lunedì 11 maggio 2015

Tutti Charlie? Il fondamentalismo occidentalista di fronte a una rivoluzione inarrestabile: la denuncia di Emmanuel Todd e Joyce Carol Oates

Qui est Charlie ? - Emmanuel ToddEmmanuel Todd, Qui est Charlie? Sociologie d’une crise religieuse, Edit. Seuil

Risvolto
Qui sommes-nous vraiment, nous qui avons affiché une telle détermination dans le refus de la violence aveugle et notre foi dans la République le 11 janvier dernier ?
La cartographie et la sociologie des trois à quatre millions de marcheurs parisiens et provinciaux réservent bien des surprises. Car si Charlie revendique des valeurs libérales et républicaines, les classes moyennes réelles qui marchèrent en ce jour d’indignation avaient aussi en tête un tout autre programme, bien éloigné de l’idéal proclamé. Leurs valeurs profondes évoquaient plutôt les moments tristes de notre histoire nationale : conservatisme, égoïsme, domination, inégalité.
La France doit-elle vraiment continuer de maltraiter sa jeunesse, rejeter à la périphérie de ses villes les enfants d’immigrés, reléguer au fond de ses départements ses classes populaires, diaboliser l’islam, nourrir un antisémitisme de plus en plus menaçant ?
Identifier les forces anthropologiques, religieuses, économiques et politiques qui nous ont menés au bord du gouffre, indiquer les voies difficiles, incertaines, mais possibles d’un retour à la véritable République, telle est l’ambition qui anime ce livre.

Emmanuel Todd est historien et anthropologue. Il a notamment publié Le Destin des immigrés (Seuil, 1994 et "Points Essais", 1997), Le Rendez-vous des civilisations (Seuil/République des idées, 2007, avec Y. Courbage), Après la démocratie (Gallimard, 2008) et Le Mystère français (Seuil/République des idées, 2013, avec H. Le Bras).

“Solo bugie sul corteo per Charlie” il pamphlet che divide la FranciaLo storico Emmanuel Todd: “In piazza per calpestare Maometto”. Il premier: “Fu per la laicità”di Bernardo Valli Repubblica 8.5.15

PARIGI ERO convinto di essere stato testimone, come cronista, di un’eccezionale manifestazione democratica. E invece avrei assistito, e in sostanza partecipato, a un’impostura. A una immensa menzogna. Mi riferisco a Place de la République. Là, sulla grande piazza parigina, l’11gennaio, quattro milioni di uomini e donne, non soltanto francesi, espressero solidarietà a Charlie Hebdo , settimanale satirico diventato simbolo della libertà d’ opinione e della laicità. Sulla folla ondeggiavano i ritratti dei suoi giornalisti assassinati durante una riunione di redazione perché il loro settimanale aveva pubblicato caricature di Maometto ed anche quelli dei clienti ebrei di un negozio kosher trucidati alla Porte de Vincennes nelle stesse ore. Neppure quattro mesi dopo, il significato di quella imponente, dignitosa riunione popolare divide la sinistra. Solleva un tumulto d’opinioni. Al punto che il primo ministro, Manuel Valls, ha ritenuto necessario intervenire.

A far esplodere le divergenze è il pamphlet di Emmanuel Todd (Qui est Charlie? Sociologie d’une crise religieuse. Edit. Seuil), apparso appena ieri nelle librerie ma da giorni ampiamente analizzato, criticato, non sempre del tutto ripudiato, su quotidiani, settimanali e schermi televisivi. Classificato a sinistra, benché non appartenga a nessuna delle sue componenti, Emmanuel Todd è uno storico e demografo noto per le polemiche dissacranti. E’ tenuto in quarantena dal mondo universitario ma è uno studioso e un autore rispettato. Suo nonno era Paul Nizan, autore di Aden Arapresa bia, libro con una celebre prefazione di Jean-Paul Sartre, suo padre è un grande giornalista, Olivier Todd, e Claude Lévi-Strauss era un cugino. Ascendenti colti e famosi, tra i quali qualche rabbino e molti atei dichiarati.

