lunedì 15 giugno 2015

Remo Bodei: musica, armonia, filosofia


Risultati immagini per bodeiRiaccordiamoci col mondo
di Remo Bodei Il Sole Domenica 14.6.15

Nella musica dall’antichità il bello e il vero coincidono sotto il segno della misura. La modernità ha cercato di infrangere tale armonia ma senza riuscirci del tutto
La musica congiunge il massimo di rigore formale con il massimo di emotività. Esattezza e indeterminatezza, ragione e passione non solo non si escludono, ma sembrano anzi potenziarsi a vicenda. Essa è forse rimasta l’unica arte (assieme all’architettura, “musica pietrificata” secondo la Schelling) in cui la struttura matematica appare chiaramente riconoscibile. Sono tuttora evidenti le impronte della tradizione istituita dai Pitagorici, da coloro che per primi analizzarono in Occidente la natura della musica e, insieme, trasformarono, in scienze i saperi pratici rappresentati dalla geometria e dall’aritmetica. La musica, al pari delle misure del cosmo, è in essi governata dal “numero”. Prima di diventare pallide astrazioni, come lo sono per noi, i numeri e le proporzioni in cui lo spazio e il tempo potevano essere divisi provocavano, infatti, stupore e pathos. Il miracolo per cui i conti ’tornano’ o le figure si articolano secondo leggi inesorabili generava l’impressione di trovarsi dinanzi a manifestazioni del divino. La matematica e la musica erano perciò considerate il riflesso dell’eterno movimento ritmico dell’universo e l’ascolto della musica era consigliato per la cura delle passioni, in quanto avrebbe dovuto riportare l’anima all’originario equilibrio di consonanza con il mondo.
Misura e armonia sono calcolabili e oggettive, simboli contemporaneamente di bellezza e verità. Anche perché i suoni, nel regno dell’udibile e le figure in quello del visibile, rinviano a strutture ideali non sensibili, oggettive, in quanto comunicabili e riconoscibili da tutti. Le forme ideali, i modelli possono certo essere riprodotti a livello sensibile, ma la loro somiglianza con le ’copie sensibili’ non è immediatamente mimetica. In termini moderni tali modelli sono paragonabili a strutture analogiche quali lo spartito rispetto a una sinfonia o il solco di un disco rispetto ai suoni che se ne possono ottenere.
La musica è armonia, perché nasce da un accordo tra suoni diversi, simultanei o successivi. Il termine “armonia” designa originariamente la connessione tra oggetti fisici, ad esempio tra assi di legno nella costruzione di una nave, oppure l’intervallo e l’intreccio tra voci, parti dell’anima e argomenti). Nella musica antica (la quale è generalmente melodica e non sinfonica) l’armonia indica, tuttavia, gli intervalli tra le note e non i loro accordi consonanti.
L’esempio di armonia più chiaro e implicitamente carico di conseguenze viene tuttavia offerto dalla costruzione geometrica di un triangolo formato da due triangoli con vertice in comune e basi contigue. Tracciando le bisettrici dal vertice di ciascun triangolo alla base composta dalla somma delle due basi, si ottengono tre segmenti, la cui rispettiva lunghezza corrisponde a quella delle corde da noi attualmente chiamate “do”, “mi” e “la”. La perfetta corrispondenza tra la lunghezza dei segmenti geometrici e l’altezza dei suoni dimostra l’esatta traducibilità reciproca del visibile nell’udibile e dell’udibile nel visibile, nonché di entrambi nell’intellegibile. Ma anche, al contrario, dalla possibilità di concepire figure e suoni per mezzo della mente e di renderle poi visibili e udibili. Si capisce qui perché il bello e il vero coincidano sotto il segno della misura.
Tale concezione ha esercitato per millenni un enorme ascendente sulla nostra cultura, fungendo da supporto non solo a tutte le concezioni ’matematiche’ della bellezza che si sono susseguite nei secoli nel campo dell’arte o dell’estetica, ma anche ad alcune teorie decisive della scienza moderna. Copernico e Keplero, ma in parte anche Galilei, non sarebbero ad esempio comprensibili, nelle loro realizzazioni, senza l’eredità del pitagorismo, senza la ricerca di forme e proporzioni armoniche ed ’eleganti’ nei fenomeni.
