domenica 11 ottobre 2015

Altri reggicoda scoprono l'acqua calda con 20 anni di ritardo

Bellissimo lo scambio sul "pensiero debole". Bellissimo anche Medici che rimpiange i tempi di Veltroni, Rutelli, delle feste infinite e delle infinite cooperative per assumere gli amici perdigiorno a spese del lavoratore salariato [SGA].

Partito della Nazione D’Anna-Fornaro, duello su Asor Rosa e il pensiero debole 
Il Fatto 11.10.15
Al senatore Vincenzo D’Anna, portavoce dei verdiniani, non è andata giù l’intervista di Asor Rosa sul Fatto di venerdì scorso e scrive su Facebook: “Partito della Nazione: il filosofo comunista Alberto Asor Rosa, noto per la sua teoria del pensiero debole, definisce l’idea di un Partito della nazione, un partito di destra anti-democratico. Accusa Renzi di aver eliminato nel Pd tutti gli ex comunisti e di volersi unire ad Alfano e Verdini che sarebbero dei pericolosi reazionari di destra. Se spiace a un comunista incallito come Asor Rosa converrà certo lavorare per farlo il Partito della nazione. Eviteremo che in Italia possano contare ancora qualcosa quelli dal pensiero debole”. A D’Anna, ha replicato Federico Fornaro, senatore bersaniano del Pd: “È Gianni Vattimo il filosofo del pensiero debole e non certo Alberto Asor Rosa, come invece sostenuto dal verdiniano senatore D'Anna, che farebbe meglio a evitare di lanciare anatemi in stile anni Cinquanta. Si può non essere d'accordo con Asor Rosa, che non è certo tenero, ad esempio, con la minoranza Pd, ma il maccartismo fuori tempo di D'Anna non può essere certo il cemento ideale di quel Partito della nazione, a cui dicono di voler lavorare”. 



11 ottobre 2015, 08:14



di Fabrizio d'Esposito eddyburg 10 Ottobre 2015 

È finita la parabola del centrosinistra
Ignazio Marino. L’ex sindaco di Roma è un liberista convinto, che in due anni ha applicato senza discutere le misure di austerità volute da Renzidi Sandro Medici il manifesto 11.10.15
Con le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma è definitivamente tramontata la parabola del centrosinistra. Di quelle politiche amministrative che per circa un ventennio hanno connotato, con maggiori o minori successi, le politiche amministrative locali.
Ebbene, con il chirurgo genovese si è invano tentato di farle sopravvivere, malgrado fosse evidente fin da subito l’impossibilità di continuare ad attuarle. E’ stato necessario consumare un tormentato biennio per accorgersi di quanto ingannevole fosse stato quel tentativo e di quanti disperanti equivoci contenesse. E oggi quest’esperienza s’infrange proprio su quel malinteso iniziale.
E’ davvero difficile trovare un sindaco più obbediente e zelante di lui nell’applicare le politiche economiche dettate dal governo e conformarsi acriticamente alle misure di austerità e ai piani di rientro imposti dall’amministrazione statale.
In quest’ultimo scorcio, la città ha visto progressivamente ridursi la spesa sociale e indebolirsi allo stremo la rete di sostegno per le fasce più esposte e bisognevoli. Così come diminuire sensibilmente gli stanziamenti per la manutenzione urbana e per il trasporto pubblico, lasciando ulteriormente deperire le aree periferiche e stremando la già precaria e insufficiente rete di autobus e metropolitane.
Ma tagli e saccheggi si sono abbattuti anche sulle attività culturali e la cura del patrimonio artistico, archeologico e architettonico. E nel contempo, tra sgomberi e colpevoli abbandoni, si è preferito spegnere e deprimere la grande vitalità creativa e progettuale indipendente, dall’Angelo Mai al Teatro Valle, dal cinema America al Rialto occupato, a Scup.
Stesso impianto ferocemente liberista è stato praticato nelle politiche di svendita e privatizzazione di beni comuni, aziende pubbliche e patrimonio comunale. Stessa logica padronale è stata imposta contro i propri dipendenti, riducendo salari e indennità. Stesso meschino disinteresse si è manifestato sul destino dei lavoratori di aziende e cooperative che svolgono attività per conto del Comune. E tutto ciò, nella totale assenza di una qualsiasi strategia di crescita economica della città, se non quella derivante dalle grandi opere e dai grandi eventi, le generose volumetrie dello stadio della Roma, la grottesca grandeur della candidatura alle Olimpiadi e l’imminente, inaspettato Giubileo.
Ecco perché, fin dall’inizio, la stagione politica del sindaco Marino era pesantemente ipotecata da quegli obblighi politici, a cui volentieri si è conseguentemente allineato. E le stesse lodevoli iniziative che tuttavia sono state realizzate in questi due anni, dalla chiusura della discarica di Malagrotta, all’avvio della pedonalizzazione dei Fori, all’istituzione del Registro per le unioni civili, pur se meritevoli di giudizi positivi, non modificano l’impronta decisamente liberista, l’angustia culturale della sua esperienza amministrativa.
Avrebbe dovuto andarsene prima, il sindaco Marino. Prima di questa oscena sceneggiata sugli scontrini mendaci, prima di questi imbarazzanti viaggetti americani, prima insomma di tutto questo malsano chiacchiericcio che ha finito per travolgerlo. Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio, oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente.
Non esiste un Pd buono e uno cattivo. Solo se riusciremo definitivamente a rendercene conto, potremo avviare a sinistra una nuova stagione alternativa.


