venerdì 20 novembre 2015

I fatti di Parigi complicano notevolmente il campo ideologico europeo

Michel Onfray Il seme della guerra
«Il 13 novembre è una risposta agli atti avviati in Iraq 25 anni fa La Francia ritiri tutte le sue truppe»intervista di Sebastien Le Fol Corriere 20.11.15
Dopo gli attentati di Parigi, lei ha scritto su Twitter: «La destra e la sinistra, che hanno seminato la guerra in tutto il mondo contro l’Islam politico, oggi si ritrovano la guerra dell’Islam politico in casa propria». Non le pare di fare il processo alla vittima, anziché al colpevole?
«Il capo dello Stato ha parlato di «atto di guerra». Così pure repubblicani e partito socialista. È già un passo avanti. Poco tempo fa si parlava ancora di gesti di squilibrati, di lupi solitari. Ma quando si tratta di guerra, bisogna riflettere. Ciò che è accaduto il 13 novembre è certamente un atto di guerra, ma in risposta ad altri atti di guerra che hanno preso avvio con la decisione di distruggere l’Iraq di Saddam Hussein, da parte del clan Bush e dei loro alleati, 25 anni fa. La Francia ha fatto parte sin dall’inizio, a eccezione del governo Chirac, della coalizione occidentale che ha dichiarato la guerra a Paesi musulmani come l’Iraq, l’Afghanistan, il Mali, la Libia… questi Paesi non ci minacciavano affatto, ma noi siamo intervenuti a negare la loro sovranità».
Lei pensa davvero che i terroristi siano soldati dell’Islam politico?
«E allora che cosa sono? Se sono tutti schedati come appartenenti ai movimenti dell’islamismo radicale, non si tratta forse dell’Islam politico? Negarlo equivale a chiudere gli occhi. È una cecità colpevole, pericolosamente colpevole. Si tratta ovviamente delle frange radicali e politiche dell’Islam salafita».
La loro radicalizzazione è frutto di una scelta razionale?
«Certamente. È una guerra condotta dall’Islam politico con altrettanto acume dell’Occidente, ma con meno armi o con armi diverse dalle nostre – coltelli e non portaerei, Kalashnikov da 500 euro e non droni da milioni di dollari. Anche loro hanno teologi, ideologi, strateghi, informatici, esperti di tattica militare. Hanno anche i loro soldati, agguerriti e pronti a tutto, invisibili ma presenti in ogni angolo del pianeta. Diverse migliaia di loro vivono in Francia. Hanno una loro precisa visione della storia, cosa di cui noi siamo oggi incapaci, accecati dal nostro materialismo triviale che obbedisce ai trucchi elettorali, alle mafie del denaro, al cinismo economico, alla tirannide dell’attimo mediatico. Il califfato ha manifestato apertamente le sue intenzioni. Ma il nostro rifiuto è colpevole: negar loro il diritto di dire che sono uno stato islamico, ricorrendo alla definizione ipocrita e politicamente corretta di Daesh, trasformarli in barbari, etichettarli come terroristi, tutto questo porta a sottovalutare la loro reale natura, che non merita affatto il nostro disprezzo. Soprattutto se si auspica di raggiungere un giorno una soluzione diplomatica».
