venerdì 20 novembre 2015

La chiamata alle armi dell'Occidente parla sempre la lingua della Seconda guerra mondiale: tradotto il romanzo di Dicker

Gli ultimi giorni dei nostri padri
La presentazione del libro vuole evocare una  continuità inesistente tra la II guerra mondiale e l'attuale "guerra al terrore". Bisogna respingere questo corto circuito ideologico [SGA].

Joël Dicker: Gli ultimi giorni dei nostri padri, Bompiani

Risvolto

Londra, 1940. Per evitare la distruzione dell’esercito britannico a Dunkerque, Churchill ha un’idea che cambierà il corso della guerra: creare una squadra dei servizi segreti che lavori nella discrezione più assoluta, la SOE, Special Operations Executive. La SOE è incaricata di azioni di sabotaggio e intelligence tra le linee nemiche: la novità è coinvolgere le persone più insospettabili tra la popolazione locale. Qualche mese dopo, il giovane Paul-Émile lascia Parigi per Londra nella speranza di unirsi alla Resistenza. Subito reclutato dalla SOE, è inserito in un gruppo di connazionali che diventeranno suoi compagni e amici del cuore. Addestrati e allenati in Inghilterra, i soldati che passeranno la selezione verranno rimandati nella Francia occupata e scopriranno presto che il controspionaggio tedesco è già in allerta... L’esistenza stessa della SOE è rimasta a lungo un segreto. Settant’anni dopo i fatti, Gli ultimi giorni dei nostri padri è uno dei primi romanzi a evocarne la creazione e a raccontare le vere relazioni tra la Resistenza e l’Inghilterra di Churchill.     


«Papà, vado in guerra ». Nel romanzo di esordio di Joël Dicker un ragazzo sceglie di combattere i nazisti 

20 nov 2015  Corriere della Sera Di Joël Dicker 

Che tutti i padri del mondo, al momento di lasciarci, sappiano quanto sarà grande il nostro pericolo senza di loro. / Ci hanno insegnato a camminare, ma non cammineremo più. / Ci hanno insegnato a parlare, ma non parleremo più. / Ci hanno insegnato a vivere, ma non vivremo più. / Ci hanno insegnato a diventare Uomini, ma non saremo più neanche Uomini: non saremo più niente. 

Seduti nell’alba, fumavano, osservando il cielo nero che danzava sull’Inghilterra. Pal recitava la sua poesia. Nascosto nel buio, ripensava al padre. 
I mozziconi rosseggiavano nell’oscurità: avevano preso l’abitudine di andare a fumare su quella collinetta alle prime ore del mattino. Fumavano per tenersi compagnia; fumavano per non avvilirsi; fumavano per non dimenticare che erano Uomini. 
Gros, il ragazzone sovrappeso, frugava tra i rovi come un cane randagio, uggiolava scovando i topi nell’erba umida. Pal si arrabbiò: «Piantala, Gros! Oggi bisogna essere tristi!». Al terzo richiamo, il compagno smise e, imbronciato come un bambino, girò intorno al semicerchio formato dalla decina di figure e si sedette dal lato dei taciturni, tra Grenouille, il depresso, e Prunier, il balbuziente infelice che amava segretamente le parole. «A che pensi, Pal?» chiese Gros. «A un sacco di cose…». «Non pensare a cose brutte, pensa a cose belle». Con la mano grassa e paffuta, Gros cercò la spalla del compagno. 
Dallo scalone del vecchio maniero che si ergeva di fronte a loro, qualcuno li chiamò. Stava per iniziare l’addestramento. Tutti si affrettarono, ma Pal rimase seduto ancora un istante ad ascoltare i rumori ovattati dalla bruma. Ripensava a quand’era partito da Parigi. Lo faceva continuamente, ogni sera e ogni mattina — soprattutto la mattina. Erano passati due mesi esatti da quel giorno.  
Era stato all’inizio di settembre, poco prima dell’autunno. Non aveva potuto trattenersi: bisognava difendere gli Uomini, difendere i padri. Difendere suo padre, anche se Pal aveva giurato di non abbandonarlo mai, il giorno in cui, qualche anno prima, il destino si era portato via la madre. Il figlio affettuoso e il vedovo solitario. Ma la guerra li aveva raggiunti, e il ragazzo, decidendo di andare a combattere, sceglieva di abbandonare il padre. Già in agosto aveva saputo che gli sarebbe toccato partire, ma non era stato in grado di dirglielo. Vilmente, aveva trovato il coraggio dell’addio solo il giorno prima della partenza, quando avevano finito di cenare.

«Perché proprio tu?» si era rammaricato il padre. «Perché se non lo farò io, non lo farà nessuno». Con gli occhi gonfi d’amore e di dolore, il vecchio aveva abbracciato il figlio per fargli coraggio.

