domenica 11 ottobre 2015

I conti con Putin (e con Assad)

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La dialettica rimane sconosciuta a sinistra come a destra. C'è chi è orfano di un Campo che non tornerà mai più, c'è chi va in estasi per i valori tradizionali [SGA].

Perché l'Occidente non capisce più la Russia. Una lettura criticaLa Mosca preferita dagli Stati Uniti? Quella che non aveva politica estera e la cui identità nazionale era in crisi. La svolta di Vladimir Putin e il ruolo della Ceceni
di Mario Rimini | Foglio 09 Ottobre 2015

Come se, ai tempi dell’assedio di Stalingrado (luglio 1942-febbraio 1943) inglesi e statunitensi avessero sotto sotto tifato per la contemporanea sconfitta del generale von Paulus e del maresciallo Zukov.
UN DESPOTA ALLEATO INEVITABILE 
I SEGUACI EUROPEI DI PUTIN E L’ALLEANZA CON ASSAD 
Dopo Romano Prodi, anche Bernard Kouchner, ex ministro francese e fondatore di Médecins Sans Frontières, ha riconosciuto che in Siria il leader russo si è dimostrato «un grande giocatore di scacchi». La logica vuole che per battere l’Isis serva una divers 
6 ott 2015  Corriere della Sera di Paolo Mieli 
Non c’è soltanto Romano Prodi. Anche l’ex ministro degli Esteri francese, fondatore di Médecins Sans Frontières, Bernard Kouchner, pur non avendolo mai apprezzato, ha riconosciuto che, nella partita siriana, il leader russo si è dimostrato «un grande giocatore di scacchi» e che «in questa fase sembra avere sempre una lunghezza d’anticipo». Laddove l’altro giocatore sarebbe il presidente degli Stati Uniti. In effetti c’è qualcosa che non torna nella strategia anti Isis dell’Occidente. Punto primo: definiamo il Califfato «nuovo nazismo», con ciò conferendogli — se le evocazioni storiche hanno un senso — il rango di nemico numero uno. 
A questo punto la logica imporrebbe di considerare alleati pro tempore o in ogni caso non nemici tutti quelli che si oppongono all’Isis. A cominciare dal despota siriano Bashar al Assad (stendendo momentaneamente un velo sulle sue nefandezze scrupolosamente riepilogate qualche giorno fa sul Foglio da Daniele Raineri). Quell’Assad il cui potere adesso vacilla e che evidentemente Obama ritiene conveniente sia tolto di mezzo per bilanciare un fattivo impegno contro le milizie di al Baghdadi.

Una bizzarria. 
Anzi come se — in considerazione del fatto che ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler ( 30 gennaio 1933) Stalin aveva già provocato la morte di almeno tre milioni di persone, tre le stava facendo fuori nel genocidio ucraino, e altre sei le avrebbe sterminate nel corso degli anni Trenta — come se, dicevamo, nell’ottobre del ’42, allorché i tedeschi portarono gli scontri dentro la città che prendeva il nome da Stalin, gli angloamericani si fossero compiaciuti nel veder vacillare il potere sovietico. Invece i loro sentimenti furono opposti. E lo furono nonostante, ripeto, considerassero il dittatore georgiano alla stregua di un Satana e gli imputassero anche di aver facilitato quell’aggressione nazista alla Polonia da cui aveva avuto origine la Seconda guerra mondiale. 

Certo, americani e inglesi all’epoca erano legati da un patto d’alleanza con i sovietici, ma erano consapevoli (quantomeno lo era Churchill) del fatto che, quando Hitler fosse stato debellato, il confronto con il leader del comunismo mondiale sarebbe stato assai duro. E seppero scegliere. Ebbero il coraggio di scegliere. L’Occidente di oggi no. Lancia proclami altisonanti contro l’Isis e sostiene milizie locali che si battono contro più di un nemico alla volta e che, fatta eccezione per quelle curde, non appaiono in grado di ottenere grandi risultati. 
E come potrebbero ottenerli? Dove si reclutano persone disposte a combattere? Il New York Times ha calcolato che dal 2011 a oggi si siano trasferiti in Iraq e Siria circa trentamila foreign fighter, provenienti da oltre cento Paesi, per fare la guerra dalla parte dell’Isis. Thomas L. Friedman si è domandato se ha un senso che noi, per reclutare combattenti «nostri», andiamo alla ricerca dei moderati locali, «come un rabdomante fa per l’acqua con una bacchetta in mano». Se ha un senso doverli istruire, dal momento che nessuno deve addestrare i jihadisti i quali affluiscono in così gran numero e per giunta sono «ideologicamente incentivati». Ammettiamolo: «non esiste alcuna massa critica di siriani animati da ideali», scrive Friedman; «sì, combatteranno per le loro case e le loro famiglie, ma non per un ideale astratto quale la democrazia». Noi «cerchiamo di sopperire a ciò con l’”addestramento” militare, ma non funziona mai». Esistono, chiede ancora Friedman, «veri democratici nell’opposizione siriana? Potete scommetterci, ma non sono abbastanza e non sono organizzati, motivati e spietati quanto i loro nemici». E si può immaginare che Friedman pecchi di ottimismo: ammesso che quel ceto medio riflessivo di Damasco esista davvero, si deve ritenere che sia già emigrato in Europa o si accinga a farlo, anziché impegnarsi in un’impresa alquanto ardua qual è quella di impugnare le armi. Soprattutto in quella parte del mondo. 