Nel suo comunicato di rivendicazione Daesh dice, a proposito delle vittime del Bataclan, che si trattava di «centinaia di idolatri in una festa di perversione». Queste persone non ci odiano innanzitutto per quello che siamo?
«Si tratta di uno scontro di civiltà. Ma l’atteggiamento politicamente corretto in Francia proibisce che ciò venga detto. Faccio notare che anche la Francia possiede «un’identità nazionale», e questa riemerge spesso e volentieri quando l’identità islamica la fa risaltare nel contrasto di questo momento storico. Ma siccome riteniamo ugualmente sconveniente menzionare l’identità francese, per molto tempo non è stato possibile affermare che sì, esiste un modo di vivere all’occidentale che non corrisponde in nulla a quello islamico. I propugnatori del multiculturalismo ammettono che esistono molte culture diverse e tra queste alcune che difendono la musica rock nelle serate festive e altre che le giudicano una «festa della perversione». Le culture hanno tutte lo stesso valore? Sì, dicono i paladini del politicamente corretto. Personalmente, ritengo superiore una civiltà che consente la critica rispetto a una che la vieta e punisce con la morte il minimo dissenso».
La Francia deve abbandonare la coalizione internazionale in Siria e in Iraq?
«Sono a favore di un ripensamento totale della politica estera francese. Se continueremo a condurre una politica aggressiva contro i Paesi musulmani, questi reagiranno come già stanno facendo. Inviare truppe di terra in Siria equivale a gettare fiumi di benzina sul fuoco. La Francia dovrebbe rinunciare alla sua politica neocoloniale e islamofoba allineata sulle posizioni statunitensi. Dovrebbe ritirare tutte le sue truppe d’occupazione da ogni missione militare. A quel punto sarebbe possibile firmare una tregua tra lo stato islamico e la Francia, e far in modo che i suoi militanti, oggi presenti sul nostro territorio, depongano le armi».
Agli attentati di gennaio era seguito un movimento di unità nazionale. Succederà lo stesso dopo la tragedia del 13 novembre? Oppure lei teme una guerra civile?
«Ci vorrebbe una grande politica, di cui Hollande non è capace: non lo è mai stato e non lo sarà mai in futuro. Ho paura che le organizzazioni di estrema destra, quella vera (non quella che i politicanti strumentalizzano associandola a Marine Le Pen) finiranno per armarsi, si raggrupperanno in milizie e daranno avvio a operazioni di commando, con pestaggi, spedizioni punitive, incendi di moschee e altre azioni criminali per destabilizzare la democrazia».