Di solito Emmanuel Todd se la prende con la sinistra, l’unica che per lui, uomo di sinistra, pare meriti di essere interpellata e di petto. Capita che, paradossalmente, le sue formule servano però alla destra. Nel ’95, Jacques Chirac, allora campione del centrodestra, si appropriò dell’espressione “frattura sociale” e del programma aggregato ideati da Todd. Li usò per dare toni di sinistra alla sua campagna elettorale e gli andò bene perché diventò presidente della Repubblica e poi fautore, com’era logico, di una politica contraria, adeguata a un leader di destra. La carriera politica del primo ministro socialista Lionel Jospin, il vero candidato di sinistra, che aveva trascurato la “frattura sociale “di Todd, finì in quell’occasione. Basandosi sulla sua specialità, Todd si è affidato alle carte e alle statistiche ed è arrivato alla conclusione che, al di là dei buoni sentimenti esibiti, il significato profondo di quella che è considerata la più importante manifestazione della storia moderna di Francia è appunto un’impostura, meglio un episodio (per citare Marx) di “falsa coscienza”. Quel che Todd ha visto sono milioni di sonnambuli accodati dietro un presidente, François Hollande, scortato dall’oligarchia mondiale, per difendere il diritto inalienabile di calpestare Maometto, «personaggio centrale di un gruppo debole e discriminato». Per lui è stata un’immensa menzogna di unanimismo, perché quel giorno il popolo non era Charlie, non erano i giovani delle periferie, musulmani o no, non erano neppure gli operai della provincia. I quali in sostanza non c’erano. Né gli uni né gli altri.

Richiamandosi agli studi di Durkheim sul suicidio , e a quelli di Max Weber, Emmanuel Todd si propone col suo libro di far capire alla gente i valori profondi che la fanno agire e che non sono sempre quelli che immagina. Lui si basa sulla teoria delle “due France”. Da una parte c’è la vecchia Francia laica e repubblicana. In particolare il Bacino parigino e la facciata mediterranea. La Francia che ha fatto la rivoluzione. Dall’altra parte c’è la Francia periferica: l’Ovest, una parte del Massiccio centrale, la regione Rodano-Alpi, la Lorena, la Franca contea. Tutte regioni che hanno resistito alla rivoluzione e che sino alla fine della Seconda guerra mondiale hanno conservato un forte impronta cattolica. Quando si entra nelle strutture familiari di queste zone, sostiene Todd, si nota un’assenza dei valori d’uguaglianza, ad esempio tra fratelli e sorelle riguardanti l’eredità.
Ad ispirare diffidenza nello storico-demografo è stata la forte mobilitazione della Francia tradizionale. L’11 gennaio è stata il doppio di quella della Francia rivoluzionaria. Lo affermano, dati alla mano, gli istituti di statistica. Le regioni periferiche, storicamente antirepubblicane, hanno manifestato più di quelle atee e rivoluzionarie. Insomma, secondo Todd, i bastioni ex cattolici si sono espressi in favore della bestemmia. La manifestazione ha illuminato la vera natura del sistema sociale e politico francese. Vale a dire una Repubblica che, per lui, non integra tutta la popolazione, ma che comprende a pieno titolo e diritto quella educata con studi superiori, le classi medie e la gente anziana. E trascura la parte debole della società. Debole anche religiosamente.
Manuel Valls reagisce con un articolo su Le Monde al libro di Emmanuel Todd. Nega anzitutto che la dimostrazione dell’11 gennaio sia stato un attacco all’Islam. “Calpestare Maometto?” Nessuno lo voleva. La manifestazione era per la tolleranza e per la laicità. È stato un grido lanciato contro il jihadismo che aveva appena assassinato dei cittadini francesi. Richiamandosi abusivamente a una fede. Se molti cittadini si sono tenuti quel giorno in disparte, non hanno ritenuto opportuno unirsi ai quattro milioni di Place de la République, è un fatto che naturalmente suscita interrogativi nei politici e nel governo. Ma questo non basta per denigrare un grande avvenimento popolare, una reazione sana di larga parte del paese. Se non tutto era perfetto non bisogna abbandonarsi all’autoflagellazione. Manuel Valls esclude che un’analisi, sia pure lucida, possa rendere meno nobile l’azione repubblicana dell’11 gennaio. E riesca a dissacrarla.