Ancor più ottimista ci è parso poi Bernard-Henri Lévy, reduce da un viaggio in loco. Nell’anniversario dell’11 Settembre, Lévy ha pubblicato un articolo in cui ripeteva una dozzina di volte, a ogni capoverso, che quelli dell’Isis «saranno sconfitti». «Saranno sconfitti perché le truppe del presidente Barzani possono riprendere Mosul quando vogliono: i piani sono pronti; gli uomini sono pronti; basterà qualche ora per riconquistare la pianura di Ninive e consentire ai cristiani e agli yazidi di ritrovare le loro case razziate. Le truppe aspettano un segnale, uno solo per sapere quando i sunniti rimasti a vivere sotto l’Isis ne avranno abbastanza di quei gangster e di quei teocrati assassini», i quali «finiranno come i khmer rossi con l’uccidersi a vicenda nella più grande confusione». «Saranno sconfitti infine perché la coalizione internazionale che si batte al fianco dei curdi un giorno si deciderà a dare il colpo di grazia». Un giorno? Più o meno quando? È senz’altro lodevole l’intento di infondere speranza nei cuori dei lettori che poco conoscono delle dinamiche di quel conflitto. Ma è pericoloso spargere l’idea che nell’area del Daesh (è il nome che lo Stato Islamico dà a se stesso) la vittoria sia a portata di mano. Perché se poi le cose, di qui a qualche mese, non dovessero andare nei modi annunciati da Bernard- Henry Lévy, c’è il rischio che in quegli stessi lettori subentri un senso di demoralizzazione. E lo sconforto, com’è noto, è meno effimero dell’euforia.


Se l’America sceglie di non esserci 
Gianni Riotta Stampa 8 10 2015

Ai critici che gli rimproverano come gli Stati Uniti siano ridotti sulla difensiva, al fronte della Prima Guerra Globale, Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen - dove Isis debutta con l’attentato contro l’hotel Al Qasr di Aden, quindici morti, obiettivo la coalizione a guida saudita - il presidente Barack Obama potrebbe replicare citando i recenti successi diplomatici. Ricordare il disgelo con Cuba ultima piazzaforte della Guerra Fredda, il patto nucleare con l’Iran che riallinea il Medio Oriente, il patto di libero commercio nel Pacifico che stringe intorno a Washington il Giappone e gli altri Paesi innervositi dalla postura militare cinese.
Successi indubbi di cui il premio Nobel alla Casa Bianca potrà vantarsi nella dozzina di mesi che gli resta alla presidenza. Risultati, però, strategici, che daranno frutti negli anni a venire, dopo lunghe manovre, rischi, attese. La brillante offensiva tattica del leader russo Vladimir Vladimirovic Putin in Siria invece, con il rafforzamento della superstite base navale del Mediterraneo a Latakia, la mobilitazione di un contingente militare, i raid aerei (contro Isis secondo la propaganda dei media filorussi, in realtà contro i ribelli anti Assad), i missili SS-300, cambiano in peggio il calderone siriano.
Per ogni bandiera antiamericana, Iran, Hamas, Hezbollah, Isis, Qaeda, talebani, fondamentalisti, il messaggio è chiaro, la Russia sarà pur frenata dal calo del petrolio, il rinnovamento delle forze armate di Mosca non le porta ancora al livello americano, ma la spregiudicatezza del Cremlino mette in scacco l’eterna irresolutezza dell’Amleto Barack.
Il presidente Obama può ripetere che l’opinione pubblica Usa - alle prese con un’astiosa campagna elettorale, dove il populismo di destra di Donald Trump e l’utopia socialista di Bernie Sanders si contendono la scena, a sorpresa - vuole solo che l’anemica ripresa economica si irrobustisca, senza accendere nuove avventure di guerra in Asia. Tutto vero, ma un leader capace di strategia guida il Paese, non ne subisce la deriva verso l’isolamento. Wilson impegna gli Usa nella creazione di una comunità internazionale, Roosevelt li prepara e guida in una guerra non voluta, Nixon apre alla Cina e chiude col Vietnam, Clinton crede nel mercato senza frontiere, malgrado il no dei sindacati filodemocratici.
Le nostalgie per la Guerra Fredda, che si diffondono ora come una moda, dimenticano che era il regno della paura nucleare, a noi occidentali garantiva libertà e sviluppo, al resto del mondo fame e dittatura. È l’America che manca ai suoi doveri nel 2015, l’America che ora lo Stato Maggiore vorrebbe restasse a Kabul ben oltre la deadline 2017, segnata con troppa fretta, come in Iraq, da un Obama con lo sguardo alle promesse elettorali, non alla realtà dura. La caduta di Kunduz, prima capitale di provincia in mano talebana dal 2001 e le divisioni nel governo del presidente Ghani, confermano che senza americani il Paese tornerà in pochi mesi al fondamentalismo e alla guerra civile. La Cina costruisce isole artificiali per allargare la propria influenza, controllando le autostrade del mare nel Pacifico da cui passa quasi la metà dei commerci mondiali, crocevia che da 70 anni la U.S. Navy tiene libero: Washington terrà o cederà anche nei mari cinesi? E interverrà sul mercato nero degli ordigni nucleari ai terroristi di cui si torna a sentir parlare?