Tariq Ramadan: «Ci si chiede: perché si piangono solo i morti di Parigi?»
«C’è tanta frustrazione. Dietro lo scontro religioso si cela la questione sociale»di Francesco Battistini 
Corriere 19.11.15
«La mia sensazione è che dopo vent’anni niente sia cambiato. Si fanno gli stessi discorsi di Bush dopo l’11 settembre». Tariq Ramadan esce dall’ennesima conferenza ed è quasi senza voce: difficile fare sentire la sua, in queste ore di raffiche e di bombe. Criticato in un certo Occidente, che l’ha spesso considerato troppo morbido coi fondamentalisti. Attaccato da un certo Islam, che non accetta la sua identità di musulmano europeo integrato — è nato in Svizzera e insegna a Oxford — e l’accusa di toccare gl’intangibili valori islamici. Io tocco le menti e non l’Islam, è la sua risposta di sempre: «Ma capisco che questa sia una discussione infinita…».
Sono almeno quindici anni che parliamo d’Islam moderato. Prima della partita della Turchia, in quel minuto di fischi, è stato zittito per sempre?
«Quei fischi non hanno molto a che vedere con questioni religiose. C’è una Turchia che manifesta contro la violenza e la subisce. Ma c’è un Sud del mondo dove ci si chiede: perché si piangono solo i morti di Parigi? E la Siria, il Libano? Perché non si fa un minuto di silenzio anche per loro?«.
Per la verità, un mese fa il minuto c’è stato. E lo stadio ha fischiato anche quello…
«Io non giustifico, sia chiaro. Ma questo non è estremismo: è una frustrazione che affiora. E con cui bisogna fare i conti».
Perché né l’Islam, né l’Occidente hanno prodotto leader capaci d’un dialogo?
«Perché è un contenzioso storico che dura da secoli. Questioni enormi che non si cancellano in tempi brevi. Ma vorrei chiarire: dopo questi attacchi, il problema non è l’integrazione religiosa in Occidente, non è lo scontro fra laicità e religione. In Francia, l’integrazione s’è conclusa da tempo. L’Islam è una religione occidentale ed europea. Il problema è nella giustizia sociale. Una società multietnica si costruisce giorno per giorno, non solo stando uniti nel dramma».
Non starà dicendo che i terroristi sono solo vittime della società?
«Non ho detto questo. È chiaro, c’è un’interpretazione religiosa di questi temi sociali. C’è una grave responsabilità dell’Islam fanatico, l’esigenza di un’autocritica, minoranze che non c’entrano col Corano. Ma questi estremisti vanno più su Internet che nelle moschee. E sia i fondamentalisti, sia i nazionalisti hanno interesse a eludere il problema sociale e a buttarla sullo scontro religioso».
Molti riaprono i libri di Oriana Fallaci e le danno ragione postuma.
«Sono le reazioni di chi cade nella trappola della divisione. Di chi non guarda alla grande maggioranza dei musulmani che oggi s’oppone a questa violenza. I francesi di confessione musulmana non hanno problemi coi valori dell’umanesimo. Il problema, non solo dei musulmani, è che la Francia non sostiene i valori che ci tengono uniti. Non lo fa in Siria, in Iraq, con le petromonarchie del Golfo. Il loro problema non è la laicità: è l’esercizio del potere. Non bisogna cadere nelle strumentalizzazioni di chi ha interesse a dividere».
L’Europa comincerà ad affrontare in modo autonomo le questioni mediorientali?
«Quel che vedo è il contrario del buon senso. Hollande sfodera la stessa politica di Bush: bombarda. Qual è la sua visione europea sulla Siria? Non c’è: E sul conflitto israelo-palestinese? Non c’è. La politica europea entra in un momento di disimpegno di quella americana. Però manca d’una visione internazionale. È in piena contraddizione con se stessa. Chi sono i francesi? Quelli che sostenevano la democrazia dei popoli e contemporaneamente Ben Ali o Gheddafi? È questo che nel mondo musulmano non si riesce a capire. Non è possibile appellarsi ai valori dell’umanesimo universale, quando ci si occupa di casa propria, e nello stesso tempo agire in questo modo se si va sulla scena internazionale».
Putin ce l’ha, una strategia?
«Di sicuro. Si è mosso in anticipo, fa pesare il suo grande ruolo. Fa il suo gioco».
È arrivato il momento di tenersi Assad, rimpiangendo Gheddafi e tutti gli altri?
«Il primo responsabile del terrorismo in Siria è Assad. Se ne deve andare. Non si può stare né coi terroristi, né con lui».
E poi?
«E poi ci dev’essere una transizione democratica. Come s’è fatto altre volte nella storia e con altri Paesi. Non è facile, lo capisco, ma è l’unica strada». 