In età moderna questo specifico legame tra verità e bellezza si è generalmente dimenticato (con l’eccezione di alcuni moderni neo-pitagorici, quali H. Kayser e R. Haase). L’onnipervasivo paradigma della calcolabilità del bello tramonta, teoricamente, con la vittoria conclamata dei diritti del “giudizio” estetico. Il bello (non solo musicale) perde la sua oggettività, che rimane prerogativa del vero, ed entra nella sfera soggettiva del “gusto” e della relativa educazione ad esso, che ha bisogno di musei, di concerti e di trattati. Nell’arco di tempo che va dal Barocco all’età di Kant si spezza quel criterio di traducibilità reciproca tra il sensibile e l’intellegibile che aveva caratterizzato la tradizione pitagorica: il sensibile è ora attribuito all’«estetica» nel suo nuovo significato, a una bellezza che non rinvia più direttamente a un al di là ultra-sensibile, mentre l’intellegibile diventa dominio elettivo delle scienze.
Dopo questa separazione, la musica (specie con l’esperienza romantica e le sue appendici più tarde) appare sempre più segnata dallo slancio del sentimento o, caricaturalmente, dallo stereotipo del “genio e sregolatezza”, del direttore d’orchestra o del violinista spettinato e invasato. Sorge così l’idea che essa esprima passioni, manifesti il fondo ribollente e inquieto dell’animo umano, piuttosto che l’armonia “numerabile” dei movimenti perfetti delle sfere celesti. Il sensibile si limita ora ad alludere all’intellegibile, così che quest’ultimo si innalza verso l’alto e “decolla” rispetto al primo, privandolo di leggi che lo regolino. Le forme intellegibili divengono così irrappresentabili e i suoni si sviluppano sul piano del sensibile: non rinviano più ad altro, non dicono più altro. L’indistinto diventa perciò, in questa stagione culturale, l’elemento poetico per eccellenza, sia nella musica che nella letteratura, che tendono, soprattutto nel tardo romanticismo, a usare l’alternarsi di toni veementi e delicatamente sfumati.
Ma la musica esprime davvero tutte le varietà del pathos, come ritenevano Vico, Friedrich Schlegel o Nietzsche? Per Vico - come è noto e come dimostrano per lui gli «scilinguati» che, cantando, «spediscono la lingua» -, la musica precede il linguaggio ed esprime l’animo perturbato e commosso. Da calcolo rigoroso (come tornerà a essere, nelle intenzioni, con Stravinskij) la musica diventa, in Friedrich Schlegel, «un giocare intorno a tutte le passioni» o, in Nietzsche, un linguaggio «dionisiaco» con cui le passioni dialogano con se stesse.
Ma non è un’illusione pensare che la musica manifesti i nostri sentimenti o le nostre passioni? Può darsi che - in senso letterale - essa non significhi assolutamente nulla, che mostri un puro «caleidoscopio» o un «arabesco sonoro», come riteneva Hanslieck. O, al limite, che manifesti soltanto, simbolicamente, il “dinamismo” dei sentimenti attraverso il loro ritmo, ma certo non dei contenuti.
Quando il bello perde le proprie caratteristiche di misurabilità, il giudizio su di esso finisce inoltre, necessariamente, per sottrarsi a criteri prestabiliti. Si affida a regole soggettive o non preliminarmente definibili, facendo cadere la barriera tra la forma e l’informe tra il suono e il rumore (come nel caso della musica postweberniana o dei “concerti” di John Cage sulla spiaggia, quando tutti gli astanti possono sintonizzare le radioline su una stazione di loro gradimento o come quando, in Imaginary Landscape n.4, ventiquattro esecutori girano le manopole di 12 radio).
La musica è allora tutta nel fenomeno, inseparabile dalla propria sonorità: non significa se non quello che manifesta, senza alcuna intenzione, rappresentazione o pensiero recondito di cui sarebbe semplice tramite. Come osserva Jankélévitch in La musica e l’ineffabile, «la musica non dice che quanto dice, o meglio non “dice” niente, nella misura in cui “dire” significa comunicare un senso». Trasporre le sequenze di suoni in stringhe di concetti significherebbe stravolgerli e impoverirli. Anche perché la musica è una lingua, come è stato detto, formata di «aggettivi», piuttosto che di «sostantivi», una lingua che «intendiamo e parliamo, ma che ci è impossibile tradurre». 

Nessun commento: