lunedì 11 maggio 2015

La fine del "consenso del 1945", l'offensiva neoliberale e la complicata nascita del Mondo Nuovo



La lettera di Berlusconi al Corriere: «L’Occidente e l’errore di voler isolare la Russia di Putin»
La scelta di molti leader Ue di non essere a Mosca per l’anniversario della vittoria contro il nazifascismo è sbagliata. Poltrone vuote sulla Piazza Rossa sono una sconfittadi Silvio Berlusconi Corriere della sera 9 5 2015

Settanta anni dopo tornano le utopie che unirono il mondo alla fine della guerra
di Ian Buruma Repubblica 8.5.15
ALLA fine della Seconda guerra mondiale, conclusasi ufficialmente l’otto maggio del 1945, gran parte del mondo era ridotto a macerie. Ma se è vero che la capacità distruttiva dell’uomo conosce pochi limiti, la sua abilità nel ricominciare tutto da capo è altrettanto straordinaria. Forse è questo il motivo che ha permesso all’umanità di sopravvivere sino ad oggi.
Al termine del conflitto milioni di persone erano troppo affamate e sfinite per pensare ad altro che non fosse la propria sopravvivenza. Eppure tra le devastazioni della guerra si diffuse e prese rapidamente piede un’ondata di idealismo: un senso collettivo del “mai più”, la determinazione condivisa di costruire un mondo migliore, più equo, più pacifico e più sicuro.
Ecco perché nell’estate del 1945, prima ancora della sconfitta del Giappone, il grande eroe della guerra Winston Churchill perse le elezioni in Gran Bretagna. Uomini e donne non avevano messo a rischio la propria vita per ritornare a un’epoca di privilegi di classe e privazione sociale: volevano degli alloggi e un’istruzione migliori, e un servizio sanitario gratuito e accessibile a tutti.
Richieste analoghe si levavano dal resto d’Europa, dove la resistenza antinazista o antifascista era spesso guidata da uomini di sinistra, o addirittura comunisti, e in cui i conservatori del periodo che aveva preceduto il conflitto erano considerati compromessi per aver collaborato con i regimi fascisti. In Paesi come la Francia, l’Italia e la Grecia si parlò di rivoluzione, alla quale tuttavia non si arrivò mai perché era appoggiata né dagli alleati occidentali né da Stalin - il quale si accontentò di stabilire un impero nell’Europa orientale.
In Francia persino il generale de Gaulle, leader della resistenza e uomo della destra, fu costretto ad accogliere i comunisti nel suo primo governo del dopoguerra e accettò di nazionalizzare industrie e banche. La sterzata a sinistra, verso degli stati sociali e socialdemocratici, interessò tutta l’Europa occidentale. Era parte del cosiddetto “consenso del 1945” (anche detto “consenso keynesiano”: con questa espressione si intende l’idea della necessità dell’intervento statale per promuovere lo sviluppo ndr.) Nelle ex colonie europee dell’Asia, dove le popolazioni locali non avevano alcun desiderio di tornare a farsi governare da potenze occidentali che erano state così ignobilmente sconfitte dal Giappone, si assisteva intanto a una rivoluzione di altro tipo: vietnamiti, indonesiani, filippini, birmani, indiani e malesi reclamavano anch’essi la libertà.
A queste aspirazioni fu spesso data voce in seno alle Nazioni Unite, fondate nel 1945. Anche l’Onu, così come i sogni di unità europea, furono un’espressione del “consenso del 1945”. Per un breve periodo molti personaggi di spicco, tra cui ad esempio Albert Einstein, nutrirono la convinzione che solo un governo mondiale avrebbe potuto garantire la pace globale.
Quel sogno svanì rapidamente quando la Guerra fredda divise il mondo in due blocchi ostili. Anche se per certi versi, in Occidente, la politica della Guerra fredda non fece che rafforzare il Consenso del 1945. Il comunismo, ancora ammantato negli allori dell’antifascismo, esercitava un ampio richiamo intellettuale ed emotivo sul cosiddetto Terzo mondo, ma anche sull’Europa occidentale. La democrazia sociale, con la sua promessa di più eguaglianza ed opportunità per tutti, agì da antidoto ideologico. La maggior parte dei socialdemocratici erano infatti profondamente anticomunisti.
Sono trascorsi settant’anni, e del Consenso del 1945 oggi non resta molto. Solo in pochi riescono ad entusiasmarsi per l’Onu; il sogno europeo è in crisi, e gli stati sociali vengono erosi ogni giorno di più.