“Shock”, “noi”, “sicurezza” le parole mute dopo le stragi 

Dopo gli attentati di Parigi il nostro linguaggio ha ancora lo stesso senso ? Ecco perché per accettare la nuova realtà servono categorie e nomi diversi

RICHARD FORD Repubblica 20 11 2015

Oggi, sul New York Times ho letto la semplice domanda di un parigino, testimone della strage del 13 novembre, in risposta a un giornalista che gli chiedeva un commento: «Perché proprio noi? Perché di nuovo noi?». Benché il suo stupore sia facilmente comprensibile, quella domanda appartiene già al passato. Sarebbe stata forse ancora pertinente il 7 gennaio scorso, all’indomani del massacro di Charlie Hebdo: molti cittadini, tra cui alcuni miei colleghi americani, concordavano nel vedere una logica in questi assassini, della quale dovremmo tener conto, mostrando ad esempio maggior rispetto per le religioni degli altri: col corollario che in cambio, loro ci useranno forse la cortesia di smettere di ammazzarci.
Già allora, pensavo che questo ragionamento non avesse senso. In primo luogo perché non mi ritengo affatto tenuto a rispettare la religione altrui (ma soltanto il credente, purché meriti effettivamente il mio rispetto); e soprattutto perché non ho mai ritenuto, neppure per un attimo, che quegli attentati avessero qualcosa a che vedere con la religione. Al contrario, rappresentavano un tentativo cieco di arraffare un potere politico puntando sul crimine organizzato, sulla psicopatologia e sulla pseudo-religione.
La domanda «perché proprio noi?» all’indomani dei sanguinosi eventi della settimana scorsa denota un atteggiamento analogo a quello degli americani, che dicono «da noi non succederebbe» quando per l’ennesima volta, in un’altra città, un assassino irrompe in un’aula e massacra decine di studenti. Questi due tipi di reazione suscitano il ricordo nostalgico di un tempo in cui avevamo ancora — che lusso! — una qualche presa sugli avvenimenti. Oggi, termini quali logica, storia, prevedibilità, non hanno più lo stesso significato. E faremmo bene a prenderne atto. Nel suo superbo saggio Patrie immaginarie il mio amico Salman Rushdie cita Richard Wright, il più parigino dei romanzieri americani: «Un tempo in America neri e bianchi si facevano la guerra per le loro idee contrastanti sulla natura della realtà, incompatibili tra loro... Fu necessario trovare nuovi termini per dar conto del mondo, prima di cambiarlo».
E benché la maggior parte di noi non speri più di cambiare il mondo finché è in vita, ma se mai di apportare qualche cambiamento per dissuadere chi aspira a cancellarci dalla carta geografica, la selezione quotidiana delle parole potrebbe favorire questo lodevole intento. Perché in effetti, sono tante le parole da ridefinire e riattribuire, per meglio adeguarle alla nuova realtà. Vanno trattate con fermezza, perché così ci serviranno meglio; ed è fondamentale prenderle sul serio. Dunque, da dove incominciare, davanti a questa nuova emergenza? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Quando il presidente Hollande dice: «Siamo in guerra » e afferma che questa guerra sarà condotta in modo «spietato», cosa significa la parola guerra, a fronte di uno Stato che non è una nazione, dietro cui si maschera l’azione di Daesh? E cosa sta a indicare per noi il termine spietato? Che significa oggi «in sicurezza»? La parola «shock» ha ancora lo stesso peso? Abbiamo il tempo essere sotto shock?
Quando un mio amico giornalista, in una telefonata da Parigi, mi dice: «Qui nessuno pensa che la strage sia davvero finita», intende con queste parole la stessa cosa che intendeva il giorno prima? Dobbiamo dedurne che siamo in attesa? Quando un politico dichiara di voler «ripristinare la fiducia» all’indomani del dramma, la fiducia è ancora d’attualità? E c’è qualcuno che abbia il potere di ripristinarla? Come sappiamo, Marine Le Pen si esprime spesso in codice, ma in concreto e nella vita reale, cosa significa il suo appello a «riarmare la Francia? ». E quando un parigino dice che sta tentando di «comprendere il senso di questa tragedia», ci si chiede quale possa essere questo «senso», ma soprattutto per quali vie si possa arrivare a comprenderlo. E quanto alla persona che si chiedeva «perché di nuovo noi», c’è da chiedersi a chi esattamente si riferiva questo «noi», e se il termine «di nuovo» non esprima altro che una ripetizione del tutto vuota di contenuti.
Anche la parola «esistenziale» fa parte dell’elenco. La questione «di vita o di morte», che ieri era del tutto esplicita, è diventata una questione esistenziale. C’è stato un tempo in cui quest’aggettivo traduceva considerazioni meno elementari della semplice sopravvivenza. L’amico con cui ho parlato oggi al telefono mi ha detto: «Con tutti i discorsi dei vari politici diventa difficile sapere come esistere ». Sì, questo lo comprendo. Come per i nostri amici giornalisti, i termini che usiamo dovrebbero attestare che siamo coscienti delle nostre azioni, e di ciò che comporteranno, anche con le migliori intenzioni. È forse questo che s’intende quando si parla di «una questione esistenziale».
Come ho già detto, un dramma come quello che ha colpito Parigi in modo così terribile implica conseguenze complesse. E cambia il senso delle parole. Su questo non c’è granché da fare, se non tentare di non farsi trovare impreparati dalla storia.


Monsieur le Président eviti, la prego gli errori di Bush
 Lettera aperta a Hollande: basta con la retorica bellicista che ricorda quella degli Usa dopo le Torri E che rischia di produrre gli identici danni
DAVID VAN REYBROUCK

