martedì 3 marzo 2015

Prima attraggono mano d'opera a basso costo per abbassare i salari, poi comincia la crisi e li vogliono sterminare

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Paul Collier: Exodus. I tabù dell'immigrazione, Laterza, pagg.286, euro 24

Risvolto
"Poche sono le politiche pubbliche che hanno bisogno di analisi accessibili e spassionate quanto l'immigrazione. In questo libro voglio scuotere le posizioni che si sono ormai polarizzate: da un lato l'ostilità nei confronti dei migranti, intrisa di accenti xenofobi e razzisti, ampiamente diffusa tra i comuni cittadini, dall'altro lo sprezzante ritornello delle élites liberali, condiviso dagli studiosi delle scienze sociali, secondo cui la politica delle porte aperte è un imperativo etico che in più garantisce grandi benefici." 

I pericoli dell'esodo spiegati senza tabù

L'economista Paul Collier nel suo nuovo saggio ragiona sull'accelerazione degli spostamenti di massa. A colpi di numeri, dimostra che la strategia delle porte aperte non è vincente: serve controllo 
Matteo Sacchi - il Giornale Mar, 03/03/2015

Il nemico snob della diaspora Tempi presenti. «Exodus » dello studioso inglese Paul Collier. Un volume dove le comunità dei migranti sono un elevato costo sociale. Mentre gli ingressi vanno limitati in nome del mercatoSandro Chignola, il Maniefsto 12.3.2015
Ho molti amici immi­grati. Con alcune e con alcuni di loro ho con­di­viso pra­ti­che di ricerca e lotte poli­ti­che. Qual­cuno di loro è finito in galera o è stato espulso. Altri sono rima­sti e con­tri­bui­scono atti­va­mente a cam­biare l’idea di cit­ta­di­nanza e il diritto del lavoro in que­sto paese. È per­ciò con un certo fasti­dio che ho letto il libro di Paul Col­lier (Exo­dus. I tabù dell’immigrazione, Laterza, pp. 287, euro 24). Come è mio costume, l’ho letto per intero. Un libro «impre­scin­di­bile per chiun­que voglia appro­fon­dire» lo spi­noso tema delle migra­zioni, strilla la coper­tina. E forse è dav­vero così. Certo, non per le ragioni che esso diret­ta­mente esprime. Altri recen­sori dell’edizione inglese – su tutti gli eco­no­mi­sti Michael Cle­mens e Justin San­de­fur per «Foreign Affairs» (Let the peo­ple go, http://​www​.forei​gnaf​fairs​.com/​a​r​t​i​c​l​e​s​/​1​4​0​3​5​4​/​m​i​ c​h​a​e​l​-​c​l​e​m​e​n​s​-​a​n​d​-​j​u​s​t​i​n​-​s​a​n​d​e​f​u​r​/​l​e​ t​-​t​h​e​-​p​e​o​p​l​e​-go) – ne hanno deco­struito le pre­tese di scien­ti­fi­cità, i cir­coli logici, l’uso selet­tivo e ten­den­zioso, per quanto amman­tato di aset­tica scien­ti­fi­cità, delle sta­ti­sti­che e della let­te­ra­tura. Il libro di Sir Paul Col­lier, pro­fes­sore di Eco­no­mia e poli­ti­che pub­bli­che ad Oxford, esperto delle eco­no­mie afri­cane e con­su­lente del governo inglese, può essere letto come un sin­tomo dello stra­bi­smo dell’economia e dell’ideologismo che orienta il defi­nirsi dell’agenda delle poli­ti­che migra­to­rie, piuttosto.