Il processo di decomposizione ebbe forse inizio negli anni Ottanta, sotto Ronald Reagan e Margaret Thatcher. I neo-liberal criticavano i costi del welfare pubblico e la tutela degli interessi sindacali garantiti per legge. I cittadini, si pensava, avrebbero dovuto imparare a fare affidamento solo su se stessi. Lo Stato ci rendeva fiacchi e dipendenti. Per citare le famose parole della signora Thatcher: la società non esiste. Esistono solo famiglie e individui che dovrebbero prendersi cura di se stessi.
Il Consenso del 1945 subì un colpo ben più grave proprio mentre tutti gioivamo per il tracollo dell’impero sovietico, l’altra grande tirannia del Ventesimo secolo. Nel 1989, anno glorioso della storia europea, si ebbe l’impressione che l’asservimento del- l’Europa orientale, tetro retaggio della Seconda guerra mondiale, fosse finalmente giunto al capolinea. E per molti versi era proprio così. Insieme al crollo del tanto odiato modello sovietico, però, molto altro venne meno. La democrazia sociale, considerata un antidoto al comunismo, iniziò a perdere la propria ragione d’essere.
Ogni forma di ideologia di sinistra, o meglio: tutto ciò che puzzava di idealismo collettivo, fu visto con sospetto e considerato frutto di un utopismo malriposto che sarebbe potuto sfociare solo nel gulag.
Quel vuoto fu colmato dal neoliberalismo, che per taluni si incarnò nella creazione di vaste ricchezze - seppur a scapito dell’ideale di eguaglianza emerso dalla Seconda guerra mondiale. Lo straordinario successo con cui è stato accolto il libro “Il capitale nel XXI secollo” dell’economista francese Thomas Piketty dimostra con quanta intensità sia sentito il crollo della sinistra.
In anni recenti, per soddisfare l’esigenza umana di ideali collettivi, sono emerse anche altre ideologie. Il populismo di destra ha riacceso il desiderio di comunità nazionali “pure”, dove le minoranze sono considerate una minaccia, mentre l’internazionalismo della vecchia sinistra è stato perversamente rivisitato dai neocon americani, desiderosi di imporre un ordine mondiale democratico attraverso la forza militare Usa.
La risposta da opporre a questi allarmanti sviluppi non è la nostalgia. Tornare indietro semplicemente non è possibile. Troppe cose sono cambiate. E tuttavia vi è il forte bisogno di una nuova aspirazione verso l’eguaglianza sociale ed economica e la solidarietà internazionale. Non sarà come il Consenso del 1945, ma in occasione di questa ricorrenza sarebbe bene ricordare i motivi che di esso determinarono l’affermazione.
(Traduzione di Marzia Porta) 

Russia e Cina si piacciono molto (ma non lasciamo che vadano a nozze)
di Guido Santevecchi Corriere 9.5.15

È il presidente cinese Xi Jinping il leader più importante che assisterà oggi a Mosca al fianco di Vladimir Putin alla grande parata per i 70 anni dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale.

L’assenza dei capi di governo occidentali è colmata anche dai soldati dell’esercito cinese, inviati a marciare spalla a spalla con i compagni russi.
Pechino sta ottenendo armi ad alta tecnologia dai russi: ha acquistato 24 caccia Sukhoi Su-35; sei sistemi missilistici antierei S-400; sottomarini della classe Kalina di nuova generazione. E tra una settimana nove unità navali delle flotte russe e cinese entreranno nel Mediterraneo per manovre congiunte. Ma non ci sono piani per un’alleanza militare formale, resta la memoria della rottura sino-sovietica del 1969. È sicuro però che oggi Xi ammira Putin per il suo decisionismo e la sua energia. I due si piacciono, non perdono occasione per incontrarsi.
Così Cina e Russia firmano decine di accordi commerciali: promettono di portare l’interscambio a 100 miliardi di dollari l’anno; tracciano la mappa della Nuova Via della Seta; cominciano la costruzione di due grandi gasdotti. Putin, isolato in Occidente per l’impresa avventurista in Crimea e Ucraina, ha staccato un assegno da 18 miliardi di dollari per partecipare al fondo strategico dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) al quale Pechino ha già dedicato 41 miliardi: un’altra mossa, dopo la Banca per le infrastrutture a guida cinese, per smarcarsi dal predominio finanziario americano.
Sul fronte economico la Russia è il partner debole di questa nuova solidarietà e Pechino, investendo miliardi negli Stan ex sovietici, dal Kazakhstan all’Uzbekistan, penetra nella periferia dell’ex impero sovietico.
Insomma, Russia e Cina possono essere partner che condividono il letto, ma hanno sogni diversi.
Stati Uniti ed europei debbono stare attenti a non cercare di isolare la Russia e contenere troppo la Cina: potrebbero spingere le due potenze a trasformare l’intesa in un asse strategico.


