giovedì 28 maggio 2015

Università e scuola: fermare il PD per fermare la devastazione culturale del paese




Merito e valutazione avanti, a destra Scuola. La competizione tra insegnanti, alunni,dirigenti, istituti, quartieri e città. La riforma di Renzi porta nella scuola un’idea di società dove vincono i più buoni sono anche i più forti
Luca Illetterati il Manifesto 28.5.2015
Sulla sua pagina Face­book Maria­pia Vela­diano, che oltre a essere scrit­trice è anche una diri­gente sco­la­stica, ha ripor­tato que­ste parole, rivolte da uno stu­dente a una docente che lo rim­pro­ve­rava per un lavoro non con­se­gnato: «Ma lo sa che l’anno pros­simo siamo noi a valutarvi?».
Forse non c’è rispo­sta più con­vin­cente ad alcune con­si­de­ra­zioni pro­ve­nienti (per così dire) da sini­stra. Mi rife­ri­sco all’arti­colo di Marco Lodoli (anch’egli scrit­tore e inse­gnante) uscito su Repub­blica il 22 mag­gio e ad alcuni com­menti del diret­tore del Post, Luca Sofri.
L’articolo di Marco Lodoli, il quale ha par­te­ci­pato all’elaborazione del Ddl la buona scuola (“con­fessa” anzi di essere lui l’autore del nome) muove dalla schietta con­sta­ta­zione di non essere riu­scito a spie­gare ai pro­pri col­le­ghi cosa c’è di dav­vero buono in quel testo che ora la Camera ha appro­vato; di essersi scon­trato con una sorta di muro di gomma dovuto, dice, a una sfi­du­cia che si è incro­stata negli anni, a un irri­gi­di­mento frutto di troppe delu­sioni, ma anche – e lo si coglie nelle descri­zioni che pro­pone di que­sti per­so­naggi stram­pa­lati che sareb­bero i col­le­ghi di Lodoli – da una sorta di volontà pre­con­cetta che fa da osta­colo all’accettazione di quelle tra­sfor­ma­zioni che potreb­bero ridare invece fiato a una isti­tu­zione sfian­cata, rimet­tere ener­gia den­tro un corpo esan­gue, por­tare una qual­che luce den­tro ai cor­ri­doi ammuf­fiti delle nostre scuole.

Insomma se Lodoli il 5 mag­gio, il giorno dello scio­pero della scuola, si trova a scuola solo con il pro­prio diri­gente, è per­ché l’epoca è quella che è, il mondo è inca­ro­gnito, la gente è stufa.

Lodoli richiama, in qual­che modo, un argo­mento uti­liz­zato di fre­quente da Mat­teo Renzi, il quale, facendo sfog­gio di umiltà, dice di avere effet­ti­va­mente sba­gliato sulla scuola, e che il suo errore è stato quello di non essere riu­scito a comu­ni­care la cosa nel modo giu­sto. Dove dicendo que­sto si tende a far pas­sare l’idea che chi non si rico­no­sce nella buona scuola non è tanto per­ché ha un’idea diversa, quanto per­ché, delle due l’una, o non ha capito bene (e infatti per costoro il pre­mier si è messo alla lava­gna con i ges­setti) o è tal­mente ideo­lo­gico che non c’è niente da fare.

Sulla que­stione dell’ideologia insi­ste anche Luca Sofri, che cerca evi­den­te­mente una strada che non sia quella dell’adeguamento ai par­titi presi: pro o con­tro. E nel ten­ta­tivo di capire rife­ri­sce di una dif­fi­coltà di molti a orien­tarsi den­tro una dop­pia reto­rica, quella del governo e quella dei suoi oppo­si­tori. E’ l’argomento clas­sico del cer­chio­bot­ti­sta o del ter­zi­sta, il quale, quando non è in cat­tiva fede, ha dalla sua l’onestà di chi vuole pro­vare a com­pren­dere al di là degli sguardi pre­con­fe­zio­nati. Però è peri­co­loso e a sua volta, se posso dire, ideo­lo­gico, con­si­de­rare le due reto­ri­che come equi­va­lenti. Non solo per­ché una ha mezzi e potere che l’altra non ha, ma anche per­ché in que­sto modo si asse­conda l’idea che il con­flitto non riguardi la cosa, ma la sua rap­pre­sen­ta­zione, esat­ta­mente come vuole la reto­rica governativa.

