Patrizia Delpiano:
Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, pagg. 206, € 22,00
Risvolto
Nell’età dei Lumi fece la sua comparsa sulla scena europea un nuovo attore: il philosophe,
che rivendicava apertamente, tra le altre, la libertà di esprimersi a
livello pubblico attraverso la parola scritta. Concentrandosi in
particolare su Francia e Italia, Patrizia Delpiano esplora il processo
che tra la fine del Seicento e la fine del Settecento condusse alla
teorizzazione e alla messa in pratica della libertà di stampa. È una
storia segnata da ostacoli istituzionali come la censura ecclesiastica e
statale e da altri, non meno coercitivi, posti dalla coscienza degli
autori stessi. Tra l’etica del silenzio e la libertà di scrivere si
apriva infatti il vasto campo dell’autocensura: un universo del non
scritto sinora largamente inesplorato, che segnò a lungo la vicenda
degli intellettuali europei.
Conquiste dell’Illuminismo Liberi di pensare apertamente
Patrizia Delpiano racconta l’ostilità religiosa e politica (soprattutto in Italia) nei confronti della libertà di parola
di Massimo Firpo Il Sole Domenica 8.3.15
Il primo paese europeo ad abolire la censura preventiva fu
l’Inghilterra, nel 1695, all’indomani della «gloriosa Rivoluzione» che,
con la cacciata gli Stuart, aveva visto l’affermarsi di un sistema
politico molto diverso rispetto all’assolutismo dei re per diritto
divino imperante sul continente. Era passato mezzo secolo da quando nel
1644 l’Areopagitica di John Milton aveva rivendicato la libertà di
stampa nel crogiolo di un’altra e più sanguinosa rivoluzione, conclusasi
con la decapitazione di Carlo I e con il Commonwealth cromwelliano.
Proprio con lo sguardo volto al modello inglese, alle sue libertà, al
suo pluralismo religioso nel 1733 Voltaire pubblicò a Londra le sue
Letters concerning the English Nation, apparse in francese l’anno dopo
con il titolo di Lettres philosophiques, che evoca l’emergere di nuovi
protagonisti – i philosophes appunto – di una cultura nutrita dei succhi
deisti, libertini e radicali che avevano innervato la crisi della
coscienza europea tra Sei e Settecento: una crisi maturata sullo sfondo
del definitivo esaurirsi delle guerre di religione, del cupo tramonto
del lungo regno del re Sole Luigi XIV, della dirompente ascesa politica e
culturale dell’Inghilterra di John Locke, Isaac Newton, John Toland,
Anthony Collins e delle Province Unite di Baruch Spinoza, Jean Leclerc,
Pierre Bayle. L’Illuminismo francese avrebbe sviluppato tali tensioni
intellettuali in direzioni molteplici, fino ad approdi esplicitamente
atei e materialisti, dando ad esse una sempre più consapevole dimensione
politica nell’affrontare questioni che implicavano l’affermarsi di
diritti umani sottratti al controllo del potere, politico o religioso
che fosse. Per questo Denis Diderot, l’ideatore e animatore di quel vero
e proprio monumento delle Lumières che fu l’Encyclopédie (1751-1772),
ripeteva che se gli fosse stato impedito di parlare di politica e
religione non avrebbe avuto più niente da dire. Al primato di uno
spirito critico fondato sulla ragione, insomma, non tardò ad affiancarsi
la rivendicazione del diritto al suo uso pubblico, al libero confronto
delle idee, con un decisivo passaggio dalla libertà di pensiero alla
libertà di espressione. Proprio per questo, com’è noto, molti di quei
philosophes, tra i quali gli stessi Voltaire a Diderot, sperimentarono
le durezze del carcere.