Mosca, la parata della rivalsa sull’Occidente
Stamane sulla Piazza Rossa va in scena la più grande sfilata militare della storia russa e sovietica

di Paolo Valentino Corriere 9.5.15
MOSCA Sarà l’inestricabile racconto di due Russie, la Russia della memoria e la Russia della rivalsa. Sarà la celebrazione orgogliosa di una vittoria, che cambiò il corso della Storia e forgiò nel sangue di 27 milioni di vittime l’identità di un popolo. E sarà la proiezione assertiva e neo-nazionalista di un Paese, che si sente circondato da nemici e ripropone l’idea della propria forza e il mito della propria invincibilità.

Non ha lasciato nulla al caso, Vladimir Putin, nella sceneggiatura del settantesimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, l’unica definizione che i russi posseggono per la Seconda Guerra Mondiale. Ogni dettaglio, ogni momento di questo 9 maggio sarà parte di un affresco collettivo, ricco di suggestioni e di messaggi sottotraccia. In fondo, perfino la diserzione di gran parte dei 68 capi di Stato e di governo invitati a partecipare alla cerimonia, soprattutto quella dei principali leader occidentali, alimenta la narrativa della fortezza assediata alimentata dallo dello Zar del Cremlino, che ostenta indifferenza, mentre accoglie i nuovi amici venuti da Oriente.
Alle 10 di stamane la Piazza Rossa, aggettivo che in russo antico vuol dire bella, sarà palcoscenico della più grande parata militare nella vicenda russa e sovietica: tra il museo storico e la cattedrale di San Basilio sfileranno più di 16 mila uomini, fra i quali 1300 soldati di unità speciali straniere, guardie d’elite serbe, granatieri indiani, guardie d’onore cinesi. E ancora 150 aerei da combattimento, più di 200 veicoli corazzati, fra i quali l’ultimo gioiello della difesa russa, l’Armata T-14, il micidiale carro armato di nuova generazione, assurto a simbolo del programma di riarmo da 650 miliardi di euro deciso da Putin. E a ricordare la parità strategica con gli Stati Uniti, ci saranno i nuovissimi RS-24 Yars, i missili intercontinentali che possono trasportare fino a 10 testate nucleari indipendenti.
Sul palco che nasconde il Mausoleo di Lenin, ci saranno il cinese Xi Jinping (con il quale ieri Putin ha firmato una serie di accordi economici) e l’indiano Modi, il presidente egiziano Al-Sisi e il leader di Cuba Raúl Castro. Assenti Obama, Hollande, Cameron e Renzi per protesta contro la politica di Putin in Ucraina, solo alla deposizione dei fiori sulla tomba del milite ignoto lo Zar verrà affiancato da alcuni ministri degli Esteri occidentali, il francese Laurent Fabius e il nostro Paolo Gentiloni. Diversa la scelta della Germania, che ha già mandato il capo della diplomazia, Frank-Walter Steinmeier, a Volgograd, già Stalingrado, teatro della battaglia che cambiò le sorti del conflitto. Angela Merkel verrà domani e tornerà con Putin sotto le mura del Cremlino, per rendere omaggio all’eroismo degli antichi nemici. A mezzogiorno, tutte le chiese di Mosca suoneranno a morto per 15 minuti. In ogni tempio ci sarà un de profundis. E’ la prima volta che la Chiesa ortodossa, pilastro del sistema putiniano, dedica una liturgia ai caduti nella Grande Guerra Patriottica. Diventerà tradizione.
Ma per quanti simbolismi e quanta volontà di potenza Vladimir Vladimirovich avvia voluto caricare nelle celebrazioni, nulla poteva essere aggiunto e nulla può considerarsi esagerato nella totale identificazione dei russi con questa ricorrenza. Non ci sarà nulla di forzato nel corteo dei familiari che porteranno i ritratti dei caduti lungo via Tverskaya per confluire sulla Piazza Rossa, o nei veterani che forse per l’ultima volta parteciperanno a un 9 maggio così significativo. Non c’è nulla di posticcio nella marea di popolo, che dalle prime ore del mattino inonderà come un mare calmo nel centro della capitale.
Certo l’umore sarà quello alimentato da mesi di retorica grande-russa e antioccidentale. Ma con o senza la propaganda del Cremlino, la Guerra Patriottica resta la placenta della memoria collettiva di un popolo, che come nessuno ha pagato nella lotta contro il nazismo: più della metà dei russi ha avuto un parente morto nel secondo conflitto mondiale. Perfino Putin, abbandonando la tradizionale immagine ferrigna, ha ricordato la lotta per la sopravvivenza dei suoi genitori nell’assedio di Leningrado. E’ stata la fugace concessione di un leader, che di regola preferisce il linguaggio della forza e la retorica dell’orgoglio nazionale.