Monsieur le Président, nel suo discorso di sabato pomeriggio ha operato una scelta di parole davvero sconsiderata, parlando di un «atto di guerra» perpetrato da un «esercito terrorista». Ecco, alla lettera, che cosa ha detto: «Quello che è avvenuto ieri a Parigi e a Saint-Denis è un atto di guerra, e quando si trova di fronte a una guerra il Paese deve prendere misure appropriate. Un atto perpetrato da un esercito terrorista, Daesh, contro tutto quello che noi siamo, un Paese libero che dialoga con l’intero pianeta. Un atto di guerra che è stato preparato e pianificato altrove, con complicità interne che le indagini cercheranno di appurare. Un atto di assoluta barbarie».
Concordo pienamente con quest’ultima frase, ma il resto del suo discorso è replica quasi letterale di quello che George W. Bush disse al Congresso americano poco dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. «Gli attacchi deliberati e sanguinosi che sono stati perpetrati ieri contro il nostro Paese non sono semplici atti di terrore. Sono atti di guerra».
Le conseguenze di quelle parole storiche sono ben note. Un capo di Stato che descrive un evento come un atto di guerra deve prendere iniziative appropriate. Bush invase l’Afghanistan, decisione che poteva ancora apparire giustificabile considerando che quel Paese offriva rifugio ad Al Qaeda: perfino l’Onu era d’accordo. Dopo arrivò l’invasione, completamente insensata, dell’Iraq, senza alcun mandato dell’Onu, semplicemente perché l’America sospettava la presenza di armi di distruzione di massa. Di armi simili non c’era traccia, ma l’invasione produsse come risultato una destabilizzazione totale della regione, che prosegue ancora oggi.
Dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, nel 2011, venne a crearsi un vuoto di potere. Poco tempo dopo, quando nella vicina Siria, sulla scia della Primavera Araba, scoppiò una guerra civile, per la prima volta si vide con chiarezza l’effetto micidiale che avevano avuto le azioni delle forze armate americane.
Nella parte nordoccidentale di un Iraq privato delle sue radici e nella parte orientale di una Siria lacerata dalla guerra c’era spazio a sufficienza non solo per le forze governative e l’Esercito siriano libero, ma anche per l’ascesa di un terzo protagonista di rilievo: l’Isi o Daesh. Senza la demenziale invasione dell’Iraq voluta da Bush, non sarebbe mai esistito lo Stato islamico.
Milioni di persone, me compreso, manifestarono contro quell’invasione nel 2003, e quelle proteste ebbero una portata mondiale. E avevamo ragione, dannazione, ragione su tutta la linea. Non che fossimo capaci di vedere il futuro di lì a dodici anni, non eravamo lungimiranti fino a questo punto. Ma ora lo capiamo: quello che è successo venerdì sera a Parigi è stato il risultato indiretto della retorica marziale usata dal suo collega Bush nel settembre del 2001.
E che cosa fa lei? Come reagisce, a neanche ventiquattr’ore dagli attentati? Usando la stessa identica terminologia che usò allora il suo collega americano! È caduto nella trappola, Monsieur le Président, ci è caduto con tutte le scarpe. È caduto nella trappola perché ha offerto ai terroristi proprio quello che speravano: una dichiarazione di guerra. Ha accettato di buon grado il loro invito al jihad. Con il suo tentativo di reazione ferma corre un rischio enorme di lasciar crescere ancor di più la spirale di violenza. Personalmente mi sembra una scelta tutt’altro che saggia.
Lei ha parlato di un «esercito terrorista». È una contraddizione di termini. Parlare di un «esercito terrorista» è come parlare di una «dieta bulimica ». Nazioni e gruppo armati possono avere un esercito. Ma stiamo parlando di otto individui completamente fuori di testa, ex cittadini francesi tornati dalla Siria. Sono stati trasformati in mostri, dal primo all’ultimo, ma non necessariamente in un esercito.
Ci sono altri modi per essere fermi, a parte suonare i tamburi di guerra. Subito dopo gli attentati nel suo Paese, il primo ministro norvegese Stoltenberg fece un appello esplicito a «più democrazia, più trasparenza, più partecipazione». Nel suo discorso lei ha citato la libertà. Avrebbe fatto bene a citare anche gli altri due valori della Repubblica francese, l’uguaglianza e la fraternità. In questo momento, mi sembra che ce ne sia molto più bisogno della sua discutibilissima retorica bellica.

L’effetto “wargame” e la strategia dei fanatici 

Gli scacchi, il “go” e ora il joystick: spesso i giochi simulano la guerra. Ma stavolta bisogna sapere che la partita per l’Occidente è asimmetrica