Intervista alla scrittrice Joyce Carol Oates “Ecco perché io non sarò mai Charlie”
di Antonio Monda Repubblica 11.5.15
NEW YORK OYCE Carol Oates accetta di intervenire sulla questione del premio a Charlie Hebdo, che ha spaccato il Pen Club in due gruppi di scrittori composti entrambi da autori di alto livello. La Oates non è intervenuta immediatamente nella polemica, e dopo qualche giorno di riflessione ha deciso di manifestare il proprio sostegno a coloro che protestavano per il premio dato al giornale satirico francese vittima dell’attentato terroristico di matrice islamica in cui sono morte 12 persone nel gennaio scorso. La scrittrice non arriva tuttavia invitare al boicottaggio. È appena tornata dalla California, e spiega la sua opinione misurando le parole.
«I media stanno amplificando le polemiche, dando un quadro di lotte intestine che non fa alcun bene al Pen», racconta con amarezza, «è un’istituzione che fa molto, ma molto di più che dare un premio».
Ritiene si tratti di una frattura insanabile?
«No, penso che non sia irreversibile. La mia opinione è che alcuni scrittori abbiano avuto una crisi di coscienza riguardo al possibile razzismo delle vignette di Charlie Hebdo, ritenendo quindi che non si potesse dare un premio ai vignettisti. Penso che ci sia stata poca chiarezza sulla motivazione del premio, dato al “coraggio”».
Salman Rushdie ha avuto una posizione durissima nei confronti di chi ha boicottato il premio, definendo costoro “donnicciole”.
«In un primo momento ha reagito in maniera emotiva nei confronti di scrittori amici che non avevano la sua stessa opinione, poi ha cambiato tono. Quello che danneggia il Pen è soprattutto la reazione di alcuni membri nei confronti di altri riguardo alla “libertà di espressione”. E questo per alcuni rappresenta una sorpresa. Io ho sottoscritto la lettera dei sei dissidenti, che hanno agito secondo coscienza, sperando che il Pen rimanga unito, e che questa vicenda non trascenda da un dibattito tra opinioni diverse, cosa che in realtà è stato, al di là dell’emotività delle prime ore».
Teju Cole, che è in prima fila tra i dissidenti, scrisse pochi giorni dopo la strage che, al di là dell’orrore e la pietà, è impossibile solidarizzare con una rivista come Charlie Hebdo senza di fatto appoggiarne il contenuto.
«Io credo che la tradizione americana — o almeno quella che dovrebbe essere la tradizione americana — dice che invece si può».
Allora perché si è schierata con coloro che hanno preso le distanze dal premio?
«Credo che la posizione corretta sia quella di garantire a riviste come Charlie Hebdo il diritto di esprimersi, anche quando hanno posizioni volgari, vigliacche, blasfeme e stupide. Tuttavia, non ero entusiasta riguardo l’idea di premiarla perché ritengo che mandi un segnale sbagliato a chi con capisce quanto libertario sia il Pen. Molta gente pensa che un premio di questo tipo dia autorevolezza anche al contenuto».
Ma la missione del Pen è proprio celebrare coloro che sono vittime a causa della libertà di espressione: lei cosa avrebbe fatto per ricordare l’atrocità del sette gennaio?
«Non ero in quel comitato, ed esito a giudicare perché spesso questi comitati fanno un grande lavoro che non viene celebrato. Capisco la necessità di affrontare l’orrore di quanto avvenuto negli attacchi: forse mi sarei limitata ad una menzione. E nonostante non siano state vittime di un massacro penso ad esempi come Edward Snowden e Chelsea Manning: anche questi sono casi di coraggio ».
Spesso la satira appare solo un mezzo per un attacco politico.
«Ora è diventato un cliché dire “Sono Charlie Hebdo”, senza sapere bene cosa significhi. La satira probabilmente non è mai apolitica, altrimenti quale sarebbe il suo proposito?».
Esiste un limite tra satira e attacco politico?
«Ogni società ha le proprie tradizioni e aspettative. Esiste un senso comune di comportamenti accettati, e tutto il resto è considerato illegale, immorale o tabù. Io sono pronta ad accettare il fatto che il Pen non abbia commesso un brutto errore dando un premio ad una rivista che si è distinta, tra le altre cose, per razzismo: rivendico tuttavia il diritto di non avere certezze ».
Ogni religione ha i propri estremisti, ma i fondamentalisti islamici massacrano e i leader religiosi arrivano alla fatwa.
«Nel passato anche altre religioni hanno avuto atteggiamenti simili: basta pensare all’Inquisizione o alla repressione da parte degli ortodossi di ogni culto nei confronti di chi era considerato eretico. Penso anche ai Puritani che qui nel nuovo mondo perseguitavano donne che consideravano streghe probabilmente solo perché anticonformiste. Tutti costoro si sono distinti per brutalità, ma si tratta appunto del passato. Ovvio che il terrorismo non è limitato al fondamentalismo islamico, ma oggi lo percepiamo come la minaccia più grande. Ma ci sono anche minacce che provengono da altri governi in forme più ellittiche. Aggiungo che nel nostro paese ci sono persone in carcere, che vivono in condizioni terribili nonostante abbiamo commesso crimini non violenti. Mi chiedo se questo sia da considerare una forma di “terrorismo di Stato”. Ovvio che non sto facendo un parallelo, e so bene che i più temibili sono i terroristi islamici: è per questo che sono anche i più seguiti dai media».
Chi ha voluto dare il premio a Charlie Hebdo ha sottolineato la volontà di mandare un segnale al mondo fondamentalista.
«Il Pen non ha nessun membro che proviene da quel mondo. E dubito che i fondamentalisti siano stati sfiorati da quanto dichiarato: perché questa gente dovrebbe occuparsi di un premio? Aggiungo che anche grande parte degli americani è indifferente al Pen, e hanno visto solo di sfuggita quanto è stato scritto nelle ultime due settimane. La nostra ampia cultura è focalizzata sulla politica, lo sport e le celebrità, non sugli scrittori e i loro premi».
La satira deve ferire sempre?
«L’unica satira che conosco bene è quella inglese del Diciottesimo secolo, in particolare quella di Jonathan Swift che era a favore dei deboli irlandesi contro i potenti inglesi. Specie in una Una modesta proposta la sua satira è indignata, morale e immaginata in maniera brillante. Quella sì che è satira, non c’è alcun paragone con le vignette di Charlie Hebdo ».