Usa, Cina e Russia La verità sulle armi
di Danilo Taino Corriere 10.5.15
Ci eravamo disabituati a parlare di armi e di arsenali militari, dopo la fine della Guerra fredda. L’abnorme parata militare di ieri sulla Piazza Rossa di Mosca ci riporta indietro, a farlo. Di fronte alla meraviglia (si fa per dire) del nuovo carro armato russo Armata T-14 e dei 140 aerei ed elicotteri da guerra, viene il dubbio che il Cremlino di Vladimir Putin abbia preso la strada di un riarmo sofisticato, forse massiccio. I numeri non dicono tutto, però raccontano cose interessanti. Secondo Sipri — lo Stockholm International Peace Research Institute, una delle fonti sulla sicurezza più autorevoli — nel 2014 la spesa militare mondiale è stata di 1.776 miliardi di dollari, il 2,3% del Prodotto mondiale. Di questi, 84,5 sono quelli che fanno capo a Mosca: il 4,5% del Pil russo.
Significa che sì, il Paese è il terzo del pianeta per spesa militare, dopo gli Stati Uniti e la Cina. Ma a una grande distanza: l’anno scorso, Washington ha destinato alla Difesa 610 miliardi di dollari, il 3,9% del Pil; Pechino 216 miliardi , il 2,06% (i dati cinesi vanno presi con precauzione, la loro trasparenza è minore anche di quella già non cristallina dei budget militari occidentali). Per dire: la spesa russa è di poco superiore agli 80,8 miliardi investiti nell’esercito dall’Arabia saudita (l’Italia è dodicesima al mondo, 30,9 miliardi di dollari). Il Cremlino, insomma, è ancora un grande protagonista sulla scena militare: tra l’altro, è il secondo esportatore mondiale di armi, il 27% di tutte quelle vendute nel mondo, contro il 31% degli Stati Uniti. Ma questi numeri indicano soprattutto che il gap che si è creato con l’America dopo il crollo dell’Unione Sovietica non si chiude ma continua ad allargarsi e che la nuova potenza emergente, la Cina, è ormai un attore più rilevante.
    Sul piano delle armi nucleari, la Russia rimane in un certo senso testa a testa con gli Stati Uniti. Possiede circa 4.300 testate attive, 1.600 delle quali montate su missili balistici di lungo raggio di era sovietica, i quali nei prossimi dieci anni verranno tutti sostituiti da cinque tipi di SS27, assieme a una modernizzazione generale del settore. L’America, d’altra parte, ha 2.100 testate schierate e altre 2.660 di riserva e nel prossimo decennio spenderà 350 miliardi per l’ammodernamento del settore. Come spesso capita, lo sfoggio dei muscoli (la parata di ieri) fa più impressione della loro vera consistenza.

Cina La nuova marcia dell’esercito rosso
Nessuna super-potenza ha incrementato il budget militare quanto Pechino Una corsa al riarmo senza precedenti. E in cinque anni l’export bellico cinese ha superato quello di Germania e Francia fermandosi dietro solo a Usa e Russia. Una crescita che spaventa il mondodi Giampaolo Visetti Repubblica 11.5.15
PECHINO LA Cina non acquista solo industrie, terra, infrastrutture e debiti stranieri. Per conquistare il mondo ha bisogno di armi e Pechino non lesina gli investimenti. Nessuna super-potenza, negli ultimi tre anni, ha incrementato il budget militare quanto la Cina, impegnata in una corsa al riarmo senza precedenti. Il confronto è uno shock non solo nel Pacifico: costringe a spese di guerra miliardarie Usa, Russia e Giappone, ma pure Francia, Germania, Gran Bretagna e Paesi arabi. La reazione a catena impone shopping bellici record in tutta l’Asia, dal Vietnam alla Corea del Sud, dalle Filippine all’India e all’Australia. Se c’è un mercato globalmente in espansione, oggi è quello degli armamenti e Pechino ne è l’indiscusso protagonista. Due giorni fa, per la prima volta, soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato a Mosca sulla piazza Rossa, per ricordare il decisivo «fattore comunista» e il «ruolo asiatico» nella lotta contro il nazismo hitleriano che sconvolse l’Europa del Novecento.