L’assenza di Obama, la confusione petulante della campagna elettorale 2016, non offrono agli alleati - europei, asiatici, Nato - indicazioni strategiche serie. Né in Europa appare un leader capace di unificare il vecchio continente sulle sfide in corso, rappresentando con forza in America il bisogno di strategia. Occidente è una maschera senza idee, Nato un’armata sperduta nel Deserto dei Tartari, l’alleanza America-Europa il mercatino dove si litiga per le fotine dei teenager su Facebook, non per assicurare libertà e giustizia.

Alla Russia serve un re
Parla il regista Nikita Mikhalkov «Il liberalismo non fa per noi»intervista di Paolo Valentino Corriere La Lettura 11.10.15
«Io non sento alcuno squilibrio tra il passato e l’oggi. È appena uscito un libro che raccoglie le mie interviste in 40 anni. Lo temevo, pensavo a chissà cosa potevo aver detto nel 1966. Poi ho capito con soddisfazione che non rinuncio a una sola parola di allora. Sottoscrivo tutto anche oggi. Sono sempre stato un uomo russo e mi sono sempre percepito come tale. Non un sovietico o uno della Russia, ma proprio russo. È vero, il mondo è cambiato, ma il mio perno è rimasto lo stesso».
Il 21 ottobre Nikita Mikhalkov festeggerà il suo settantesimo compleanno. Il regista premio Oscar, autore di film memorabili come Sole ingannatore e Oci Ciornie , ha la stessa età della vittoria nella Seconda guerra mondiale, l’evento che più di ogni altro ha definito la storia e l’identità dell’Unione Sovietica e poi della Russia. E nessuno più di lui ha incarnato le svolte brusche e le contraddizioni di questi sette decenni. Aristocratico per nascita, uomo dell’establishment per definizione e vocazione, cineasta di classe mondiale amato e riverito in Occidente, maître à penser della nuova Russia di Vladimir Putin, Mikhalkov si vuole aedo della «rinascita dell’autocoscienza nazionale» nel suo Paese.
«Sì, il mondo è cambiato — dice, ricevendo “la Lettura” nel suo ufficio zeppo di cimeli e fotografie nel cuore antico di Mosca —. L’Europa era un sogno dorato per l’uomo sovietico. Là, da qualche parte, dimorava una promessa. Poi le porte si sono spalancate e abbiamo potuto vederla, l’Europa. Ci siamo messi a viaggiare: Roma, Vienna, Parigi, Londra. Ma col tempo, via via che si andavano definendo gli interessi, abbiamo capito che non tutto era così bello e ameno. E all’improvviso abbiamo scoperto che il mondo russo e quello ortodosso erano alieni per l’Europa illuminata. Ma anche l’Europa non è più quella di 40 anni fa: si è unita pensando di dar vita a un organismo giovane e invece ne è risultato un ospizio per vecchi».
Che cosa rimprovera agli europei?
«Che i loro interessi vengono al di sopra di tutto, mentre quelli della Russia restano sempre sullo sfondo. E in situazioni assolutamente evidenti si adoperano doppi standard».
Si riferisce all’Ucraina?
«Certo. Per l’Europa quanto è avvenuto laggiù è una rivoluzione democratica di liberazione. Ma per noi, per i popoli le cui radici sono intrecciate da secoli, è una tragedia, una catastrofe globale e devo constatare che in questo c’è un’enorme colpa della Russia. Pensavamo che non sarebbero scappati, con tutte le cose che ci legano. Pompiamo il gas, cantiamo canzoni, ci frequentiamo. Ci è sfuggito l’attimo 25 anni fa, quando l’Ucraina è diventata un colossale laboratorio per gli esperimenti altrui. Gli specialisti americani hanno svolto con calcolo e coerenza un lavoro capillare, in particolare sulla nuova gioventù: giornali, trasmissioni radio, programmi tv, libri di scuola, organizzazioni non governative. Il risultato lo vediamo oggi: un criminale antisemita come Bandera è un eroe e le sue bande, che infilzavano con le baionette i neonati dei contadini ucraini, sono i liberatori; un complice dei nazisti come Shukhevych è un patriota; l’Armata Rossa non ha liberato ma occupato l’Ucraina, i suoi soldati che morivano per Kiev sono i nemici. Questo è attraversare lo specchio, come Alice nel Paese delle meraviglie».
Come si esce dall’impasse in Ucraina?
«Delle due l’una. O si riconoscono i referendum a Lugansk e Donetsk come legittimi e si viene a patti con il Donbass, vuoi come separazione volontaria ovvero come coesistenza nell’ambito di una confederazione. Oppure la seconda via è lo sterminio totale del Donbass. Il conflitto porta con sé esiti imprevedibili, cui è meglio non pensare».
Perché Putin è così popolare? Cosa rappresenta per la Russia?
«Putin è un leader straordinario. Si distingue per come affronta direttamente un problema e ne parla chiaramente. È un uomo. Non vedo o quasi nei Paesi europei leader che si possono permettere di dire quello che hanno in testa senza temere quello che si possa pensare di loro. Indipendenza, chiarezza di pensiero, fedeltà alla parola data sono qualità di un vero uomo, assolutamente necessarie per un leader nazionale. Sembra strano, ma fra tutti gli statisti mondiali, chi si avvicina di più a Putin è una donna: la cancelliera tedesca Angela Merkel».
