venerdì 26 giugno 2015

Ancora l'elogio della Guerra Fredda di Sergio Romano


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Va in scena la controstoria 

Scaffale. «In lode della guerra fredda» di Sergio Romano, uscito per Longanesi. Un'analisi sul «post» e sui rovesciamenti di prospettive e attori sul campo

Gian Paolo Calchi Novati il Manifesto 26.6.2015, 0:06 

Ci sono testi clas­sici che elo­giano la paz­zia e altri che esal­tano le gioie della vec­chiaia. Non sor­prende dun­que que­sta lode della guerra fredda di Ser­gio Romano, tanto più che la sua con­tro­sto­ria non loda né la guerra né il freddo bensì le capa­cità dell’ordine bipo­lare di tro­vare i rimedi per evi­tare il peg­gio. L’equilibrio del ter­rore nascon­deva molti mali. Eppure garantì un lungo periodo di sta­bi­lità al cen­tro gra­zie all’auto-restrizione, agli accordi, ai com­pro­messi per non scon­vol­gere la pace in Europa. Il tabù dell’intoccabilità delle fron­tiere veniva prima anche dell’autodeterminazione dei popoli. 
Quello che manca al sistema glo­bale costi­tui­tosi nel 1990, in una con­cla­mata asim­me­tria, è pro­prio la diplo­ma­zia. Gli Stati Uniti, governo e opi­nione pub­blica, si sono con­vinti – erro­nea­mente secondo Romano, che spiega il col­lasso del blocco sovie­tico e della stessa Urss con le riforme di Gor­ba­ciov – di aver vinto la guerra fredda e di essere più che mai la nazione «indi­spen­sa­bile». Una vit­to­ria morale non è una vit­to­ria poli­tica. Ma la Rus­sia, a dif­fe­renza dell’Urss, è stata trat­tata come un vinto. Solo così si spiega, per esem­pio, l’ultimatum per il Kosovo alla Ser­bia, il prin­ci­pale alleato di Mosca nello spa­zio ex-jugoslavo. Le ambi­zioni di Putin, dopo la remis­si­vità per­sino sospetta di Eltsin, sono diven­tate inac­cet­ta­bili per­ché solo l’America pre­tende di avere il «diritto» di com­met­tere gli abusi per­messi alle grandi potenze. 
A soste­gno della sua rico­stru­zione, nel libro In lode della guerra fredda (Lon­ga­nesi, pp. 132, euro 16), Romano non esi­bi­sce fonti scritte o note biblio­gra­fi­che. È un van­tag­gio per chi scrive e per chi legge. Tutto è affi­dato alla con­ca­te­na­zione dei fatti e al pre­sti­gio dell’autore. Al netto di qual­che impre­ci­sione (sulla Soma­lia, sulla Con­fe­renza di Madrid per il Medio Oriente nella pausa vaga­mente disten­siva dopo la guerra del 1990–91), il filo logico è inec­ce­pi­bile. La sin­te­ti­cità con cui sono descritti i vari pas­saggi, fra crisi e intese, sem­pli­fica l’accessibilità e godi­bi­lità della nar­ra­zione. Nella sua ana­lisi, Romano tiene sem­pre conto delle ragioni delle varie parti rifug­gendo dall’espediente di rite­nere che l’ultimo atto sia quello deter­mi­nante. Da Suez all’Ungheria, dalla Pale­stina all’Indocina, dai mis­sili russi a Cuba all’Afghanistan di Brez­nev e soprat­tutto nell’iter acci­den­tato delle trat­ta­tive per il con­trollo degli arma­menti (il capo­la­voro della diplo­ma­zia della guerra fredda per neu­tra­liz­zare il Dot­tor Stra­na­more), il discorso flui­sce senza for­za­ture, mostrando come i sin­goli epi­sodi com­por­tino ragioni e torti in ordine sparso. 
Una con­tro­sto­ria della guerra fredda è anche una con­tro­sto­ria del dopo-guerra fredda. I tea­tri in cui si dipana il sistema che doveva essere mul­ti­po­lare ma che si è rive­lato uni­po­lare (e imper­fetto secondo Hun­ting­ton) sono l’Europa orien­tale, i Bal­cani, il Medio Oriente nella dimen­sione «grande» impo­sta­gli da George W. Bush e, per finire, l’Africa.
Il pre­teso «anti-americanismo» di Ser­gio Romano è tutt’al più un punto d’arrivo e non di par­tenza. La poli­tica delle varie ammi­ni­stra­zioni è stu­diata in sé. Una «rive­la­zione» è che fu più attenta a non ferire la Rus­sia assi­cu­rando un minimo di bilan­cia­mento al ver­tice la pre­si­denza del vec­chio Bush (anche nel modo di gestire la guerra con­tro Sad­dam per il Kuwait) che non l’amministrazione demo­cra­tica di Clin­ton, durata dal 1992 al 2000. Gli errori (o i cri­mini?) di Bush junior col­ma­rono la misura. L’attentato dell’11 set­tem­bre fu una tra­ge­dia e fornì il pre­te­sto per pas­sare all’azione. Dopo di allora, le buone inten­zioni di Obama non hanno resi­stito alla prova del con­fronto con il com­plesso militare-industriale già denun­ciato da Eise­n­ho­wer al ter­mine dei suoi due man­dati nel lon­tano 1960. 
La ritro­vata ini­mi­ci­zia con Mosca impe­di­sce all’Occidente di uti­liz­zare la Rus­sia in fun­zione sta­bi­liz­zante, soprat­tutto con riguardo all’offensiva dell’islamismo radi­cale. L’importanza – non neces­sa­ria­mente la minac­cia – dell’islam per la Rus­sia è pra­ti­ca­mente igno­rata o tra­scu­rata. La Cece­nia scade a un eser­ci­zio di forza da parte dell’«impero». Tutti gli impe­gni assunti al momento della riu­ni­fi­ca­zione della Ger­ma­nia e dello scio­gli­mento del Patto di Var­sa­via sono stati dimen­ti­cati o più sem­pli­ce­mente disattesi. 
L’Europa ha perso tutte le occa­sioni per distri­carsi dal gioco a somma zero dell’allargamento verso est della Nato che ha annul­lato i van­taggi di quello stesso pro­cesso fin­ché era stato con­dotto con il soft power dell’Unione. È così che non c’è nes­sun para­gone pos­si­bile fra la rea­zione della Casa Bianca alla Via Pal di Buda­pest nel 1956 e quella alla Piazza Mai­dan di Kiev nel 2013.
Le con­clu­sioni del libro sono pes­si­mi­ste e, per certi aspetti, illu­so­rie. Ser­gio Romano – pen­sando vero­si­mil­mente alla cul­tura domi­nante nell’Occidente post-illuminista più che al credo dei sin­goli – scrive che «siamo troppo laici» per aspet­tarci che le pur gene­rose pero­ra­zioni di un papa abbiano la meglio sulla poli­tica e sugli inte­ressi degli stati. Ma evi­den­te­mente non siamo abba­stanza laici da rico­no­scere, dopo tanti espe­ri­menti fal­liti, che uno stato euro­peo non c’è e non esi­sterà così pre­sto. Si indu­gia in qual­cosa che sta fra la reto­rica e l’utopia men­tre la poli­tica incalza. 
Se ha un senso tutto il ragio­na­mento di Romano, l’approdo dell’Europa – o dei mag­giori paesi euro­pei – dovrebbe essere una forma d’autonomia che una volta si sarebbe defi­nita neu­tra­lità o neu­tra­li­smo. Ma è deci­sa­mente poco vero­si­mile che, in que­ste con­di­zioni di potere, l’America, dopo aver ingab­biato gli euro­pei in una poli­tica fatta di ten­sioni e di guerre con i vicini a Est (la Rus­sia) e a Sud (il mondo arabo), con­ceda senza colpo ferire all’Europa di esi­mersi dalle obbli­ga­zioni che sono richie­ste a chi è parte del blocco occi­den­tale. Il dise­gno di Obama è se mai il trat­tato di libero scam­bio fra le due sponde dell’Atlantico per ren­dere il rap­porto ancora più strin­gente. A ben vedere, Obama ha dimo­strato di avere più senso poli­tico con Cuba e l’Iran, due «nemici», che con le esi­genze degli alleati.

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