STEFANO BARTEZZAGHI

Anche nell’attacco a Parigi, i videogiochi. La tipica inquietudine che da sempre questi ultimi incutono a genitori, educatori e frettolosi commentatori oggi prende proporzioni abnormi. Questo perché si è saputo che i reclutatori di Daesh attirano e addestrano terroristi con giochi come Call of Duty e l’organizzazione comunica anche attraverso le chat delle Playstation, efficienti e difficili da intercettare. L’ansia per l’adolescente di famiglia, la sua possibile dipendenza dal joystick e il possibile scambio fra vita virtuale e vita reale diventa una questione politica e militare planetaria. È la Realtà tutta, che oramai teme il proprio Game Over.
Nell’intervista che Daniel Pennac ha concesso ieri per Repubblica a Fabio Gambaro riecheggiano le argomentazioni più classiche contro i videogiochi: «Il passaggio dalla dimensione ludica a quella tragica della realtà viene probabilmente vissuto come il semplice passaggio a un livello più avanzato del gioco». La letteratura scientifica ha invero sempre escluso una correlazione tanto diretta fra videogiochi e violenza, ma questo resta un pensiero facile da pensare: un modo per spostare la soglia del nonsense un poco più in là, dalla violenza alla dimensione ludica, e dunque irreale, che l’avrebbe covata. Christian Salmon aggiunge qualche altro elemento di riflessione quando afferma che «l’universo dei videogiochi, cui ricorrono anche gli americani per il reclutamento di volontari, è un eccellente strumento di desocializzazione, addestramento e assuefazione alla violenza». A pensarci dal punto di vista del gioco, i videogiochi fanno parte della vasta categoria dei giochi di simulazione, i quali vanno dal «facciamo che io ero il cowboy e tu l’indiano» ai giochi di ruolo. La loro versione bellica risale al 1811, quando George Leopold von Reisswitz inventò il primo Kriegsspiel, poi adottato dall’esercito prussiano. Ma già l’antichissimo gioco degli scacchi e quello ancor più antico del “go” simboleggiano, rispettivamente, guerra e guerriglia. Di lì in poi è aumentato, esponenzialmente, il grado di realismo.
I wargame sono sempre stati praticati nei quartieri generali più che nelle ludoteche. Nel vasto romanzo di David Foster Wallace Infinite Jest, gli allievi di un’accademia tennistica giocano a Eschaton (escatologia e megaton): quattro campi da tennis attigui rappresentano i continenti su cui gli allievi svolgono una simulazione di guerra. Il gioco va all’aria perché i giocatori prendono il terreno del gioco non come mappa ma come territorio: la stessa confusione tra simulazione e realtà di cui parlano Pennac e Salmon. Al di là di ogni fantasma angoscioso, i videogiochi inducono all’azione solo se inscritti in una più vasta operazione di propaganda e storytelling. Il loro principale apporto diretto è invece in termini di addestramento (come già per i software di simulazione del volo che sono serviti agli attentatori dell’11 settembre). «Sintassi» è la parola che designava l’arte di schierare gli eserciti, come nelle guerre classiche e nei classici wargame. Se oggi si dibatte sul significato di “guerra” è perché anziché da un esercito l’Occidente viene colpito da piccoli nuclei di “giocatori”, e non nei propri eserciti ma nelle proprie popolazioni.
Il videogioco del terrorista oggi non colpisce più la mappa ma il territorio, la sua violenza non è più tv ma realtà. Slavoj Zizek considera gli attentati come «un momentaneo promemoria del mondo violento». Alla derealizzazione del gioco corrisponde la brusca presa d’atto nel reale di chi è assuefatto a un rapporto remoto e mediato con la realtà della violenza. Qui avviene il passaggio decisivo, l’asimmetria dei conflitti contemporanei. Il combattente rappresenta il Daesh, che infatti ne riconosce gli atti come propri; ma i governanti occidentali rappresentano le vittime? La libertà che stiamo rivendicando in queste ore è quella di non giocare: ma al momento in cui la rivendichiamo il gioco non è più un gioco e la mappa è la nostra città, il nostro quartiere, casa nostra. La debolezza strategica dell’Occidente è una debolezza politica: non di conduzione di gioco, ma di capacità di rappresentare il reale e di capire che il rischio non viene da una ludopatia criminogena, ma dalla miniaturizzazione degli apparati di distruzione (la bomba nella lattina che ha distrutto l’aereo russo); dall’uso del corpo come munizione, o bossolo che può perdersi nello scontro; dalla sintassi a rete — e non più, come negli eserciti, ad albero gerarchico — dei combattenti e dei loro nemici elettivi: noi. I videogiochi sono un passaggio funzionale a questo processo. Non possiamo pensare di interrompere questo gioco soltanto mandandolo in tilt.