Mino Steiner. il dovere dell’antifascismo

Poi, chiuso in camera, aveva pianto per tutta la notte. Piangeva per la tristezza, ma sapeva che quel ragazzo di ventidue anni era il più coraggioso dei figli. Pal era rimasto davanti alla porta della stanza ad ascoltare i suoi singhiozzi. E, all’improvviso, si era odiato per essere la causa di tutto quel dolore, si era odiato al punto di colpirsi il torace con la punta del temperino fino a sanguinare. In uno specchio aveva guardato il proprio corpo ferito, si era insultato e aveva scavato ancora la carne all’altezza del cuore, per far sì che la cicatrice restasse per sempre.
L’indomani, all’alba, muovendosi in vestaglia per l’appartamento, stravolto dal dolore, il padre gli aveva preparato del caffè forte. Pal si era seduto al tavolo della cucina, vestito di tutto punto, e aveva bevuto il liquido scuro lentamente, per ritardare il momento della partenza. Non avrebbe mai più bevuto un caffè migliore di quello.
«Hai preso gli indumenti adatti?» aveva chiesto il vecchio, indicando la sacca che il figlio stava per portare con sé. «Sì». «Fammi vedere. Ti serviranno vestiti caldi, l’inverno sarà molto rigido».
Il vecchio aveva aggiunto al bagaglio qualche altro capo, un salame, un pezzo di formaggio e del denaro. Poi aveva svuotato e riempito la sacca per tre volte di seguito. «Voglio rifarla meglio», ripeteva al termine dell’operazione, cercando di ritardare l’inesorabile destino. Quando non gli era rimasto nient’altro da fare, si era lasciato prendere dall’angoscia e dalla disperazione. «Che ne sarà di me?» aveva chiesto. «Tornerò presto». «Avrò molta paura per te!». «Non devi…». «Avrò paura tutti i giorni!». Finché il figlio non fosse tornato, lui non avrebbe più mangiato né dormito: sì, sarebbe diventato il più infelice degli Uomini. «Mi scriverai?». «Certo, papà». «E io ti aspetterò sempre». Poi aveva stretto forte il figlio a sé. «Devi continuare a studiare», aveva aggiunto. «L’istruzione è importante. Se gli uomini fossero meno ignoranti, non ci sarebbe la guerra». Pal aveva annuito. «Se gli uomini fossero meno stupidi, non ci troveremmo in questa situazione». «Sì, papà». «Ti ho messo dei libri nella sacca…». «Lo so». «I libri sono importanti». A quel punto, il padre aveva afferrato il figlio per le spalle, furiosamente, in un impeto di rabbia disperata. «Promettimi che non morirai!». «Te lo prometto». Pal aveva preso la sacca e aveva abbracciato il vecchio. Un’ultima volta. E, sulla soglia, il padre l’aveva trattenuto ancora:
«Aspetta! Dimentichi la chiave! Come fai a tornare se non hai la chiave?».
Il ragazzo non la voleva: chi non torna più, non si porta la chiave. Per non dispiacere il padre, aveva semplicemente mormorato: «Rischierei di perderla». Il vecchio tremava. «Certo! Sarebbe seccante… Ma come faresti a tornare? Allora, guarda: la metto sotto lo stuoino. Guarda dove la sistemo sotto lo stuoino, proprio qui, vedi? Questa chiave la lascerò sempre qui, per quando tornerai».
Rifletté per qualche istante. «E se qualcuno se la portasse via? Mmm... Avviserò la portinaia, lei ha un duplicato. Le dirò che sei partito e che non deve lasciare la guardiola quando io non sono in casa, così come io non uscirò in sua assenza. Sì, le dirò di stare bene attenta. Le darò una mancia…». «Non dire niente alla portinaia». «Come vuoi… Allora non chiuderò più la porta a chiave, né di giorno né di notte né mai. Così non ci sarà nessun rischio che tu non possa rientrare». C’era stato un lungo silenzio. «Arrivederci, figlio mio», aveva detto il vecchio. «Arrivederci, papà», aveva replicato il ragazzo. Pal aveva aggiunto in un soffio: «Ti voglio bene, papà», ma il padre non l’aveva sentito

Nella lotta al male il nemico peggiore è l’indifferenza 
20 nov 2015  Corriere della Sera dal nostro corrispondente Stefano Montefiori @Stef_Montefiori

PARIGI Difficile leggere il primo romanzo di Joël Dicker, uscito in Francia nel 2012, senza pensare almeno qualche volta agli eventi dell’ultima settimana a Parigi. È una storia che parla della più atroce guerra nella storia dell’umanità — il secondo conflitto mondiale — e delle vite radicalmente trasformate di ragazzi normali, non soldati, che a tutto pensavano fuorché diventare agenti segreti e paracadutisti. Come comportarsi quando la guerra arriva a sconvolgere l’esistenza di cittadini comuni? «Siamo in guerra», ripete in questi giorni il presidente Hollande, e lo dice a cittadini che ancora non capiscono che cosa questo voglia dire, ma hanno sempre in mente il 13 novembre e i nuovi orrori che si preparano. 
Settantacinque anni fa, altri giovani furono presi alla sprovvista dalla guerra. Dicker racconta come reagirono prendendo spunto da un fatto storico, ossia dall’idea del premier Winston Churchill di creare il servizio Soe (Special Operations Executive). Siamo nel 1940, i nazisti occupano la Francia e le truppe inglesi hanno subito la drammatica disfatta di Dunkerque. Churchill decide di sostenere la resistenza nei Paesi occupati con un’operazione inconsueta. Chiede a ragazzi e ragazze comuni di lasciarsi educare in Gran Bretagna all’arte della guerra e soprattutto del sabotaggio. In campi di addestramento segretissimi sparsi in tutta l’Inghilterra quei giovani insospettabili e impossibili da individuare per le spie tedesche vengono preparati a tornare nei Paesi di origine per aiutare i resistenti. 
L’autore che poi otterrà il successo mondiale con La verità sul caso Harry Quebert, e che ha appena pubblicato in Francia il seguito Le Livre des Baltimore, descrive qui le vicende di un gruppo di dieci giovani francesi uniti dal coraggio e dalle umanissime debolezze. Gli ultimi giorni dei nostri padri (Bompiani) parla della forza che alcuni si danno per affrontare il male, che non sempre è solo quello dei carri armati nemici. «Vedrai — dice Doff, un operatore radio del Soe —, il peggio non sono i tedeschi, non è l’Abwehr, è l’umanità (...). È sempre stato così e lo resterà: l’indifferenza. La peggiore delle malattie, peggio della peste e peggio dei tedeschi».

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