: «Silence! Coeval with Eternity». Umberto Eco lo evoca alla fine delle 580 pagine dell’ultima edizione riveduta e corretta de Il nome della rosa (Bompiani 2012): «Non mi rimane che tacere».
Bice Mortara Garavelli, alla fine della nostra conversazione intorno a quest’ultimo suo libro, Silenzi d’autore, mi dice sorridendo: «Sono una chiacchierona». E invece, dopo aver ascoltato le sue parole così leggere da attraversare come un respiro la letteratura da Omero a Eco, si pensa con invidia ai ragazzi che l’hanno avuta come insegnante. E lei ricorda gli anni del liceo di Alessandria dove insegnava latino e greco, come i più belli della vita: «Meno coniugazioni di aoristi e più lingua viva». Proprio il greco? «Massì, certo, cominciavo ogni lezione leggendo un breve brano d’autore». E i ragazzi? «Capivano, non tutto, ma capivano».
Ora, da accademica della Crusca, dopo decine di pubblicazioni, lezioni e conferenze in giro per il mondo, da New York a Cracovia, a Los Angeles a Stoccolma, la professoressa Mortara Garavelli sforna libri preziosi per continuare a dare un senso a questa cosa disprezzata e in mutazione che è la lingua italiana. È usando strumenti antichi come la retorica, la punteggiatura o più in generale la grammatica che si può pensare di usarla al meglio e quindi tenerla viva. Perché ora il silenzio? «Perché meritava un libro». Il massimo di parole per dire ciò che non ha un suono. Un paradosso. Un ossimoro. 

Una montagna da scalare a mani nude.
Cominciamo dall’oggetto libro, per esempio da quel Tacet di Giovanni Pozzi (Adelphi, 2013) dove è rappresentato come una «stanza del silenzio». Il libro, deposito di memoria, antidoto al caos dell’oblio dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro...«Il libro come materializzazione del paradosso: «Colmo di parole, tace».
Ancora Umberto Eco nell’immaginario dialogo con Pitagora che gli dice: «Ogni pianeta girando a velocità diversa intorno al fuoco centrale produce un suono della gamma musicale, e tutti insieme generano un concerto dolcissimo, un’armonia che canta perennemente nell’universo». Osserva Eco: «Che noi non sentiamo». Risponde Pitagora: «Certo perché il nostro orecchio vi è abituato fin dalla nascita. Non hai mai fatto caso, nell’incanto di certe notti, al rumore del silenzio?».
Il silenzio in letteratura ha fisionomie e attributi. La rinuncia, in Sofocle, quando Giocasta non rivela la vera identità di Edipo, figlio e sposo: «Ah infelice, infelice! Il solo nome che posso darti... un altro no, mai più». La regina fugge in un «chiuso silenzio» da cui possono soltanto erompere «nuovi mali».
Per Alessandro Manzoni gli attributi necessari al silenzio sono: astioso, vasto, forzato, impaziente. «Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cosa da pensare che da dire». Per Guido Gozzano il silenzio è un «amico» nel quale andare vagando. Aldo Palazzeschi lo definisce «grande, grigio; glaciale, immenso; pauroso, imponente». In Gavinana: «le acque han bisbigli d’infanzia nel silenzio imponente». Per Umberto Saba, in Addio alla spiaggia, il «silenzio, si fa dolce, non quello di città morta,. Quello di una sera calda...». Pier Paolo Pasolini, ne Le Ceneri di Gramsci, il silenzio si fa «fradicio e infecondo» e simboleggia desolazione e inganno.
Dante, intorno al silenzio, costruisce un lessico. «Muto» si applica alla luce per indicarne la mancanza, come nella selva oscura, «dove ’l sol tace». Luce e suono assimilati nell’idea della assenza. Ma naturalmente «muto» è anche assenza di suono: «lo dì e l’altro stemmo tutti muti». Ma Virgilio sa «che volea dire lo muto» e «non attese mia domanda».
Ludovico Ariosto fa del Silenzio un personaggio in (quasi) carne ed ossa: «comminciò ad andare la notte con gli amanti / indi coi ladri, e fare ogni delitto. / Molto col tradimento egli dimora: / veduto l’ho con l’omicidio ancora».
Carlo Levi, esiliato dal fascismo in Lucania, racconta ai famigliari: «Qui l’unico suono (se così si può chiamare) è il silenzio». Primo Levi racconta la disperazione di Auschwitz: «Il cielo sopra di noi era silenzioso e vuoto: lasciava sterminare i ghetti polacchi, si faceva strada in noi l’idea che eravamo soli...». E ancora: «ci guardavamo senza parola». Eppure, ha scritto Elie Wiesel, «il mondo civile sapeva; e il mondo civile stava in silenzio».
Cos’è il silenzio? Un linguaggio, mi dice Bice Mortara Garavelli, che provoca e spinge a interpretare ciò che non dico. È dolore, ma è anche indifferenza. È estremo, comunica momenti estremi. È una colpa per chi non ha avuto il coraggio di parlare e di ribellarsi. È una dimenticanza. È ciò che non è bene rivelare. È un’arma a doppio taglio, è un anguilla che sfugge di mano. È la «taciturnitas» benedettina che significa silenzio, obbedienza, umiliazione ma anche parlare là dov’è utile e necessario, un equilibrio tra tacere e dire, un volontario e virtuoso silenzio. Uno svuotamento di sé, diceva il cardinal Martini, per ritrovarsi più autentici di prima.

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