Il destino di Raqqa ai tempi del Califfato
di Alberto Negri Il Sole 20.11.15
Come si vive in Siria ai tempi del Califfato? Il destino di Raqqa, capitale dell’Isis bombardata da russi e francesi, racconta una storia emblematica della guerra siriana che racchiude prima la paura per la repressione esercitata dal regime di Bashar Assad, poi le speranze sollevate dall’avanzata dei ribelli e infine il cupo terrore imposto da al- Baghdadi. Ma la sorte di Raqqa descrive anche quanto sarà complicato sradicare i jihadisti, sempre che si trovi l’accordo per farlo.
Il 6 marzo 2013 Raqqa era un città in festa che accoglieva gli insorti sventolando bandiere.
Per Assad la sconfitta era stata umiliante: questa città di 200mila abitanti, 160 km a Est di Aleppo, era il primo capoluogo regionale a cadere in mano ai ribelli con un’offensiva che aveva visto schierate fianco a fianco le milizie dell’Esercito libero siriano (Els) e quelle di Jabhat al-Nusra. La gioia per la liberazione della città si trasformò in timore quando le brigate Els vennero cacciate dai salafiti di al-Nusra, affiliati di al-Qaeda e fedeli a una versione radicale dell’Islam. I salafiti di Jabhat al-Nusra pensavano di avere in pugno la situazione: si erano liberati dell’Els, formazione sostenuta anche dalla Turchia che includeva dai disertori dell’esercito di Assad ai laici agli islamisti. L’Els veniva presentato alle conferenze internazionali come il braccio armato dei “moderati” ma stava già perdendo seguaci. In realtà moderati e laici non hanno mai controllato nulla, tanto meno avevano un ruolo i politici siriani che si facevano pagare dagli occidentali i conti degli hotel a cinque stelle.
Anche la conquista di Raqqa dei salafiti si era rivelata un’illusione. Bivaccavano con le bandoliere a tracolla nelle caserme abbandonate dai militari del regime e avevano issato le bandiere nere del monoteismo di al-Qaeda sulle antiche rovine della porta di Baghdad e sulla Qalat di Jabar sulla sponda sinistra dell’Eufrate, fortificazione fascinosa anche se meno imponente di quella di Aleppo.
Raqqa aveva una vecchia storia, densa di significato per il mondo musulmano, molto più di quanto apparisse dalla sua anonima periferia. Città ellenistica, romana e bizantina, era stata conquistata assieme a tutta la Siria dal califfo Omar. Ma la cosa più importante agli occhi degli islamisti è che nel periodo abbaside diventò per 13 anni, dal 796 all’809, la capitale di fatto del Califfato di Harun al Rashid, l’ispiratore delle “Mille e una Notte”
In una posizione strategica per tagliare la strada ai militari di Assad sulla strada di Aleppo, Raqqa per la sua storia faceva gola non solo ai salafiti che avevano già imposto alla popolazione locale una versione della legge islamica di stampo medioevale con pubbliche decapitazioni.
Era già cominciata l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che in poco tempo cacciò i salafiti di Jabhat al-Nusra consolidando il suo dominio sulla città con la forza e l’intimidazione, attaccando, catturando e mandando a morte sia i combattenti dell’opposizione sia i manifestanti pacifici. Alcuni video dell’epoca mostrano le crocifissioni e i miliziani che sparano sulla folla mentre si ribella ai jihadisti.
Fu a Raqqa che arrivò nel luglio 2013 il gesuita italiano Padre Paolo dall’Oglio. Secondo alcuni attivisti si era recato nella sede dell’Isis per tentare di incontrare il leader Abu Bakr al-Baghdadi. L’obiettivo era chiedere una tregua negli scontri con le milizie curde e avere informazioni sulla sorte di alcuni sacerdoti e giornalisti rapiti. E fu a Raqqa che di lui si persero le ultime tracce certe.
Nel gennaio 2014 l’Isis aveva conquistato completamente Raqqa trasformando la Siria e l’Iraq in un unico campo di battaglia, da lì a pochi mesi avrebbe catturato la città irachena Mosul, dove al-Baghadi proclamò il 29 giugno il Califfato, per poi impadronirsi dei pozzi petroliferi siriani di Dayr el Zhor. Colui che guida il Califfato, un iracheno di Samarra allievo del qaedista Abu Musab Zarqawi, era riuscito a sfruttare il caos siriano e iracheno unendo le forze jihadiste a quelle degli ex ufficiali e seguaci del Baath di Saddam Hussein. Un’avanzata che aveva saputo sfruttare le cause della rivolta della minoranza sunnita in Iraq contro gli sciiti e quella della maggioranza sunnita siriana contro il regime alauita di Assad.
Di Raqqa al-Baghdadi aveva fatto la sua capitale governata nella morsa della sharia, a colpi di frusta e di sermoni applicati dalla Hisba, la polizia religiosa, ma anche con la distribuzione gratuita di cibo e bevande alla popolazione. Un rudimentale welfare state che insieme a saccheggi, estorsioni e rapimenti, ha imposto la zakat, la tassa religiosa del 10% sui redditi. Da qui al-Baghdadi avrebbe ordinato la strage di Parigi, spegnendo le luci della Tour Eiffel ma anche quelle di una capitale che dopo Harun Rashid, il vero Califfo delle Mille e una Notte, era piombata per secoli ai margini della storia. 