La differenza tra i due è che Putin ha qualche problema con la democrazia.
«Cosa intende per problemi con la democrazia?».
Diritti dell’opposizione, libertà di parola, accesso ai media…
«Lei li legge i nostri giornali? Chi è che non può dire qualcosa? Quanti comizi ha fatto negli ultimi tempi l’opposizione? Quante ore i suoi rappresentanti dibattono in tv? Dirò di più, non sono affatto sicuro che in molti Paesi d’Europa punti di vista così contrapposti abbiano tanto spazio. Però non bisogna confondere una sana opposizione con i liberali sfacciati, insolenti e libertini, che hanno per scopo solo la dissoluzione di ogni fragile equilibrio. Quelli la cui libertà individuale si contrappone a ogni costo agli interessi nazionali. Il liberalismo in Russia è in un modo o nell’altro la negazione dello Stato come istituzione, di ogni potere eccetto il proprio, il potere del liberale, cioè il vuoto di potere. Ma questo in Russia significa il caos, che reputo più terribile di ogni dittatura».
La democrazia non fa per la Russia?
«La democrazia liberale del Lichtenstein, della Svizzera o del Belgio non può essere applicata in un Paese con 11 fusi orari, dove bisogna volare 9 ore per andare da un capo all’altro sopra un territorio nel quale tutti parlano la stessa lingua e dove coesistono le più varie confessioni. La Russia è l’unico ponte reale tra Est e Ovest perché tutto qui è mescolato, intrecciato e nondimeno organico. Il separatismo liberale che esorta allo sfascio della Russia è la strada verso un caos mondiale. Metaforicamente parlando la Russia è una croce: la verticale del potere e l’intersecante orizzontale della cultura e dell’economia. Non a caso la monarchia plurisecolare con la considerazione della mentalità russa era l’unico metodo per governare il Paese. Mi rendo conto che le mie parole possano suonare arcaiche, ma sono stato fra i primi a chiedere un prolungamento del mandato presidenziale. La Russia ha bisogno della continuità del potere, in quanto la sua stabilità è la stabilità del mondo».
Ma la stabilità dovrà pur servire a qualcosa. Perché 25 anni dopo la fine dell’Urss non c’è ancora un modello economico che funzioni e siete sempre dipendenti dal prezzo delle materie prime?
«Perché non c’è una borghesia sana in Russia. La ricchezza non è stata guadagnata col lavoro di generazioni, ma sottratta, spesso a coloro che prima servivano la nomenklatura sovietica».
E Putin questo lo capisce? Fa qualcosa?
«Ne sono convinto, ma è costretto ad andare a zig zag, spingendo le persone che hanno i capitali a capire che la loro ricchezza deve lavorare per il Paese, non essere portata nei paradisi fiscali. Qualcuno lo comprende e lo fa, qualcun altro fugge. La corruzione è un grande problema. Putin è conscio che movimenti bruschi sono molto pericolosi in un grande Paese come la Russia. È come guidare un autocarro con cinque rimorchi».
Quanto è importante oggi l’ortodossia nell’identità russa?
«È la sua peculiarità. La Chiesa è l’unico luogo nel quale esiste la democrazia di cui mi ha chiesto prima. Lì sono tutti uguali: un presidente, un soldato, un povero, uno studente, un regista, un giornalista. Per me in Russia la Chiesa ortodossa è l’istituto della democrazia».
Esiste la russofobia e cos’è?
«È la pigrizia o la riluttanza a scrutare bene il volto del Paese. Il tempo è fratello della verità. Per conoscere una persona o un Paese, per assaporare un paesaggio, per leggere un libro ci vuole tempo. Ma non c’è voglia di spenderlo. È più facile figurarsi la Russia come una combinazione di vodka, orsi, zingari e bombe atomiche. O l’Italia come una combinazione di mafia e pastasciutta. Chi sa dove si trova il Donbass o la storia della Crimea? A chi sta a cuore il racconto dell’eroica difesa di Sebastopoli, cui partecipò Lev Tolstoj? Le fiabe vengono generate dalla paura e la paura è figlia dell’ignoranza: l’esercito, l’aggressione..».
Però l’esercito c’è davvero.
«Grazie a Dio. Se Putin non fosse venuto, l’esercito russo avrebbe potuto anche non esserci più. Stavano già riconvertendo l’industria militare, pentole e sciacquoni invece di armi. Per noi l’esercito non era solo uno strumento per condurre guerre, era parte della vita della società russa e meno male che oggi è rinato. Guardi cosa succede a chi non ha potenza sufficiente a difendersi, a cosa porta il trapianto coercitivo della democrazia in Paesi con civiltà del tutto diverse. Quanto sangue scorre da quelle parti, quali persecuzioni verso i leader di quei Paesi».
La crisi economica è un pericolo per il potere di Putin?
«La crisi è pericolosa per tutti, il terreno che può fare vacillare qualsiasi situazione. Un altro conto è quanto Putin sarà onesto davanti alla gente. Se chiarirà gli obiettivi per i quali tutti devono stringere la cinghia, spiegando che lui stesso è pronto a farlo e le difficoltà di oggi sono il prezzo per l’indipendenza e la rinascita, il popolo risponderà positivamente».
C’è qualcosa che rimpiange nella vita o di cui si pente? Abbiamo fatto la stessa domanda a Putin e ha risposto che non si pente di nulla.