Un modello prêt-à-porter
Col­lier posi­ziona il suo libro nell’alveo del razio­na­li­smo cri­tico e del rea­li­smo. Con le «ana­lisi acces­si­bili e spas­sio­nate» in esso con­dotte, egli inten­de­rebbe «scuo­tere le posi­zioni pola­riz­zate» che scle­ro­tiz­zano il dibat­tito oppo­nendo da un lato l’ostilità ai migranti di xeno­fobi e raz­zi­sti e dall’altro gli inte­ressi delle «élite impren­di­to­riali e libe­rali» (ovvio che sia così: da un lato il «comune cit­ta­dino» che subi­sce la pres­sione delle dia­spore, dall’altro il libe­rale sti­liz­zato come uno snob) per le quali la «poli­tica delle porte aperte è un impe­ra­tivo etico» in grado di con­ti­nuare a garan­tire grandi bene­fici. Il suo pro­blema, dopo un’analisi svolta per molte pagine in cui a quella che egli chiama, model­liz­zan­dola, l’«economia poli­tica del panico» oppone una poli­tica delle quote in grado di fil­trare i flussi migra­tori sele­zio­nando i migranti in base a cri­teri di inte­gra­bi­lità e di skills, è di defi­nire un «pac­chetto» di misure con­cre­ta­mente spen­di­bile per gover­narli mas­si­miz­zan­done l’utilità tanto per i paesi di acco­glienza, quanto per quelli di pro­ve­nienza, evi­tando così su di un lato il col­lasso della cit­ta­di­nanza mul­ti­cul­tu­rale (cui egli rico­no­sce, bontà sua, di aver reso più «varie» e «vivaci» le cul­ture dei paesi nei quali essa ha tro­vato rea­liz­za­zione) e sull’altro l’intensificarsi di pro­cessi di spo­po­la­mento e di sottosviluppo.
Le migra­zioni inter­na­zio­nali di massa sono una rea­zione all’estrema disu­gua­glianza mon­diale, ci dice Col­lier. E que­sta disu­gua­glianza, che è aumen­tata nel corso degli ultimi due secoli, finirà nel pros­simo, in nome di una teo­di­cea del capi­tale, per il «glo­ba­liz­zarsi» della ric­chezza e per il pro­gres­sivo aggan­cio che i paesi poveri rea­liz­ze­ranno nei con­fronti dei paesi ad alto red­dito. Si trat­te­rebbe per­ciò di gover­nare una fase tran­si­to­ria, con il disin­can­tato rea­li­smo di chi affronta l’immigrazione negli stessi ter­mini del «riscal­da­mento glo­bale» (l’analogia ricorre più volte nelle pagine finali del libro) e con il solare otti­mi­smo di chi crede fer­ma­mente nei bene­fici del mer­cato. Una poli­tica che restringa l’accesso dei migranti ai paesi ric­chi – è piut­to­sto evi­dente che Col­lier solo que­sto pro­blema veda – svol­gerà la dop­pia fun­zione di garan­tire «l’interesse bene inteso» dei migranti e di rap­pre­sen­tare, que­sta la sua tesi fon­da­men­tale, un «atto com­pas­sio­ne­vole» nei con­fronti dei paesi e delle eco­no­mie dalle quali essi pro­ven­gono, per­met­tendo altresì di met­tere fuori corso ten­sioni e derive rea­zio­na­rie nei paesi di acco­glienza. Niente di meno.
Che la pre­oc­cu­pa­zione fon­da­men­tale del pro­fes­sore di Oxford sia la tenuta interna dei paesi ric­chi ben più di quanto non lo sia lo svi­luppo delle eco­no­mie dell’«ultimo miliardo» oggetto più pro­prio dei suoi studi, lo dimo­stra la rap­pre­sen­ta­zione alquanto cari­ca­tu­rale del migrante che tal­volta gli sfugge di sotto alla mole di dati selet­ti­va­mente rac­colti dalla più recente let­te­ra­tura sulla socio­lo­gia delle migra­zioni. Il migrante non sol­tanto è latore di una «cul­tura» cui resta rigo­ro­sa­mente iden­ti­fi­cato – quella stessa cul­tura che il «libe­rale ben­pen­sante» vor­rebbe invece venisse rico­no­sciuta e difesa — ma povertà e sot­to­svi­luppo del suo paese dipen­de­reb­bero per buona parte da essa. Sono le «cul­ture – o le norme e le nar­ra­zioni – delle società povere, così come le loro isti­tu­zioni e orga­niz­za­zioni», nel giu­di­zio di Col­lier, «ad essere la prin­ci­pale causa della loro povertà». Il migrante tende a ripro­durre la pro­pria cul­tura — il nige­riano ten­derà a com­por­tarsi nel paese di acco­glienza «in maniera dif­fi­dente e oppor­tu­ni­stica» ripro­du­cendo il «codice morale» della pro­pria società di par­tenza –, anche se nella sua scelta impli­ci­ta­mente si esprime un giu­di­zio defi­ni­tivo su di esso, poi­ché andan­do­sene, «vota a favore del modello sociale dei paesi ad alto reddito».Ed è que­sto che conta: per Col­lier, «le migra­zioni odierne non sono un viag­gio alla ricerca di terre da col­ti­vare, ma un viag­gio alla ricerca di efficienza».