In realtà basta leg­gere inter­venti fra loro molto diversi come quelli di Mauro Piras e Chri­stian Raimo su Inter­na­zio­nale per vedere come il mondo della scuola abbia posto que­stioni con­crete, che hanno a che fare pro­prio con la sostanza della cosa e non, come si vor­rebbe, con la sua rap­pre­sen­ta­zione. Que­stioni alle quali le rispo­ste sono quasi sem­pre state la neces­sità del cam­bia­mento, l’esigenza di cam­biare verso, il biso­gno di ripar­tire e poi, come logico corol­la­rio, l’accusa di con­ser­va­to­ri­smo o anche di leso patriot­ti­smo a chi pensa che si stia pren­dendo una strada sba­gliata (si veda l’articolo a dir poco imba­raz­zante e imbat­ti­bile quanto a reto­rica da mar­ke­ting pub­bli­ci­ta­rio del sot­to­se­gre­ta­rio Faraone pub­bli­cato il 9 mag­gio scorso su Il Foglio).

È chiaro che Renzi e il suo governo stanno lavo­rando – e in parte ci sono anche riu­sciti – per fare pas­sare l’idea che chi si oppone alla buona scuola è un con­ser­va­tore, che nel peg­giore dei casi vuole difen­dere pri­vi­legi, nel migliore tratta la vita dei nostri figli e il loro futuro come una ver­tenza sin­da­cale cor­po­ra­tiva invece che come una que­stione deci­siva per il paese.
C’è però ancora un punto nell’argomentare di Sofri che vale la pena richia­mare: que­sta di cui si discute non è una cosa che si possa chia­mare «riforma della scuola», dice; e aggiunge: «una riforma della scuola è un pro­getto com­ples­sivo e più esteso, di mag­giore pro­fon­dità, visione e coe­renza: que­sto è un gruppo di inter­venti, diversi tra loro e a mac­chia di leo­pardo, che affron­tano alcune que­stioni del fun­zio­na­mento della scuola». Anche Renzi insi­ste molto, ulti­ma­mente, su que­sto: «Non chia­ma­tela riforma, que­sto è un modo per far ripar­tire la scuola, per ren­derla più effi­ciente, ma non è una riforma». Ecco, que­sto è il punto: dire que­sto è pro­durre ideo­lo­gia. Signi­fica fare pas­sare un impianto che cor­ri­sponde a una pre­cisa idea della scuola per mero inter­vento tec­nico, come una sorta di tagliando, una messa a punto della mac­china. Que­sta è una riforma della scuola.
Andando a modi­fi­care le forme del reclu­ta­mento, il rap­porto fra diri­gente e docente e, con­se­guen­te­mente, fra docente e alunno, que­sta legge incide sulla scuola ben più di altri roboanti pro­getti rifor­ma­tori. In que­sti inter­venti a mac­chia di leo­pardo c’è una coe­renza che sarebbe grave misco­no­scere. C’è un’idea di scuola che emerge evi­dente, della quale Renzi ha peral­tro sem­pre par­lato e che qui viene vei­co­lata attra­verso prov­ve­di­menti appa­ren­te­mente solo fun­zio­nali. Come se non fosse chiaro che se c’è un modo effi­cace per far pas­sare idee e visioni della realtà, que­sto è pro­prio quello di agire su mere que­stioni di fun­zio­na­mento.
L’idea che emerge da que­sti prov­ve­di­menti è che la scuola deve rico­no­scersi come luogo della com­pe­ti­zione: tra inse­gnanti, tra alunni, tra diri­genti, tra isti­tuti, e quindi, ovvia­mente, tra quar­tieri e tra città. L’enfasi su merito e valu­ta­zione mira a que­sto: a costruire scuole buone per i buoni e scuole come ven­gono per gli altri; a cana­liz­zare i buoni (e non occorre essere mar­xi­sti per pen­sare che è molto più pro­ba­bile che i buoni ven­gano fuori da situa­zioni agiate, eco­no­mi­ca­mente non pro­ble­ma­ti­che, social­mente quiete, ecc) den­tro per­corsi che li ren­dano ancora più buoni e i meno buoni den­tro per­corsi dove si fa quel che si può.
Le parole valu­ta­zione e merito appli­cate al lavoro della e nella scuola non sono, come si tende a far cre­dere, parole neu­tre, tec­ni­che, stru­menti che a null’altro ser­vono se non a regi­strare se si fanno le cose bene o male per pro­durre, come si ripete, miglio­ra­mento. Merito e valu­ta­zione sono in realtà pra­ti­che che impli­cano la neces­sità da parte di inse­gnanti e diri­genti di adat­tarsi a pro­to­colli di azione esterni rispetto alla situa­zione con­creta nella quale agi­scono, di far pro­pri com­por­ta­menti che con­sen­tano di rag­giun­gere obiet­tivi pre­de­ter­mi­nati indi­pen­den­te­mente dalla spe­ci­fi­cità delle situa­zioni, della pecu­liare esi­stenza delle per­sone coin­volte in que­sto processo.
Le pro­ce­dure valu­ta­tive ten­dono gio­co­forza a ridurre l’azione didat­tica in per­for­mance misu­ra­bile. Si rischia così, nel momento in cui la pra­tica valu­ta­tiva assume una fun­zione diri­gente nella scuola, di entrare nel para­dosso per cui si orga­nizza la vita della scuola e delle per­sone che la abi­tano in un certo modo non per­ché lo si ritiene giu­sto e sen­sato, ma per­ché così vuole e chiede la valu­ta­zione. La valu­ta­zione – e non rico­no­scerlo sarebbe non solo ideo­lo­gico, ma diso­ne­sto – non si limita mai a foto­gra­fare la realtà, bensì pre­de­ter­mina e pre­co­sti­tui­sce con i pro­pri indi­ca­tori la realtà a cui si rivolge.
E’ di que­sto che sono pre­oc­cu­pati molti di quelli che con­te­stano que­sta legge. Non solo di que­stioni di det­ta­glio o di sacro­sante que­stioni rela­tive al pre­ca­riato, ma soprat­tutto dell’idea di scuola che sog­giace a que­sti prov­ve­di­menti, i quali, toc­cando que­stioni di fun­zio­na­mento met­tono in realtà in campo un pre­ciso con­cetto di for­ma­zione, un’idea di società, vor­rei per­sino dire una visione della vita.

Il Pd è l’agit prop della scuola azienda 

Ddl Scuola. Da Berlinguer a Renzi un unico progetto neoliberista: portare l'istruzione pubblica al mercato. Uno scopo perseguito con un accanimento cieco e irragionevole da Renzi che esaspera le storture dell’autonomia scolastica in chiave padronale e autoreferenziale. Siamo all’inizio di un nuovo Medioevo per l'istruzione pubblica.
Anna Angelucci, Tiziana Drago il Manifesto 26.5.2015

La riforma del sistema nazio­nale di istru­zione, pro­po­sta dal Par­tito Demo­cra­tico e pas­sata alla Camera, accen­tua for­te­mente il dispo­si­tivo dell’autonomia sco­la­stica, per­se­guita dalla fine degli anni Ottanta dai mini­stri demo­cri­stiani Gal­loni e Mat­ta­rella e rea­liz­zata nel 1997 con Luigi Ber­lin­guer. È lì, nella legge sulla sem­pli­fi­ca­zione ammi­ni­stra­tiva, che la scuola, da isti­tu­zione garan­tita dalla Costi­tu­zione negli arti­coli 32 e 33, viene tra­sfor­mata in ente gestore di un ser­vi­zio d’istruzione, dotato di per­so­na­lità giu­ri­dica. Le isti­tu­zioni sco­la­sti­che sono diven­tate espres­sioni di un’autonomia fun­zio­nale, poi san­cita dalla riforma del titolo V della carta costi­tu­zio­nale (governo D’Alema) e da allora prov­ve­dono alla rea­liz­za­zione dell’offerta for­ma­tiva, alla garan­zia del «suc­cesso for­ma­tivo» secondo le leggi dell’economia e del mar­ke­ting. Ancora, nell’annus hor­ri­bi­lis del pas­sag­gio al nuovo mil­len­nio, la legge sulla parità sco­la­stica e quella di riforma dell’ordinamento uni­ver­si­ta­rio (il 3+2), entrambe a firma Ber­lin­guer, com­ple­tano il qua­dro di una serie di inter­venti letali per l’istruzione pub­blica in cui si inse­ri­sce quello soste­nuto dal Par­tito Demo­cra­tico di Mat­teo Renzi. E que­sto a dispetto del loro fal­li­mento regi­strato da tutte le ana­lisi nazio­nali e internazionali. 