«Ci sono cose che rimpiango perché mi sarebbero potute essere più utili nella vita: se avessi imparato alla perfezione sei lingue straniere, me ne potrei servire per comunicare con chiunque».
C’è un suo film al quale si sente particolarmente legato?
«Sono un uomo felice, non ricordo i miei film. Ogni volta che comincio a girarne uno, è come se fosse il primo e l’ultimo. E se non accusi il peso di quello che hai fatto, non puoi rimanerne schiacciato».
Il film che vorrebbe fare, ma non ha ancora fatto?
«Il film sulla vita e la morte dello scrittore e diplomatico russo Aleksandr Griboedov, un tema straordinariamente interessante».
Ci racconta un aneddoto divertente?
«Sono a Venezia, dove c’è un festival sui documentari industriali. Mi premiano per uno spot sulla Pasta Barilla. Cammino in Piazza San Marco e due giovani giapponesi, un ragazzo e una ragazza, mi indicano la macchina fotografica e chiedono: possiamo? Si, prego, rispondo. E mi metto in posa. Mi guardano con gli occhi sgranati, probabilmente credendomi matto: non ha capito, ci può scattare lei una foto? Geniale. Sono rimasto sbigottito, ero abituato a Mosca dove mi chiedono sempre un selfie. Poi mi sono fatto una lunga risata».
È contento dei suoi 70 anni?
«Non me ne importa più di tanto. Per me è più interessante continuare a giocare a tennis, a calcetto e a nuotare. (Mikhalkov improvvisamente si mette a parlare italiano, ndr ). Non sono un vecchio maestro, sono un hooligan».
Buon compleanno, Nikita.

La tempesta perfetta che può travolgere il Medio Oriente
di Vittorio Emanuele Parsi Il Sole 11.10.15
La tempesta perfetta, capace di travolgere l’intero quadro regionale a partire dal suo epicentro siriano. Il rischio, mai così concreto, che Aleppo possa cadere in mano non della resistenza anti Assad ma di Daesh (Isis), spiega la repentinità della decisione russa di intervenire militarmente a sostegno del regime. Evidentemente, nonostante i successi militari conseguiti da Hezbollah sul confine siro-libanese durante l’estate, il regime era in condizioni assai più precarie di quanto potesse apparire.
La lunga inazione dell’Occidente in questa crisi ha consentito a Daesh di rinforzarsi oltre misura e, soprattutto, ha concesso uno spazio spropositato agli attori regionali, permettendo loro di trasformare il quadro della guerra civile siriana in un fronte che di fatto ha coinciso con il raggio di azione del sedicente Califfato del terrore. Iraq e Siria sono diventati i campi di battaglia in cui Arabia Saudita, Iran e Turchia hanno condotto i loro giochi di guerra, convinti di poterne divenire i burattinai mentre in realtà ne restavano sempre più intrappolati.
Gli eventi drammatici di ieri mattina ad Ankara ci parlano, ad un tempo, del rischio crescente che il Paese sia risucchiato sempre di più nel gorgo siriano e della possibile involuzione autoritaria del regime di Erdogan. Ed evoca legami inquietanti tra un altro e diverso “Stato profondo” rispetto a quello in passato legato ai Lupi Grigi ma egualmente ossessionato dal problema curdo.
Il dilagare della violenza e il cinismo estremo dimostrato da alcuni degli apprendisti stregoni mediorientali è visibile non solo nel Levante ma anche nella Penisola arabica, in Yemen, teatro di una tragedia dimenticata.
Il collasso del sistema mediorientale è a tal punto avanzato da apparire in grado di travolgere persino l’accordo sul nucleare iraniano tanto faticosamente raggiunto. Piuttosto che contribuire a stabilizzare la regione attraverso la necessaria integrazione di un attore troppo a lungo ostracizzato, essa concorre involontariamente a consolidare i successi conseguiti dall’Iran, a un livello percepito come intollerabile dalla fragile e perentoria leadership israeliana.
Il coinvolgimento di Israele nelle operazioni contro gli Hezbollah e i pasdaran iraniani in Siria è infatti aumentato proprio in seguito al raggiungimento dell’intesa di Vienna e rischia di conferire alla ormai tradizionale ostilità tra il partito-milizia sciita libanese e lo Stato ebraico una dimensione regionale.
Anche per questo la cosiddetta “Intifada dei coltelli” preoccupa così tanto, perché per la prima volta da molti anni la questione israelo-palestinese torna a essere pericolosamente ricompresa in una dinamica regionale più ampia, ritorna ad essere una questione arabo-israeliana, come minimo.
In uno scenario gia così pesantemente destabilizzato l’ultimo elemento che avremmo voluto veder comparire è quello della rivalità tra Russia e Stati Uniti in termini di sfere d’influenza. Mentre è una pericolosa illusione quella di poter credere che “standosene fuori” si possa anche “stare al sicuro”, altrettanto pericoloso sarebbe lasciar prevalere i motivi di dissenso con la Russia - che pur ci sono e sono consistenti - e rinunciare invece a perseguire il coordinamento dell’azione della comunità internazionale il cui scopo ultimo, al di là dell’urgenza di fermare Daesh, è ormai anche quello di arrestare il collasso di tutto il Medio Oriente.