La rinnovata esibizione di forza ha però adesso anche una data e una passerella in Oriente: 3 settembre, piazza Tiananmen. Per celebrare la fine della seconda guerra mondiale, con la vittoria sul Giappone, il presidente Xi Jinping ha invitato nella capitale i capi di Stato e di governo del pianeta, a partire proprio dal russo Vladimir Putin e dal dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che in extremis ha disertato la parata russa. Davanti a loro sfileranno, per la prima volta dall’ascesa al potere del “nuovo Mao”, i gioielli segreti del sempre più sofisticato arsenale cinese. L’imbarazzo diplomatico è ogni giorno più evidente. Il presidente americano Barack Obama e il premier giapponese Shinzo Abe, come la cancelliera germanica Angela Merkel e gli altri leader della Ue, si troverebbero a passare in rassegna le armi cinesi al fianco di despoti asiatici e africani, mentre Pechino lancia la volata verso il riarmo atomico del pianeta e nemmeno un mese dopo il ricordo dell’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki, consumato 70 anni fa.
La scelta di festeggiare la fine dei conflitti del Novecento con uno show di missili, droni, sommergibili e carrarmati, invece che con uno spettacolo dedicato alla pace e alla riconciliazione, per gli analisti conferma il nuovo approccio di Pechino alla politica internazionale. Consumata la fase dell’espansione economica e culturale, per Xi Jinping è giunta l’ora di mostrare i muscoli, sia in patria che all’estero. Ai primi di marzo il silenzio sulla corsa alle armi cinese, mantenuto per dieci anni da Hu Jintao, è stato rotto dalla portavoce dell’Assemblea nazionale del popolo, Fu Jing. «La Cina ormai è un grande Paese — ha detto — e ha bisogno di una forza militare capace di proteggere la sua sicurezza nazionale e il suo popolo». Ha aggiunto che la leadership rossa non ha dimenticato la lezione della storia: «Quando siamo rimasti indietro sull’esercito, siamo stati attaccati e invasi ».
Nessuno oggi può permettersi di minacciare la Cina, ma per l’apparato che governa la Città Proibita un arsenale da incubo è necessario anche per conservare il potere e mantenere la stabilità interna. Le purghe “anti-corruzione” di Xi Jinping decimano i generali e decapitano i vertici delle forze armate. A Pechino da mesi si rincorrono voci sul rischio di tentativi di colpo di Stato e sul conto alla rovesciata scattato per l’implosione del comunismo, come in Unione sovietica nel 1989. Ai successori di Mao investire montagne di yuan in armamenti serve, oltre che a spaventare vicini di casa e Occidente, a blandire i militari fedeli e a confermare che l’apparato della sicurezza rimane la spina dorsale dell’autoritarismo post-rivoluzionario.
L’intelligence straniera è convinta che la spesa in armi cinese, rispetto alle cifre ufficiali, ammonti ad oltre il doppio. L’incremento degli stanziamenti giustifica in ogni caso l’allarme. Questa settimana Cina e Russia svolgeranno le loro prime esercitazioni navali congiunte nel Mediterraneo. La Cina lo scorso anno è diventata il primo importatore mondiale di armi e il terzo esportatore. In cinque anni l’export bellico di Pechino è cresciuto del 143%, superando quello di Germania e Francia e fermandosi dietro solo a Usa e Russia. I media di Mosca ieri hanno rivelato che la Cina ha ordinato all’ex Urss il sistema di missili terra-aria S-400, stanziando oltre 3 miliardi di dollari. Le nuove armi anti-aeree possono distruggere qualsiasi bersaglio anche a lungo raggio, dai caccia ai razzi cruise. In Asia l’investimento certifica l’alleanza bellica Cina-Russia, in risposta a quella Usa-Giappone: rivela però in particolare la necessità di tecnologia dell’industria delle armi di Pechino.
Il caso simbolo è quello della prima portaerei atomica, la “Liaoning”, acquistata quattro anni fa dall’Ucraina: terminato il restauro, tecnici e scienziati cinesi sono stati in grado di avviare il varo della seconda, ormai imminente. Il boom delle importazioni di armi è la via scelta dalla Cina per bruciare le tappe nell’accumulo di conoscenza, sia per modernizzare l’Esercito popolare di liberazione che per irrompere nel mercato mondiale dell’export. A confermarlo, anche le cifre ufficiali. Nel 2014 Pechino ha investito in armi 132 miliardi di dollari, che quest’anno saliranno a 148. Sempre nel 2014 l’incremento annuo della spesa bellica è stato del 12,2%, ridotto al 10,1% nel 2015. La crescita del riarmo resta però sempre superiore a quella del Pil, oscillante tra il 7,4 e il 7%. Pechino impegna in armi il 2,2% del prodotto interno lordo: entro dicembre aumenterà di 50 navi la propria flotta costiera, passerà da 66 a 78 sottomarini di profondità, varerà più imbarcazioni e aerei da guerra di ogni altro Paese. Questo sarà il quinto anno consecutivo di incremento a doppia cifra del budget di difesa, impegnato per un terzo negli stipendi dei 2,3 milioni di soldati.