Riforme, la non autocritica di Bersani
Senato. L'ex segretario ammette: sono stati scritti "bizantinismi costituzionali". Parla della mediazione sulla quasi elezione dei senatori che la minoranza Pd ha firmato. Renzi intanto prova gli slogan per la campagna referendaria: "Meno politici"

il manifesto 11.10.15

Antivigilia del grande giorno per il governo. Martedì il senato darà l’ultimo voto, scontato nell’esito positivo, al disegno di legge Renzi-Boschi che riscrive un terzo della Costituzione del ’48. Il presidente del Consiglio non sta nella pelle da giorni e anche ieri è tornato a esultare: «Avremo un paese più semplice con meno politici a tempo pieno». Si riferisce ai cento senatori invece degli attuali 321, trascurando però di ricordare che le proposte di riforma alternativa prevedevano una riduzione ancora più forte attraverso il dimezzamento dei deputati (che invece la maggioranza ha voluto confermare a 630).
Renzi ha detto anche, parlando agli industriali di Treviso, che «non voglio ridurre il livello di democrazia, ma il numero di chi fa politica». Difficile negare che tra le due cose ci sia un rapporto proporzionale, a meno di non considerare un pericoloso esponente della «casta» chiunque fa politica. Forse Renzi intendeva questo. Con un anno di anticipo, è già in campagna elettorale per il referendum confermativo. Ha bisogno di slogan semplici.
Che la riforma costituzionale sia invece venuta fuori tutt’altro che semplice, ma assai faticosa nella lettura e nel funzionamento, lo sostiene adesso anche uno dei suoi più recenti estimatori. Pier Luigi Bersani, che da capofila dell’opposizione interna al disegno di legge Renzi-Boschi, si è trasformato in sponsor dopo l’accordo tra la minoranza democratica e il governo sulla «quasi elezione» diretta dei senatori. «Si poteva arrivare a questi risultati importanti, ma di elementare buonsenso — ha scritto ieri su facebook l’ex segretario Pd — senza impuntature, senza lacerazioni, ma soprattutto senza bizantinismi costituzionali». Riferimento evidente agli articoli 2 e 39 della legge di riforma che si prestano a contrastanti e complicate interpretazioni, sia per il modo in cui i cittadini potranno effettivamente scegliere i nuovi senatori, sia per il momento in cui cominceranno a farlo. Ma è precisamente la mediazione che la minoranza Pd ha accettato.
Il presidente del senato grasso, la cui conduzione d’aula ha scontentato parecchio le opposizioni, teme proteste scenografiche durante l’ultima votazione in diretta tv martedì pomeriggio. E, sollecitato dal Pd, ha convocato martedì mattina un consiglio di presidenza che si occuperà di sanzionare i senatori grillini più vivaci in aula. E dimettere tutti gli altri sull’avviso.

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