Dai Medio Oriente un conflitto globale? Noi e la paura di una guerra mondiale
Corriere 11.10.15
La formula di papa Francesco sulla Terza guerra mondiale «a pezzettini» si dimostra ogni giorno più tragicamente esatta.
L’ultimo pugno nello stomaco ci viene da Ankara, in Turchia, con la strage di giovani che ieri manifestavano per la pace.
Molti di loro avevano l’età dei nostri figli.
Ma serve davvero a qualcosa domandarsi chi abbia indottrinato e armato chi ha causato la strage? I siriani che hanno ogni interesse a destabilizzare la Turchia, gli iraniani per lo stesso motivo, la fazione più dura dei curdi in lotta con quella più moderata, gli agenti di Erdogan, che spera di strappare la maggioranza assoluta alle elezioni del primo novembre?
L’impressione, piuttosto, è che in una ampia zona del mondo che chiamiamo Medio Oriente ma che tocca l’Europa e l’Africa i «pezzettini» di Francesco si stiano ricompattando in una guerra globale a noi vicinissima, che sarebbe autolesionista tentare di ignorare o di sminuire. Il rapporto tra civiltà occidentale e civiltà islamica non è diventato complesso e conflittuale per una deriva storicamente fatalista come quella prevista da Huntington, ma piuttosto perché in entrambi i campi la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’ordine dei blocchi ha fatto esplodere crisi interne di cui non si vede la fine. L’Occidente ha «perso» il nemico sovietico (anche se ora tenta di ritrovarlo con la generosa complicità dal Cremlino) e fatica a mantenersi unitario in un mondo che spinge piuttosto alla competizione economica e strategica. Fenomeno questo aggravato dal palese indebolimento della leadership americana e dal fallimento delle ambizioni europee sulla «voce unica» in politica estera. Ma la crisi del mondo islamico è molto più grave della nostra: è guerra senza quartiere tra sunniti e sciiti, è corsa alle interpretazioni più estreme del Corano, è odio incrociato tra fazioni e Stati (anche se il Nobel alla Tunisia segnala l’esistenza di eccezioni).
Le due crisi, quella occidentale e quella islamica, si scontrano confusamente in una partita che ha per posta la difesa per gli uni, e la distruzione per gli altri, dell’ordine geografico e politico che i colonizzatori occidentali credettero di poter imporre dopo la caduta dell’impero ottomano. Con l’aggravante che oggi sono ben più chiare, oltre alle contrapposizioni religiose, anche le mappe di enormi ricchezze. E che nei decenni si sono aperte ferite che paiono insanabili almeno fino a quando sulla scena globale non arriveranno statisti di levatura diversa rispetto a quelli che oggi non riescono a tenere il timone degli equilibri mondiali.
È in questa cornice che i «pezzettini» di guerra interagiscono e creano le premesse di un grande, tragico falò. In Siria si spara e si polemizza, ma si tende spesso a dimenticare che lì nasce la minaccia che sta agendo da grimaldello guerrafondaio nei confronti di tutte le altre parti: l’Isis, il nemico numero uno, ma di chi? Dell’Europa di certo, anche per la paura di nuovi attentati terroristici. Della Russia al pari di altri, visto che i molteplici obbiettivi di Putin sono salvare Assad, colpire i jihadisti provenienti dal Caucaso e piantare la bandiera per eventuali negoziati oppure, più probabilmente, in vista di una eventuale spartizione territoriale della Siria. Degli Stati Uniti l’Isis è il nemico principale, ma nemico è anche Assad (e qui le due strategie diventano incompatibili) ed è nemica strategica una Russia che ha occupato fulmineamente lo spazio vacante lasciato dagli Usa.
E che dire degli altri, mentre piovono bombe che non si sa bene chi colpiscano e volano missili che non si sa bene dove cadano? La Turchia colpisce i curdi più dell’Isis ed è contro Assad. Dunque è contro l’Iran, che non vuole stare con la Russia, ha rapporti ancora guardinghi con gli Usa, ma sta con Assad perché pensa alla difesa dello schieramento sciita. Per il motivo opposto l’Arabia Saudita sta con i sunniti dunque contro Assad, e ha inizialmente finanziato l’Isis.
Fermiamoci qui, per la Siria, anche se si potrebbe continuare. E in Iraq? I fronti schierati contro il Califfato sono più chiari, ma spesso divisi al loro interno tra componenti sciite e componenti sunnite impegnate comunque contro l’Isis. È nell’aiuto a queste ultime che bisognerebbe fare di più, perché soltanto una maggioranza di sunniti può davvero sconfiggere i sunniti estremisti dell’Isis. E se l’Italia manterrà le promesse fatte agli Usa i nostri Tornado potranno dare un piccolo contributo in questo senso, oltre a confermare l’appoggio ai curdi.
Nel frattempo il Libano e la Giordania sono stati resi più fragili (come la Turchia) dall’enorme afflusso di profughi siriani. Nello Yemen avvengono massacri circondati dalla disattenzione generale. Israele non vuole una terza Intifada, ma i palestinesi sembrano invece decisi ad attuarla anche per bilanciare l’estrema debolezza di Mahmoud Abbas. E l’ombra più cupa che si avvicina è una nuova guerra di Gaza, combattuta sulle macerie di quella precedente. La Libia che ospita un avamposto dell’Isis ci impone di attendere, anche se una eventuale ratifica del governo di unità nazionale risulterà utile (forse) al Consiglio di sicurezza più che sul terreno dal quale ci giungono, quando riescono a giungere, tanti migranti. E se poi la scelta si orientasse verso l’imposizione militare di una pace inesistente, rischieremmo di commettere un grave errore di calcolo.