Mora­li­smo compassionevole
Di qui la serie di con­clu­sioni che affol­lano i capi­toli del libro. Il migrante è un sog­getto che impren­di­to­rial­mente inve­ste su di sé e che cerca di mas­si­miz­zare il suo self inte­rest. Cre­dendo di farlo, tut­ta­via, fini­sce tal­volta con il frain­ten­derlo. Accade ad esem­pio quando la vita da migrante si fa pesante, lasciando tra­spa­rire un costo mar­gi­nale nega­tivo nel saldo tra un sala­rio più alto e i «costi psi­co­lo­gici» della migra­zione. Quello che appare al migrante un inve­sti­mento può rive­larsi invece un errore. Altri hanno avuto modo di sot­to­li­neare come seguendo que­sta illu­mi­nata logica eco­no­mica, lo stress delle donne che lavo­rano avrebbe dovuto con­si­gliare loro (e a tutte le altre) di restare a casa e di pre­fe­rire per la loro vita una comoda logica patriar­cale del foco­lare e degli affetti. È il mora­li­smo com­pas­sio­ne­vole con cui Col­lier guarda ai migranti e ai loro paesi di pro­ve­nienza ciò che ancor più da fasti­dio. Almeno a me; non certo a chi ha rite­nuto di tra­durre e di far cir­co­lare in Ita­lia, all’epoca del governo Renzi, un libro come que­sto, con il suo stile tec­no­cra­tico, pro­gres­si­sta, cen­tri­sta, anche se tra­su­dante rap­pre­sen­ta­zioni arcai­che della migra­zione e dei suoi sog­getti: meta­fore cli­ma­ti­che, pro­blemi sociali trat­tati in ter­mini di pres­sioni e di ten­sioni demo­gra­fi­che (sui paesi ric­chi, per­ché le migra­zioni minano le coe­sioni «nazio­nali»; sui paesi poveri, por­tati a spo­po­larsi e a diven­tare «deserti»: «se l’Angola diven­tasse una pro­pag­gine della Cina o l’Inghilterra una pro­pag­gine del Ban­gla­desh» — sup­pongo sia quest’ultima la pre­oc­cu­pa­zione prin­ci­pale del pro­fes­sore oxo­niense — «si trat­te­rebbe di una ter­ri­bile per­dita cul­tu­rale per il mondo intero», egli ha modo di scri­vere), «nazioni» pen­sate come oggetto di «iden­ti­fi­ca­zione emo­tiva» e dun­que come «poten­tis­simi fat­tori di equità».
«Le poli­ti­che pub­bli­che sono tenute a tener conto degli effetti che i migranti tra­scu­rano». È que­sto il punto di par­tenza e di arrivo. La scelta di migrare è un «atto pri­vato» soli­ta­mente com­piuto dal migrante stesso, tal­volta con il con­tri­buto della famiglia.

