giovedì 26 marzo 2015

Dal paese degli zagrebeslky

Medioevo e droni sotto lo stesso sole Verità comune cercasi per il dialogo 

L’intervento di Carlo Ossola a Biennale Democrazia:Aristotele non abita più qui Saltati i pilastri della tradizione occidentale, non resta che la razionalità del probabile 

Carlo Ossola La Stampa 26 3 2015

Spesse volte in questi mesi ci chiediamo – come nel film di Martin Scorsese Alice Doesn’t Live Here Anymore (1974) – ove andranno ad abitare le nostre civiltà. L’Occidente ha regolato le proprie ragioni d’agire sul principio aristotelico di unità di «tempo, luogo, azione». Nel diritto, se il sospettato di un crimine invoca l’alibi intende dire che «non era lì» (luogo) nel tempo del delitto. Il nostro narrare, per tenere insieme l’unità del narrato e la credibilità di chi narra, obbedisce alle stesse regole: persino un libro che ha disarticolato la «forma romanzo» del Novecento – e cioè l’Ulysses di Joyce – non è che la storia di una giornata (il 16 giugno 1904) a Dublino. 
Si è prodotta, nel secondo Novecento, una notevole accelerazione dell’«unità di luogo»: il villaggio globale di oggi – con le sue immagini istantanee di annunci sincopati e di partecipazioni virtuali – ci mette tutti in piazza, presenti e irrilevanti. A siffatta concentrazione dello spazio ha tuttavia corrisposto una divaricazione del tempo: passando da un quartiere all’altro delle nostre metropoli, si cambia di secolo: qui scattanti destini in carriera e là, girato l’angolo, donne velate e senza parola, ragazzi senza avvenire, migranti senza nome. Il XXI secolo dei droni convive con il secolo XI delle crociate (volte ora in direzione inversa): il tempo si è fatto – viene da definire con Ortega y Gasset e Enrico Castelli Gattinara – del tutto «invertebrato». 
Dieci secoli, come una voragine tettonica, non si colmano; conviene dunque sapere che la frattura esiste e non buttare passerelle o all’opposto carri armati là ove si può solo sprofondare. Per un percorso che sembra richiedere qualche generazione almeno, la biforcazione immediata è acuta: l’appello alla civiltà oppone le civiltà; esse si fanno incompatibili e poco serve credere che il «progresso» (così come si è dispiegato in Occidente nel XIX e XX secolo) unifichi.
Sono dunque da riprendere in considerazione, nel perenne dibattito tra natura e cultura, i minima naturalia che unificano tutti gli uomini e il creato: la dignità del vivere, la pace con gli esseri intorno. Montaigne l’ha splendidamente riassunto nei suoi Saggi: «Le scienze trattano le cose troppo finemente, in un modo troppo artificiale e distante dal comune e naturale. Il mio valletto fa l’amore e ben l’intende. Leggetegli Leone Ebreo e Ficino: si parla di lui, dei suoi pensieri e azioni, e, per l’appunto, non capisce nulla. […] Se io fossi del mestiere [cioè filosofo], naturalizzerei l’arte tanto quanto essi artificiano la natura» (Essais, III, V ). Riportare alla natura vuol dire ritornare alla ratio naturalis dello jus gentium: parole che mal si conciliano con ogni pretesa di egemonia (su scala piccola o grande). Criticare storicamente quest’ultimo concetto significa anche ammettere che il principio sancito dalla Rivoluzione francese: Liberté, égalité, fraternité, si è sviluppato soprattutto come liberazione del soggetto (spesso svincolandolo dalla solidarietà insita nell’azione responsabile), mentre uguaglianza e fraternità sono rimasti slogan o, al più, titoli di speranza. Magro è il bilancio, se si aggiunge che il soggetto – nel XX secolo – è stato confiscato in un corpo-massa oppresso dalle dittature e drogato dal consumo.
I secoli centrali dello sviluppo del cristianesimo in Occidente sono stati sotto il segnacolo della verità (con il suo corredo di eresie, processi, condanne); l’epoca moderna ha sostituito ad essa il principio di realtà positiva: nel nome del realismo, i poteri si sono affinati, le virtù «intransitive» («lo sai perché resistere», direbbe Giudici) indebolite, i negoziati divenuti compromessi e mercimoni. Oggi non si sa neppure dove sia la realtà: tutto è – già lo vide Benjamin – multiplo artefatto. I comportamenti collettivi che ne discendono, in nome di nuove verità, promettono di essere ancora più aberranti, da una parte e dall’altra.
Con l’antica sapienza è da pensare che convenga, oggi, tornare alla faticosa razionalità del probabile, sapendo che il termine ha due distinti significati: a) ciò che può essere «probato», approvato, di un’azione; b) ciò che è più facile che accada. L’utilitarismo dei secoli moderni ha posto l’accento su questo secondo aspetto: calcolare il probabile per ricavarne l’utile. La saggezza classica aveva considerato solo il primo: agire in modo che si possa incontrare l’accordo di chi mi sta di fronte. La verità precede, la realtà si impone, il probabile [il «capace di essere accolto»] si cerca, con sagace e prudente rispetto.
Tra il XXI secolo dei droni e l’XI delle crociate, chissà che l’incontro non si faccia nel XVII secolo del «probabilismo» e dell’«equiprobabile»; il che vuol dire che oggi, ogni nostro studente – e prima ogni nostro insegnante – dovrebbe poter essere a suo agio in più secoli, tra versioni del mondo plurali, munito di lingue e di filosofia: immane compito (che bene mostra l’inutilità delle vie spicce). E Gramsci stesso ricordava – contro le propagande – l’opportunità di padroneggiare il sillogismo. Ci tocca rovesciare Joyce: ogni giorno è dieci secoli di storia; altrimenti – e presto – dieci secoli precipiteranno su di noi, attori vani dell’istantaneo.

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