Una sinistra cieca con gli islamisti Le ragioni (solide) di Michael Walzer
di Massimo Gaggi Corriere 10.5.15
«Questa sinistra che non ha il coraggio di criticare l’Islam» radicale per paura di essere accusata di islamofobia, titola Le Monde pubblicando in prima pagina un articolo del filosofo Michael Walzer. Frustate per gli intellettuali europei da un campione della sinistra americana? Non proprio visto che l’articolo è sostanzialmente la riproposizione di quello comparso a gennaio su Dissent , la sua rivista di cultura politica (il cui sito ieri era stranamente inaccessibile). Walzer parla a tutte le sinistre, a partire dal quella Usa, quando nota che quasi tutti, benché incapaci di interpretare i fenomeni religiosi estremi, condannano gli attacchi dei nazionalisti hindu e dei monaci buddisti contro le minoranze musulmane in India e Birmania e anche il sionismo messianico dei coloni israeliani, ma si fermano davanti al fanatismo religioso degli jihadisti e all’uso della violenza da parte di Hamas e degli hezbollah: anche quando arriva la condanna, i loro atti vengono considerati reazioni all’imperialismo dell’Occidente e alla povertà. Niente scontro di civiltà, ammonisce il filosofo, perché il dialogo col mondo musulmano è possibile e necessario, ma non si può rinunciare alla battaglia ideologica per contenere il fanatismo islamico che rifiuta la modernità.
   L’appello di Walzer a non farsi accecare dall’antiamericanismo e dal relativismo culturale fino a rinunciare alla difesa di valori fondanti della sinistra come libertà individuale, democrazia e parità dei sessi, era finito su un binario morto. Le Monde lo rilancia opportunamente nei giorni in cui le contestazioni di alcuni scrittori Usa al premio del Pen Club a Charlie Hebdo e la pubblicazione, in Francia, di un saggio nel quale Emmanuel Todd parla del diritto d’espressione della rivista satirica francese come di una questione di lotta di classe, fanno riemergere i dubbi circa la capacità dei progressisti di difendere i loro valori davanti all’incendio del radicalismo religioso. 