Un qua­dro fosco
Eppure que­sta scelta pri­vata pro­duce effetti tanto sulla società ospi­tante quanto su quella di ori­gine, dei quali il migrante non tiene conto. Su quella ospi­tante, non già un abbas­sa­mento dei salari o una per­dita di lavoro per gli autoc­toni, ma bene­fici minimi sulle finanze pub­bli­che – nono­stante la massa di ricer­che che atte­stano come il lavo­ra­tore stra­niero, in genere gio­vane, versi molti con­tri­buti e frui­sca poco, ad esem­pio, dei sistemi sani­tari nazio­nali, per­met­tendo invece ne godano le popo­la­zioni locali – ed effetti di inde­bo­li­mento del legame nazio­nale; su quella di par­tenza, un peg­gio­ra­mento com­ples­sivo poi­ché a migrare sono per lo più i più istruiti e i più dotati, i sog­getti più dispo­sti ad inve­stire (prima di tutto su di sé) e coloro per i quali gli inve­sti­menti sulla for­ma­zione – rica­duta posi­tiva sulle società di par­tenza, egli ci dice, pro­prio per la pro­spet­tiva migra­to­ria che porta i geni­tori a sce­gliere per i pro­pri figli un’istruzione migliore e un accesso alle lin­gue stra­niere – si tra­du­cono in una per­dita secca. Per­ché mai impe­dire la migra­zione, oppure ren­derla più selet­tiva e dif­fi­cile, dovrebbe far sì che i cit­ta­dini stra­nieri «più dotati» pos­sano espri­mere le loro capa­cità pro­du­cendo effetti pro­gres­sivi e di moder­niz­za­zione su società delle quali, con una costante e sopren­dente oscil­la­zione, Col­lier sot­to­li­nea insi­sten­te­mente la cor­ru­zione e l’inefficienza, così come le straor­di­na­rie poten­zia­lità, il libro non ce lo dice.
È l’accelerazione dei flussi migra­tori deter­mi­nata dalla cre­scita e dalla sta­bi­liz­za­zione delle dia­spore l’ossessione – più che non il dato di ana­lisi – che attra­versa il libro. La faci­lità dei ricon­giun­gi­menti fami­liari e la truffa sul diritto di asilo, nel parere di Col­lier, per­met­tono di abbat­tere rischi e costi della migra­zione. Di qui, l’innesco di rea­zioni poten­zial­mente peri­co­lose e fon­da­men­tal­mente raz­zi­ste nelle società di acco­glienza. Non solo per la «pres­sione» degli immi­grati, ma per l’incistarsi di gruppi – le dia­spore, appunto, trat­tate in ter­mini pesan­te­mente cul­tu­rali – non facil­mente dispo­ste a scio­gliersi nel tes­suto sociale delle demo­cra­zie avanzate.
Il «pac­chetto» pro­po­sto da Col­lier per gover­nare il pro­blema cerca di com­porre esi­genze eco­no­mi­che e «com­pas­sione» per i migranti con­te­stando il para­digma per il quale i flussi di migranti agi­scono sem­pre in dire­zione di un incre­mento della ric­chezza com­ples­siva. Nei paesi di arrivo per l’enorme bacino di mano­do­pera da essi for­nito e per il volume delle rimesse (la World Bank le ha quan­ti­fi­cate in oltre 400 miliardi di dol­lari) che i lavo­ra­tori inviano a casa. Si tratta di fil­trare e di ral­len­tare, non di impe­dire, i flussi di ingresso gra­zie a un mec­ca­ni­smo di quote pro­gram­mate e di adot­tare quat­tro «cri­teri» che per­met­tano di sele­zio­nare gli happy few ammis­si­bili al per­messo di sog­giorno in base a «istru­zione, occu­pa­bi­lità, ori­gini cul­tu­rali e vul­ne­ra­bi­lità». E cioè: di far acce­dere uno stock di migranti imme­dia­ta­mente fun­gi­bili al mer­cato del lavoro dei paesi ric­chi sele­zio­nato in base a cri­teri cul­tu­ra­li­sti di inte­gra­bi­lità e di cor­ri­spon­denza alle esi­genze delle loro economie.

La feroce logica delle quote
Col­lier arriva a soste­nere che «un ulte­riore requi­sito di ingresso» possa essere diret­ta­mente affi­dato al giu­di­zio di «con­for­mità» delle aziende che inten­dono assu­mere i migranti e il suo libe­ra­li­smo «com­pas­sio­ne­vole» arriva ad ammet­tere sì il diritto d’asilo, ma spin­gendo per la sua riforma in senso restrit­tivo dato il costante «abuso» che di esso ver­rebbe fatto. Sua ipo­tesi con­clu­siva: i bene­fici eco­no­mici sono pro­dotti dalla migra­zione pro­fes­sio­nale; i costi sociali dalla dia­spora non inte­grata. Che il costo dell’integrazione sia la ripro­po­si­zione, sotto acca­de­mi­che spo­glie, del modello del lavo­ra­tore ospite degli anni Cin­quanta del secolo ven­te­simo aggior­nato alle esi­genze del capi­tale glo­bale, non sem­bra un’idea tale da giu­sti­fi­care l’operazione edi­to­riale di Laterza. Certo, il libro ven­derà e tro­verà ascolto tra i con­si­glieri del governo del Patto del Naza­reno. E il pro­fes­sor Col­lier potrà con­ti­nuare a pren­dere il the a Oxford senza che un ecces­sivo odore di cucina ben­ga­lese fini­sca con l’infastidirlo.


Demografia Non chiamiamole migrazioni: questo è un esodo
Paul Collier invita a depurare il dibattito dalle polarizzazioni politiche «Il dato di fatto è che il 40% degli abitanti dei Paesi poveri vorrebbe spostarsi nei Paesi ricchi La disparità è mostruosa. Sarà così per decenni»di Maria Antonietta Calabrò Corriere La Lettura 22.5.15

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