Ne abbiamo trascurati parecchi di «pezzettini», a cominciare dalla crisi Ucraina che entro gennaio dovrà sciogliere il dilemma tra congelamento sulle posizioni attuali e scontato rinnovo delle sanzioni anti Russia, oppure cantonizzazione del Donbass, accordo sul confine Ucraina-Russia e difficile confronto euro-americano sulle sanzioni.
In Europa oggi l’arrivo dei migranti pare più grave e urgente di un possibile ritorno alla Guerra fredda. Brutto segnale anche questo. 

I protagonisti sono tre: Obama Putin e Francesco
di Eugenio Scalfari Repubblica 11.10.15
L’ITALIA entrerà in guerra contro il Califfato musulmano utilizzando i suoi quattro aerei Tornado di stanza ad Abu Dhabi per bombardare le posizioni dell’Is in Iraq? O si tratta soltanto d’un cambiamento delle regole di ingaggio dei nostri avieri? Quale che sia il modo di gestire la questione, il nostro premier vuole che sia il Parlamento a decidere, quindi lui la vede come un atto di guerra vero e proprio perché questo gli torna utile. Se infatti l’Italia entra in guerra acquista con ciò il diritto di partecipare a pieno titolo alle riunioni dei Paesi che in quella guerra ci sono già, sia pure con ruoli diversi e talvolta conflittuali: Usa, Russia, Turchia, Francia, Siria, Iraq e dunque anche Italia. Renzi vuole un ruolo internazionale e in questo caso lo avrebbe.
Gli basta? No, non gli basta. Lo vuole anche in Libia. Non più come negoziatore dell’accordo tra Tobruk e Tripoli, ormai realizzato dall’incaricato dell’Onu che ha lavorato per cinque mesi al fine di ottenerlo; ma come protettore, una sorta di Lord Protector in posizione dominante per la distruzione dei pescherecci e dei barconi utilizzati dagli scafisti e dai mercanti di uomini, l’allestimento di centri di raccolta in territorio libero e l’eventuale intervento nei Paesi di partenza dei migranti nell’Africa sub-sahariana.
Se questi sono gli obiettivi, il ruolo dell’Italia cambierebbe di colpo, sia all’Onu, sia in Europa, sia nella Nato; i rapporti con Obama si farebbero più stretti, altrettanto quelli con Juncker, presidente della Commissione europea, e con Putin. Insomma: uno statista di livello mondiale che del resto — pensa lui — l’Italia merita essendo stata una dei cinque fondatori della Comunità europea che nacque col Trattato di Roma del 1957 dal quale l’Unione prese l’avvio.
Naturalmente queste varie iniziative con le quali Matteo Renzi sta costruendo il suo podio costano soldi. Non pochi. Ma di quest’aspetto finora non si è parlato.
AVRANNO un peso reale sulla situazione migratoria e sul Califfato? Nessuno. Le dimensioni di quella guerra aumentano di giorno in giorno e si diffondono in tutto il mondo. Giorni fa ci furono attentati in Bangladesh, a migliaia di chilometri dal Califfato, Stato islamico. Ma ieri due kamikaze si sono fatti esplodere nella stazione centrale di Ankara provocando una strage di almeno cento morti e centinaia di feriti, il massacro più grande che sia avvenuto in questi anni e in un Paese appartenente al tempo stesso al mondo islamico, all’Europa, governato da un presidente autoritario, impegnato in una guerra civile che data da decenni con i curdi. Per ora la strage non è stata ancora rivendicata, ma Erdogan e i curdi si rimpallano le accuse.
Questa è la vera guerra che si intreccia con quella siriana mentre nel frattempo si è riaperto il conflitto tra Israele e Hamas, sempre più cruento da Gaza alle rive del Giordano.
L’Europa è al margine di questi eventi, non ha forze armate proprie, non ha una po-litica estera comune, quindi non è un soggetto attivo, ma dal punto di vista di soggetto passivo è fortemente sotto schiaffo. E l’Italia è anch’essa soggetto passivo. Potrebbe diventarlo ancora di più perché Roma è Roma. Le iniziative puramente figurative del nostro presidente del Consiglio valgono ben poco sul terreno ma possono – se passeranno in Parlamento – stimolare l’attuazione di attentati in un Paese che è la sede del Pontefice.
Naturalmente sono stati già presi in proposito opportuni provvedimenti di sicurezza ma il progetto di Renzi va avanti perché egli coltiva il disegno di essere un nuovo Cavour, quello che mandò i soldati piemontesi a combattere in Crimea per guadagnarsi la stima dell’Europa e della Francia di Napoleone III, con il fine di portare avanti l’obiettivo dello Stato italiano.
Renzi è dunque il successore di Cavour? Forse lo è di Berlusconi e nel frattempo ha adottato Verdini. Siamo alquanto lontani da Camillo Benso, da Garibaldi e da Mazzini.