Quattro mesi dopo chi è ancora Charlie? Lo psicodramma del settimanale satirico francese colpito dai terroristi lo scorso 7 gennaio: adesso le copie e gli utili volano ma i redattori-azionisti si dividono e qualcuno se ne va Leonardo Martinelli  Stampa 22 5 2015
Qui est Charlie?, il libro di Emmanuel Todd, «sociologia di una crisi religiosa», come recita il sottotitolo, potrebbe essere l’ennesimo problema di questo giornale satirico, che dopo gli attentati del gennaio scorso è stato scaraventato suo malgrado in pasto alla curiosità (a tratti morbosa) dei media francesi. Patrick Pelloux, 51 anni, uno dei volti simbolo del settimanale, una doppia vita da medico urgentista e cronista di Charlie Hebdo, mette subito le mani avanti: «Non l’ho letto e non lo leggerò. Mi è bastato ascoltare la sua intervista alla radio, dove ci accusava di essere islamofobi e definiva così anche chi ha manifestato per noi. Abbiamo altre priorità che il libro di Todd».
I problemi interni
Patrick esce ed entra, con le solite guardie dal corpo alle calcagna, dall’edificio del quotidiano Libération, che subito dopo la strage si è offerto di ospitare la redazione di Charlie. Siamo dietro place de la République, a una manciata di minuti da rue Nicolas Appert, dove quello stupido 7 gennaio i fratelli Kouachi fecero fuoco con i loro kalashnikov: nove morti e diversi feriti, nel corpo e nell’anima. Il palazzo di Libération è un vecchio garage degli anni 50 ristrutturato : sulla rampa i giornalisti salgono da un piano all’altro. In una sala lavorano quelli di Charlie. I contatti con i colleghi di Libé sono sporadici, a causa anche dei controlli di sicurezza ferrei. Davanti alla sala stazionano in permanenza una decina di poliziotti in borghese, le scorte dei disegnatori e giornalisti più in vista. Tutti assieme sono come una grande famiglia, «anche se cerchiamo di restare discreti, di diventare invisibili», confida una delle guardie del corpo.
A settembre Charlie Hebdo dovrebbe trasferirsi in una redazione propria, dall’altra parte della città, un vero bunker in fase di allestimento. Si dice nel 13° arrondissement, ma l’ubicazione resta segreta. Sulla scena pubblica, invece, finiscono quotidianamente i problemi interni alla redazione, «le altre priorità» a cui alludeva Pelloux. Lui arrivò sul luogo della strage pochi minuti dopo. E nei giorni successivi si liberò dal magone parlando a ruota libera davanti alle telecamere. Piangendo, soprattutto.
4,2 milioni in donazioni
A Luz, 43 anni, è andata diversamente. Disegnò la copertina del primo numero dopo il massacro, con il solito Maometto e poche parole: «È tutto perdonato». Adesso parla di «una palla in mezzo alla pancia» che è ancora lì. Pochi giorni fa Luz ha annunciato che a settembre, quando gli altri si trasferiranno, lascerà Charlie, «perché la chiusura di ogni numero per me è diventata un incubo. È estenuante trascorrere notti insonni a convocare gli scomparsi. Chiedersi cosa Charb, Cabu, Honoré, Tignous farebbero, se ci fossero ancora».
Ognuno alle prese con le sue ansie. Riss, 48 anni, ha sostituito Charb alla direzione del giornale. Deve ancora compiere continui esercizi di riabilitazione alla spalla, dove quel giorno ha ricevuto una pallottola. Ha fama di duro, di uomo che ha la testa nella macchina del giornale, nel lavoro da compiere. I sentimenti vengono dopo. È anche il proprietario del 40% di Charlie ed è finito nel mirino della maggioranza dei giornalisti (in tutto una ventina di dipendenti), compresi Luz e Pelloux, che vorrebbero ripartire il capitale equamente tra i redattori-azionisti. «Perché i soldi che sono arrivati a Charlie grazie ai doni e al boom delle vendite non appartengono agli azionisti attuali del giornale ma a tutti e soprattutto alle vittime», osserva Pelloux. Finalmente, pochi giorni fa, Riss ha assicurato che i 4,2 milioni di euro, frutto delle donazioni, saranno distribuiti interamente tra le vittime e le loro famiglie. E si è detto disposto a discutere dell’apertura del capitale, «anche se lo decideremo a settembre, non dobbiamo farlo ora sulla scia dell’emozione».
Una bella storia rovinata
Le solite faccende di soldi che vengono a rovinare una bella storia. E quanti soldi... Il giornale, che prima dell’attentato a malapena vivacchiava, vende oggi 170 mila copie ogni settimana, alle quali vanno aggiunti 270 mila abbonamenti. A fine anno potrebbe ritrovarsi con 15 milioni di euro di utili netti. Riss, comunque, ha assicurato in un’intervista a Le Monde che la vita a Charlie Hebdo, al di là degli scontri attuali, «non è mai stata un fiume tranquillo». La vita è un lungo fiume tranquillo si intitolava una commedia della fine degli Anni 80, così francese. Romantica. E tanto amara. 


Citoyens alle armi contro l’islam, ora è a pezzi lo spirito dell’11 gennaioCesare Martinetti 
Chi era Charlie? Il francese universale, accogliente, multietnico, «droit-de-l’hommiste», che vuol dire rispettoso della religione laica dei diritti dell’uomo, in definitiva buonista, tollerante, voltairiano, atei-cattolici-musulmani tutti insieme? O invece un/una francese bianco/a, di cultura medio alta, parigino e cittadino, non importa se di sinistra o di destra, anzi sia di sinistra sia di destra compresa quella estrema che si è manifestata senza pudori nell’inneggiare ai cecchini della
police
che vegliavano sulla «marcia repubblicana» dell’11 gennaio? Proprio quei francesi - tutti, manifestanti, giornalisti, fotografi, poliziotti - che cantavano ritmicamente la
Marsigliese
alzando sensibilmente il tono al passaggio: «Aux armes, citoyens!». Alle armi, cittadini, contro i terroristi, islamici.
Sono passati più di quattro mesi dalle fucilate di Charlie Hebdo (dodici morti) e dell’Hypercasher (quattro vittime), e la Francia non sa più come rispondere alla domanda chi era Charlie, visto che anche dentro i superstiti di quello scandaloso settimanale satirico non si finisce di sparare, a parole. L’altro giorno Luz, Rénald Luzier, il vignettista scampato per puro caso alla carneficina, ha annunciato con un’intervista a Libération che lascerà il settimanale: «Tutti invocano a sproposito lo spirito Charlie... gli unici a non farlo, per pudore, siamo noi... io non sarò più Charlie Hebdo, ma sarò sempre Charlie». Non disegnerà più Maometto, dopo averlo raffigurato in forma di membro maschile con turbante bilobato (come due palle affiancate) nella copertina dopo il massacro: «Tutto è perdonato». E Jeannette Bougrab, la compagna di Charb (Stéphane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo, morto nell’attentato), lo ha accusato di viltà lasciando cadere un’immagine terribile: «Sta finendo il lavoro dei fratelli Kouachi...» (i killer del 7 gennaio).
Stracci, insanguinati, che volano, metafora della rottura dell’esprit dell’11 gennaio, giorno della grande manifestazione, la messa in scena dell’unità nazionale. Emmanuel Todd ha gettato un sasso nello specchio della retorica nazionale: «Un accesso di isteria». O i «funerali del ’68», come aveva già scritto Christian Salmon. Ma che in quella folla non ci fossero i giovani di banlieue, né gli operai, né i musulmani (salvo i rappresentanti ufficiali del culto), nessuno che dicesse «Je suis juif» (nonostante il deliberato attacco antisemita a Porte de Vincennes), bensì la Francia perbene e perbenista, i massoni con il grembiulino, la rivincita delle classi medie in crisi, i giornali l’hanno scoperto a poco a poco. E ora tutti si chiedono: di chi Charlie era davvero il nome? 

Emmanuel Todd: Quel giornale ormai è islamofobo
Quel giorno, l’11 gennaio scorso, quattro milioni di francesi sono scesi in piazza dopo gli attentati. Ma Emmanuel Tod no. Storico, sociologo e antropologo, discendente «di un’eccellente famiglia borghese di sinistra» o meglio «giudeo-bolscevica», come dice lui, ha aspettato più di quattro mesi a dire la sua. Lo fa ora con il libro Qui est Charlie?, pubblicato da Seuil.
osa pensa delle tragedie di gennaio ?
«Il diritto a essere blasfemi è assoluto. E quelli di Charlie Hebdo hanno il diritto a essere blasfemi. Quindi, l’attentato è stato qualcosa di ignobile. Ma non mi impedisce di pensare che fare delle caricature di Maometto non sia la priorità della società francese. E che non sia elegante, tanto più sapendo che i musulmani sono una minoranza periferica e dominata».
Le piace quel giornale?
«Adoravo il Charlie Hebdo post ’68. Poi non mi è piaciuto più. È diventato un giornale islamofobo, fatto da gente completamente sprovvista di talento».
Islamofobe secondo lei sono state anche le manifestazioni dell’11 gennaio?
«Quando ho visto la carta della Francia con l’intensità della partecipazione, ho avuto un’intuizione. Il territorio del nostro Paese si divide in due parti, la Francia laica e che ha fatto la rivoluzione e l’altra, cattolica e monarchica. In questa Francia, di quelli che chiamo i “cattolici zombie”, la pratica del cattolicesimo è stata intensa fino a tempi relativamente recenti. Ebbene, è lì che la partecipazione alle manifestazioni è stata decisamente superiore. Molto più forte, ad esempio, a Lione, nel cuore di una delle aree a maggiore tradizione cattolica, che nella laica Marsiglia».
Chi è sceso in piazza ?
«Di certo non i figli degli immigrati maghrebini della periferia. E neanche gli operai, che ormai votano Front National. Sono stati invece il ceto medio e quello medio-alto, i più agiati».
Lei parla anche di antisemitismo in relazione all’11 gennaio.
«In vari casi, soprattutto nelle terre dei cattolici zombie, hanno ricordato le vittime degli attentati di 
Charlie Hebdo
. E tanti altri soprusi, anche le violenze subite dalle donne. Ma neanche una parola è stata spesa per chi ha perso la vita all’Hypercacher». 
[L. M.]