I dirigenti comunisti rispondono all’accusa di «corsa al riarmo atomico» ricordando che, nello sprint, gli Stati Uniti restano per ora irraggiungibili: 585 miliardi di dollari spesi nel 2014, pari al 3,7% del Pil. Il problema è che il confronto con Usa e Russia è storico, mentre il boom bellico dell’Asia minaccia di preparare i conflitti dei prossimi decenni. A metà gennaio Tokyo ha annunciato che quest’anno riserverà al riarmo 36 miliardi di euro, terzo aumento annuo consecutivo nonostante nel Paese sia ancora in vigore la Costituzione pacifista imposta da Washington nel 1945. Se alle spese belliche di Cina, Giappone e Russia (88 miliardi di dollari) si aggiungono quelle di India (48 miliardi), Corea del Sud (34 miliardi) e delle nazioni emergenti del Sudest, si scopre che la regione Asia-Pacifico dopo secoli è già il più micidiale arsenale del pianeta, anche escludendo quello misterioso della Corea del Nord. Lo spostamento del dominio bellico, dall’Occidente all’Oriente, spaventa Europa e America, ma costituisce il primo allarme proprio in Asia.
Da due anni Cina e Giappone sono ogni giorno ad un passo dal conflitto armato per il controllo dell’arcipelago conteso delle Diaoyu-Senkaku e degli spazi aerei rivendicati sia da Tokyo che da Pechino. Xi Jinping non ha avuto problemi ad entrare in rotta di collisione con Vietnam, Cambogia, Filippine, Malesia, Indonesia e Taiwan per il possesso di centinaia di atolli e scogli corallini nel Mar Cinese meridionale. Tra le isole Spratly, Pechino sta alzando una “grande muraglia di sabbia”, costruendo isole artificiali e allungando la barriera corallifera, aprendo porti militari, piste d’atterraggio ed edifici utilizzabili come caserme. Il governo assicura che si tratta di una «bonifica impeccabile che rispecchia la sovranità nazionale», ma le cancellerie straniere temono che la Cina stia in realtà preparando le «condizioni per un nuovo ordine mondiale » e per un «nuovo tipo di relazioni tra grandi potenze». I servizi Usa, dopo le critiche di Barack Obama al riarmo di Pechino, parlano esplicitamente di «prove di guerra». Per la Cina costituirebbe un esordio assoluto: affari d’oro per i mercanti di morte, l’ultima tragedia per l’umanità.

Chi minaccia la supremazia americana
di Moisés Naìm Repubblica 11.5.15
GLI Stati Uniti continueranno a essere il Paese più potente del mondo? Molti sono convinti che la Cina finirà per soffiargli il primato, per le sue dimensioni smisurate e per il suo progresso economico, sociale e militare che ha quasi del miracoloso. Ma al colosso asiatico manca ancora parecchio per spodestare gli Stati Uniti. La Cina è ancora molto povera: il suo reddito pro capite è equivalente a quello del Perù o delle Maldive. Ma se non sarà la Cina, allora chi sarà? Oppure gli Stati Uniti rimarranno a tempo indefinito la superpotenza planetaria? Non credo. L’influenza internazionale di cui gode l’America è minacciata da divisioni politiche interne ormai croniche e che limitano la sua capacità di guidare il mondo.
Quattro esempi recenti sono indicativi. Il primo ha a che vedere con il Fondo monetario internazionale (Fmi), un’istituzione criticata, ma che se non esistesse bisognerebbe crearla. La sfida non è eliminarla, ma migliorarla. E questo hanno cercato di fare gli Stati Uniti nel 2010 con riforme destinate ad adeguare l’istituzione alla realtà del XXI secolo. Barack Obama aveva proposto di accrescere la partecipazione della Cina al Fondo, portandola dal 3,8 al 6 per cento, percentuale che non rispecchia comunque il fatto che il colosso asiatico presto avrà l’economia più grande del pianeta e che rimarrebbe al di sotto del 16,5% degli Stati Uniti. Le riforme consentirebbero anche di accrescere il peso all’interno del Fondo dei Paesi emergenti, che rappresentano la metà dell’economia mondiale. E questo si tradurrebbe in cambiamenti dell’obsoleta composizione del direttorio dell’istituzione, ancora concepito per riflettere l’ordine mondiale del 1944. Le proposte sono state approvate da tutti i Paesi e si aspetta solo, per tradurle in pratica, il Congresso Usa. Da cinque anni non si riesce ad ottenere questa approvazione. Jeb Hensarling non è d’accordo. Chi? Hensarling, deputato eletto nel quinto distretto del Texas, a capo della commissione incaricata di approvare queste riforme. E né a lui né ai suoi alleati del Tea Party va a genio il Fmi. Così, un gruppo ristretto di parlamentari ha il potere di impedire che un’istituzione vitale per l’economia mondiale possa essere riformata in un modo che va incontro agli interessi sia del mondo sia degli Stati Uniti.