*** Nelle pagine del nostro giornale ci sono oggi servizi approfonditi sui vari aspetti della situazione in Medio Oriente, di Bernardo Valli, Adriano Sofri, Marco Ansaldo ed altri colleghi in varie zone collocati. Non ho quindi nulla da aggiungere salvo una considerazione sui protagonisti di questa vicenda che impegna il mondo intero per le sue ripercussioni non soltanto politiche ma anche sociali ed economiche, sulle materie prime, sui flussi migratori, sulle religioni.
Ebbene, esaminando tutti questi intrecci di interessi, valori, fedi religiose, fondamentalismi, cupidigie di potere ma anche desideri di libertà, di eguaglianza, di diritti, di solidarietà, a me sembra che i protagonisti siano tre: Obama, Putin, papa Francesco.
Il Presidente Usa ha in animo un obiettivo: in un mondo multipolare vuole che l’America indichi qual è la musica da suonare e il suo ritmo, ed è l’America il direttore d’orchestra che coordina i vari strumenti. È chiaro che gli strumenti sono diversi tra loro, alcuni più importanti di altri e c’è lo spazio anche per i solisti di importanza tale da essere equiparati al direttore dell’orchestra, ma è sempre lui a dare l’avvio perfino al solista e a guidare con la sua bacchetta il gran finale. Questa è la funzione che Obama assegna agli Stati Uniti e la missione affidatale è quella della pacificazione, del progresso civile e ovviamente del ruolo americano.
Putin è consapevole che dirigere l’intera orchestra e scegliere il testo da suonare non è compito suo. Perfino ai tempi dell’Urss e del mondo diviso in due da contrapposte ideologie, l’impero americano era molto più vasto di quello sovietico che non poteva far blocco neppure con lo Stato comunista cinese.
Putin non ha più una ideologia da usare come strumento politico, né un’economia potente che lo sostenga, anzi versa in condizioni economiche estremamente agitate. Non ha neppure una forza militare importante come quella che gli Usa sarebbero in grado di allestire in caso di necessità. E tuttavia gioca con coraggio e grande abilità la sua partita in Europa e in Medio Oriente.
In Europa vuole circondare le sue frontiere con una cintura di Stati neutrali che corrisponde più o meno a quelli dominati (con fatica) dall’Urss. Il caso ucraino è il più significativo, ma non è il solo.
In Medio Oriente lo “zar” vuole potersi affacciare sulla sponda mediterranea ed aver voce economica e politica anche su quello scacchiere. La Crimea era fondamentale per la presenza russa nel Mar Nero, ma il Mediterraneo è ancora più importante per ovvie ragioni e la presenza dei russi in Siria è motivata soprattutto da questo scopo: attrezzare nel Mediterraneo una base che non sia soltanto – come già è – un porto d’attracco, ma una presenza economica del genere di quelle che ebbero nel Rinascimento le basi commerciali delle Repubbliche marinare italiane e di Venezia in particolare.
Questo vuole Putin, che sa tuttavia di dover stipulare un accordo con gli Usa e con Obama in particolare perché chi tra un anno gli succederà non è detto che conceda alla Russia il ruolo di comprimario che Obama, pur cercando di limitarlo, è comunque disposto a riconoscergli. L’accordo tra i due sarà raggiunto nei prossimi giorni e non sarà certo un intralcio la posizione di Assad che di fatto rappresenta un punto di passaggio d’una mediazione quanto mai necessaria.
Il terzo protagonista, papa Francesco, si muove su tutt’altre dimensioni, non politiche ma religiose. La sua visione religiosa tuttavia è talmente rivoluzionaria da esercitare effetti politici rilevanti dei quali Francesco è perfettamente consapevole.
La dichiarazione – il nocciolo della predicazione papale – che Dio è unico in tutto il mondo anche se viene descritto e declinato dalle varie confessioni attraverso le sacre scritture diverse tra loro, è un punto di fondo con conseguenze politiche estremamente importanti. Il Dio unico esclude ogni fondamentalismo e punta invece su un proprio Dio e lo contrappone a quello degli altri. Il terrorismo del Califfato musulmano con i suoi kamikaze che sacrificano le loro giovani vite pur di ammazzarne altre, è una mostruosa derivazione del fondamentalismo del quale il Dio unico di Francesco è la più assoluta negazione.
Il Papa nella sua visione moderna della Chiesa esercita anche molti altri effetti positivi sull’orientamento politico dei popoli e delle loro classi dirigenti, ma quello principale a tutti gli effetti è appunto la religione dell’unico Dio. La platea di Francesco è il mondo intero ma soprattutto l‘America del Sud, l’Africa, il Medio Oriente, le isole indonesiane, la Polinesia, le Filippine. India e Cina sono continenti più remoti rispetto ad un Papa cristiano che infatti punta a mano tesa anche su quegli Stati continentali. Nell’India meridionale ha già messo piede entrando in contatto con milioni di persone.
Senza Francesco, comunque, il nostro mondo e la nostra modernità sarebbero estremamente più poveri. Per tutti, non credenti compresi. Lui, pur essendo portatore della fede che interamente lo possiede, è il Papa più laico della storia cristiana. Lo sa e non se ne duole. Una massa di credenti è anche laica poiché è consapevole del libero arbitrio e lo usa con responsabilità così come allo stesso modo lo usa il laico non credente.
Purtroppo accade anche che credenti e non credenti usino il libero arbitrio nel modo peggiore. Ne abbiamo sotto gli occhi gli esempi più efferati o più stupidi e francamente non saprei dire quale dei due esempi è più faticoso da combattere e da sopportare. 

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