Non stupisce che la questione della censura diventasse cruciale in
questo turbine di rinnovamento intellettuale, né che a difesa di essa si
schierassero le autorità politiche e religiose, pur in conflitto
giurisdizionale tra loro in merito al controllo della stampa. Furono
solo re Gustavo III di Svezia nel 1766 e in parte l’imperatore Giuseppe
II nel 1787 a seguire l’esempio inglese, non certo Luigi XVI di Francia,
né Federico II di Prussia o Caterina II di Russia, che pure si erano
atteggiati ad ammiratori di Voltaire e Diderot. Ed è in questa vicenda
storica che Patrizia Delpiano guida il lettore, studiando il dipanarsi
di discussioni e polemiche in Francia e in Italia attraverso le voci sia
degli illuministi sia dei loro avversari, laici ed ecclesiastici,
consapevoli dell’importanza della questione per il controllo
dell’opinione pubblica (una nuova e dirompente realtà settecentesca) e
per l’educazione della gioventù. Numerosi furono per esempio i romanzi
volti a dimostrare come dalle eversive dottrine degli esprits forts
illuministi, non più frenate dai necessari argini della censura, fosse
scaturita una cultura neopagana e libertina, convinta di poter fare a
meno di Dio, priva di ogni freno morale, dissolutrice della famiglia,
della religione, della società e dello Stato. Tutt’altro che unanimi
furono peraltro le voci degli antiphilosophes, con i giansenisti – per
esempio – pronti a denunciare nel probabilismo e nel lassismo dei
gesuiti una delle cause del relativismo che aveva finito con il mettere
in discussione i fondamenti più sacri della Rivelazione e della fede
cristiana.
È significativo che siano gli avversari dei Lumi a farla da padrone
nelle pagine dedicate all’Italia, sede del papato, con la sua pretesa di
esercitare un supremo magistero universale, e sede dell’Inquisizione
romana, il tribunale istituito nel 1542 per combattere la diffusione
delle eresie protestanti, il cui potere era peraltro limitato alla sola
penisola. Il che contribuisce a spiegare non solo la netta prevalenza
delle voci ecclesiastiche nel coro degli antiphilosophes, ma anche la
tenace, irriducibile convinzione di molti tra questi ultimi che le
matrici di quelle idee anticristiane risiedessero ancora nelle eresie di
Lutero e Calvino: di qui il tentativo di esorcizzarne le eversive
novità inglobandole in schemi già noti e limitandosi quindi a ribadire
condanne già formulate e a esecrare l’empio «tollerantismo», con una
sorta di pregiudiziale rifiuto di riconoscere nella filosofia dei Lumi
quella modernità che pure essi erano chiamati a contrastare e battere in
breccia, e di cui si ostinavano a denunciare – come già Bellarmino alla
fine del ‘500 – le origini forestiere e la dipendenza da «oltramontani
ingegni», incompatibili con le salde tradizioni cattoliche degli
italiani, cui ardivano insegnare «a pensare, a parlare, et anche operare
liberamente», come denunciava nel 1766 un corrucciato inquisitore.
Anche in Italia, tuttavia, i tempi stavano cambiando, come indica il
fatto che nel 1770 si potesse deridere in versi sulfurei un autorevole
polemista e consultore del Sant’Ufficio come il domenicano Tommaso Maria
Mamachi, delle cui censure «ognuno prendane / giuoco e sollazzo: /
Mamachio è un asino, / Mamachio è un pazzo».
Certo, nella Milano di Pietro Verri e Cesare Beccaria si poteva scrivere
che ben pochi ormai si curavano di quel che si condannava a Roma, ma
resta il fatto che dal Cinquecento al Novecento gli Indici dei libri
proibiti continuarono a susseguirsi uno dopo l’altro, offrendo un sempre
più nutrito catalogo di tutto il pensiero moderno, e che ciò influì
profondamente sulla cultura italiana. Non solo e non tanto per
l’effettiva efficacia di quegli scontati divieti, facilmente eludibili
ed elusi, ma per l’implicita sollecitazione all’autocensura, alla
prudenza, al conformismo che essi comportavano. Proprio questo, d’altra
parte, essi intendevano essere, come spiega Patrizia Delpiano nel
rispondere a quanti hanno invece sottolineato il continuo processo di
negoziazione tra autori e censori, depotenziando il vigore della
polemica illuministica per la libertà di stampa: «Tra l’etica del
silenzio, che tendenzialmente implicava un’adesione (convinta o subita)
alla norma proibitiva, e la libertà di scrivere, si trova il vasto campo
occupato dalla pratica dell’autocensura e della sofferta autocorrezione
dei propri testi». Ed è su questi crinali sfuggenti e talora ambigui
che teoria e prassi della libertà disegnano, ieri come oggi, i propri
mutevoli e spesso aggrovigliati percorsi storici.
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