Dopo aver aspettato per cinque anni, la Cina nel 2014 ha fondato una sua istituzione, la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali, e ha invitato altri Paesi a partecipare. Washington ha messo in campo una campagna diplomatica di dissuasione. Senza risultato. Perfino gli alleati di sempre, come Regno Unito, Australia o altri Paesi europei, hanno ignorato le pressioni americane e siedono fra i 57 fondatori della nuova banca. Washington dovrà limitarsi a guardare la nuova istituzione, senza poter influire sulle sue decisioni.
Un altro organismo che proietta l’influenza economica degli Stati Uniti nel mondo è la Eximbank, la banca per il finanziamento delle esportazioni. Un gruppo di parlamentari minaccia di chiuderla. A loro non importa che i grandi Paesi esportatori del mondo abbiano istituzioni analoghe, o che solo negli ultimi due anni la Cina abbia erogato prestiti per 670 miliardi di dollari a supporto delle sue esportazioni, mentre dalla sua creazione (nel 1934, per opera di Roosevelt) l’Eximbank ha prestato in tutto 570 miliardi di dollari.
A volte le situazioni meno visibili per l’opinione pubblica consentono di capire meglio le tendenze future. Dal 1959 la Banca interamericana per lo sviluppo (Bis) è la principale fonte di finanziamento per i Paesi dell’America Latina. La Bis ha deciso di accrescere la sua capacità per sostenere il settore privato della regione, e ha incrementato il suo capitale di 2 miliardi di dollari. È riuscita a farlo nonostante gli Stati Uniti si siano rifiutati di contribuire. Per mantenere l’influenza in quest’area gli Stati Uniti — i maggiori azionisti della Bis — avrebbero dovuto apportare 39 milioni di dollari all’anno per sette anni. Gli altri Paesi azionisti hanno dato l’assenso alla partecipazione. Così, l’effetto combinato della cecità ideologica del Congresso e della incompetenza dei burocrati del dipartimento del Tesoro ha fatto sì che gli Usa perdessero un altro strumento per essere rilevanti in una regione che, a sentire i discorsi ufficiali, rappresenta una priorità per la Casa Bianca.
Larry Summers, economista che ha ricoperto incarichi di primo piano nel governo statunitense, ha scritto: «Finché uno dei nostri due partiti si oppone costantemente agli accordi di libero scambio con altri Paesi e l’altro è sempre contrario a finanziare le organizzazioni internazionali, gli Stati Uniti non potranno influenzare il sistema economico mondiale». La minaccia alla supremazia globale degli Stati Uniti non viene da Pechino. È annidata a Washington, nell’infra-Congresso che può mettere al tappeto la superpotenza. Twitter @ moisesnaim (Traduzione di Fabio Galimberti) 

Mikhail Khodorkovsky “Putin non è un mostro come Stalin ma il regime non cambierà senza sangue”
di Jorg Eigendorf e altri Repubblica 11.5.15
Credo che porterà a termine il suo mandato. Dopo di lui le cose non potranno che migliorare. È pronto alla repressione, ma non ne ha tutto questo desiderio
Pericolosa è la situazione ai confini Penso all’Ucraina e alla Cecenia Il rientro dei combattenti nazionalisti potrebbe rendere esplosiva la situazione in patria
IN Russia gran parte dei poteri dello Stato si concentrano nelle mani di Vladimir Putin. Signor Khodorkovsky, il presidente è davvero così potente?
«Il potere di gestione diretta di Putin è limitato. Ha autonomia rispetto a una grave crisi, si può occupare personalmente di due crisi alla volta, anche serie. Il sistema autoritario offre questo vantaggio, ma ha anche enormi svantaggi. Putin non è in grado di risolvere più problemi in contemporanea. In un paese in cui le normali istituzioni statali sono state annientate – mi riferisco alla magistratura indipendente, al Parlamento, alle autonomie locali – chi detiene il potere non è più in condizione di gestire problematiche sociali complesse. Il nostro è uno Stato supercentralizzato, ma debole».
Da quando il leader dell’opposizione, Boris Nemzov, è stato assassinato, in Russia si fa un gran parlare del conflitto tra il presidente ceceno Ramsan Kadyrov e le strutture di sicurezza di Mosca. Quanto c’è da preoccuparsi?