Per gli intellettuali italiani l’autocensura fa più paura dell’Isis
Nell’ultimo numero di Nuovi Argomenti” tra autrici e autori, in 71 rispondono a un quesito sulla libertà d’espressionedi Luca Mastrantonio Corriere 25.5.15
Qual è la principale minaccia per la libertà d’espressione in Italia? Non il terrorismo islamico che ha sventrato la redazione di Charlie Hebdo , per il quale anche gli intellettuali italiani, con eccezioni come Roberto Saviano, sembrano adagiarsi in una comfort zone dove la difesa assoluta della libertà di satira si perde (e rifugia) tra mille distinguo. No, non è l’Isis o lo scontro di civiltà a condizionare gli intellettuali italiani. Almeno, non quanto l’autocensura, generata da conformismo ispirato al politicamente corretto, inibito dal potere, ingolfato da rigurgiti giudiziari. È l’autodenuncia ricavabile dalle risposte di una settantina di scrittori, intellettuali e giornalisti al questionario del nuovo numero di Nuovi Argomenti . Da Erri De Luca, processato per il suo sostegno al sabotaggio della Tav, a Walter Siti, che critica la mania di intercettare tutto e tutto pubblicare sul web, passando per Giuliano Ferrara e Edoardo Nesi.
Il titolo della rivista edita da Mondadori non poteva essere più felice nell’incarnare il paradosso di una libertà che si autocensura sonoramente: «Dite quel... bip... che vi pare». Ma di chi è la colpa?
Per Mariapia Veladiano c’è una nuova retorica del progresso; per Marco Missiroli i tabù sono sessuali, razziali e religiosi. Errico Buonanno parla di «sudditanza psicologica» verso la demagogia antidisfattista. Per Marco Cubeddu, caporedattore della rivista che firma l’introduzione in cui rivendica la polifonia dell’inchiesta, si cade nelle reti di relazioni e interessi, tessute per far carriera (scrive Giancarlo Liviano D’Arcangelo).
Lo stile di questa autocensura è il politicamente corretto: per Giancarlo De Cataldo sta «incartando» le democrazie (e ricorda che «marocchino» veniva usato male, ma con meno razzismo di «extracomunitario»); Nicola Lagioia lo individua nel «laicismo progressista», abile a occultare, sotto le proprie coltri, una violenza subdola.
Se Gabriele Pedullà invita a diffidare dei «presunti iconoclasti», Stefano Petrocchi, patron del premio Strega, parla di conformismo delle opinioni, e difende De Luca; come fa anche Massimiliano Parente, da libertario. Molti, pur non condividendo le sue opinioni, stigmatizzano il processo a suo carico, che ha logiche da Anni 70: Aldo Cazzullo, Alessandro Zaccuri, Antonella Lattanzi e altri. De Cataldo, Mario Santagostini, Giorgio Van Straten e Raffaele La Capria, invece, senza citare lo scrittore, sostengono che sussiste una qualche responsabilità giuridica o etica per chi «incita o appoggia pubblicamente atti violenti o illegali».
La radiografia è precisa, dunque preziosa. In Italia, una riflessione sulle stragi d’inizio 2015 deve fare i conti con un anacronistico processo in stile Anni 70 ad un anacronistico intellettuale in stile Anni 70. 

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