Con un acca­ni­mento cieco e irra­gio­ne­vole, forse inter­pre­ta­bile più con le cate­go­rie della psi­co­pa­to­lo­gia che con quelle tra­di­zio­nali della poli­tica, il Pd sta com­pri­mendo gli spazi della discus­sione su una legge che esa­spera le stor­ture dell’autonomia in chiave padro­nale e auto­re­fe­ren­ziale. Le scuole sono desti­nate a un’ulteriore accen­tua­zione delle dif­fe­renze sulla base del pro­getto cul­tu­rale impo­sto dai sin­goli pre­sidi che avranno carta bianca nel defi­nire obiet­tivi edu­ca­tivi e nel repe­rire «risorse umane». In que­sto modo saranno can­cel­lati spazi di demo­cra­zia e la libertà d’insegnamento. In nes­sun paese del mondo civi­liz­zato accade que­sto. Nep­pure nei modelli sco­la­stici anglo­sas­soni, tanto cari ai nostri deci­sori poli­tici e ai loro improv­vi­sati con­su­lenti peda­go­gi­sti, un solo indi­vi­duo al comando può deci­dere il destino di una scuola.
Anche sull’università il Pd è il man­dante, o il com­plice, dei dise­gni «moder­niz­za­tori» più regres­sivi. Come dimen­ti­care il con­te­gno son­no­lento tenuto nei giorni del varo della rovi­nosa legge Gelmini? 
Per nulla tur­bato dall’enormità della posta in gioco, il Pd si dimo­strò inca­pace di abi­tare un oriz­zonte cul­tu­rale diverso da quello che avrebbe dovuto com­bat­tere. Per con­for­mi­smo e per igna­via. In seguito, dall’appoggio a Fran­ce­sco Pro­fumo (ese­cu­tore testa­men­ta­rio della Gel­mini) attra­verso Maria Chiara Car­rozza sino alla sbia­dita mini­stra Gian­nini, que­sto par­tito ha coe­ren­te­mente fatto gra­vare sull’università e sulla ricerca un dif­fuso sospetto di inu­ti­lità se non pro­prio di noci­vità. Que­sto partito-governo con­ti­nua a caval­care il senso comune dell’apertura al ter­ri­to­rio, dell’avvicinamento al mondo dell’impresa, della logica pre­miale e com­pe­ti­tiva tra gli ate­nei, men­tre in realtà impone alle scuole un dar­wi­ni­smo sociale. Senza nep­pure il sospetto che scuole e uni­ver­sità deb­bano essere il luogo di costru­zione di un sapere dif­fuso e di una cit­ta­di­nanza cri­tica, l’argine alla minac­cia dell’esclusione, non una pale­stra per eccel­lenti. La sua riforma dell’istruzione è figlia della neces­sità di alli­neare i cit­ta­dini e le cit­ta­dine alla ricetta neo­li­be­ri­sta per cui la scelta è limi­tata a un lavoro senza diritti o a diritti senza lavoro.
Siamo all’inizio di un nuovo Medioevo. Se una strada è ancora per­cor­ri­bile, è fuori dalle parole d’ordine del mer­cato, lì dove il sapere si espande insieme alle rela­zioni, fuori dalle agen­zie di valu­ta­zione, fuori dal cal­colo dei cre­diti, fuori dai vec­chi pri­vi­legi di ver­tice e di cit­ta­di­nanza. Fuori da tutto que­sto e den­tro un pro­getto con­di­viso dove il sapere diventa labo­ra­to­rio di signi­fi­cato e l’intelligenza col­let­tiva si riap­pro­pria del diritto a imma­gi­nare la vita.

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