«Si tratta di un conflitto sistemico. Quando l’economia è in crisi si sviluppano conflitti tra i vari gruppi in lotta per gli ambiti di esercizio del potere e le fonti di denaro. Kadyrov vuole maggiore autonomia per la sua struttura vassalla in Cecenia, senza rinunciare a essere un fedelissimo di Putin. Il gruppo di Kadyrov rappresenta una criminalità etnica che entra in conflitto con lo Stato russo, in sé e per sé debole. Quelli che dovrebbero realmente difendere la legalità non possono immischiarsi, perché la gente di Kadyrov gode della protezione di Putin. Il presidente russo è il loro massimo protettore ».
Putin mantiene il controllo su questi gruppi oppure in realtà ne è diventato ostaggio?
«Sono certo che Putin fosse tutt’altro che lieto dell’assassinio di Nemzov».
La morte di Nemtsov va letta come prova di debolezza del sistema?
«Senza dubbio. L’assassinio di un membro dell’élite politica a poca distanza dal Cremlino sferra un colpo all’intoccabilità delle strutture del potere, il che comporta un ulteriore indebolimento dei suoi meccanismi. Ogni burocrate ormai, di fronte a una decisione da prendere, è portato a pensare: rischio che Putin mi sollevi dall’incarico, ma la gente di Kadyrov può farmi fuori».
Che rischi corre Putin? E‘ possibile una rivolta di palazzo?
«Un’evenienza del genere è possibile solo se le strutture di sicurezza sono coinvolte nel conflitto. Altrimenti no, non c’è la capacità da parte di altri attori. Come dimostra la situazione con Kadyrov, un conflitto del genere può tranquillamente insorgere».
Sono in molti a temere che dopo Putin la situazione peggiori ulteriormente.
«Credo che Putin porterà a compimento il suo mandato. Dopo di lui le cose potranno solo migliorare. Putin è pronto a inasprire la repressione, ma non ne ha tutto questo desiderio. Non è un mostro. È consapevole che una repressione eccessiva gli si ritorcerebbe contro. Dovrebbe essere pronto anche a procedere a purghe tra le élite. Sotto Stalin il due per cento della popolazione fu vittima di coercizione e violenze per mano dello Stato, tra le strutture di sicurezza addirittura un componente su quattro. Putin è pronto a una cosa del genere? Ne dubito».
Reputa possibile che in Russia nella situazione attuale si arrivi a un cambiamento al vertice senza ricorso alla violenza?
«Non si avrà un cambio di regime senza spargimento di sangue. Migliaia di persone sanno di dover rispondere personalmente delle azioni compiute sotto il regime di Putin. Ma il problema in Russia non è in realtà il cambiamento radicale, che senza dubbio avverrà nell’arco delle nostre vite. Ben più pericolosa è la situazione che si è creata ai confini della Russia a motivo della politica del regime. In Ucraina orientale si sta costituendo un esercito di sciovinisti nazionalisti che trova anche in Russia sempre più accoliti, e siccome Putin ha fatto concessioni al suo vassallo Kadyrov nella Repubblica di Cecenia, quest’ultimo cerca di garantirsi sempre maggiore autonomia. Se in Russia queste forze si scontrano sarà davvero pericoloso, perché si potrebbe andare alla guerra civile».
Dopo la morte di Nemtsov l’opposizione in Russia si è ulteriormente indebolita. Si può fare un paragone con i dissidenti ai tempi dell’Unione Sovietica?
«No, persino nella situazione attuale il 14 per cento dei russi dichiara ancora apertamente di non sostenere il regime. Il movimento di opposizione conta su una base pari al 10-15 per cento della popolazione. E potrebbe estendersi ulteriormente».
Come vede la situazione in Ucraina, più tranquilla o è solo un’apparenza?
«Vorrei poter credere che il conflitto non veda una nuova escalation, ma è molto poco probabile che sia così. Il grande punto interrogativo però è se i paramilitari russi si ritireranno dall’Ucraina orientale e i separatisti non saranno più sostenuti da Mosca. È proprio questo il pericolo per il regime in Russia, il rientro dei combattenti renderebbe esplosiva la situazione in patria. Putin farà il possibile perché i paramilitari russi restino in Ucraina Orientale».
E‘ inutile quindi sperare nell’accordo Minsk-2 ?
«Chi in Occidente sostiene che sia possibile arrivare a un accordo a lungo termine con il regime attuale o è stupido o è un impostore. Non bisogna certo interrompere i colloqui con la Russia, ma la speranza di realizzare un accordo credibile è illusoria, perché la leadership è de-istituzionalizzata». @Die Welt / L-ENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione Emilia Benghi 

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