Perché l’IS non deve cambiarci la vita
Sembra una super potenza ma ha già perso il 25 per cento del territoriodi Alexander Stille Repubblica 20.11.15
QUANDO ho sentito il presidente francese François Hollande e i maggiori politici francesi ripetere che dopo la strage terroristica di Parigi la Francia è “in guerra” era difficile non pensare all’11 settembre. E non andare con la mente alla risposta dell’allora presidente George W. Bush, a quella “guerra al terrore” che ci ha portati prima in Afghanistan e poi in Iraq. Proprio l’invasione dell’Iraq ha destabilizzato la regione portando, tra altre cose, la nascita di Is.
Dopo Parigi anche qui a New York assisto a scene che richiamano, sia pure in scala minore, ciò che accadde dopo l’11 settembre. Vedo due giovani americani che hanno dipinto i colori della bandiera francese sotto i loro occhi, come se stessero piangendo lo spirito nazionale francese. Molti ricordano la risposta francese agli attacchi alle torri gemelle (“Nous sommes tous américains”) e oggi rispondono nello stesso modo. Dimenticano ciò che accadde quando la Francia espresse tutte le proprie riserve all’invasione dell’Iraq, fino al punto di ribattezzare le “French fries”, le patatine fritte, “Freedom fries”, in risposta alle critiche francesi.
Oggi, la gran parte degli americani che eleggono Parigi come prima destinazione all’estero riconoscendone la supremazia culturale, vivono l’eccidio del weekend scorso come una perdita personale.
Ne sono anche testimone diretto: ricevo molte mail accorate di americani che sanno che ho vissuto a Parigi: mi scrivono per chiedermi se i miei amici francesi sono sani e salvi e per esprimere tutto il loro sgomento. Si sentono così coinvolti che una mia amica arrivata da Parigi non ha potuto fare a meno di notare che «quasi, quasi degli attacchi si parla più qui che a Parigi».
Con la tendenza molto americana di affrontare le cose in chiave religiosa ha spopolato per strada e in Rete lo slogan “Prayfor-Paris”. Rispedito al mittente, con un’affermazione di laicismo, da uno degli illustratori di Charlie Hebdo. Ma questa impronta religiosa nel leggere i fatti di Parigi è molto radicata. Mi è capitato di leggere anche commenti come questo: «La gente si disputa la realtà di Dio ma Satana ha dimostrato certamente la sua esistenza e i suoi propositi sanguinari ». La partecipazione emotiva, anche fuori dalle grande città è molto forte. Su alcune televisioni locali campeggia a caratteri cubitali lo slogan “Guerra al terrore”.
L’interrogativo prevalente a tutti i livelli è: cosa si può fare?
Tanto più che l’offensiva terroristica cade in piena campagna elettorale sia in Francia che negli Stati Uniti.
In Francia, Hollande propone di riscrivere la costituzione, dando più poteri allo Stato, mentre Sarkozy, che vorrebbe tornare al potere, propone di chiudere delle moschee e mettere dei braccialetti elettronici agli estremisti islamici.
In America, l’ex-candidato repubblicano del 2012, Mitt Romney, dice che bisogna invadere la Siria, mentre alcuni candidati hanno detto che gli Usa dovrebbero accogliere solo profughi di origine cristiana e non quelli islamici. Vari governatori repubblicani hanno detto che non apriranno le porte ai rifugiati siriani (ignorando che sono le prime vittime dell’Is). Il palazzinaro- candidato Donald Trump ha rivendicato: «Quando ho detto di bombardare le installazioni di petrolio controllate dall’Is hanno riso, oggi lo stanno facendo».
Solo Dominique de Villepin, ministro degli esteri francese al momento della crisi irachena ha avvertito il pericolo per la Francia di entrare nella sindrome da guerra: «Se una banda di assassini fanatici vi dichiara guerra non vuole dire che bisogna cadere nella trappola di fare altrettanto».
Un mio amico francese, tra l’altro molto vicino ai socialisti francesi, mi dice che Hollande e il suo governo, cercano di sviare l’attenzione dai propri errori, notando non a caso che «non c’è stata nessuna inchiesta parlamentare dopo la strage a Charlie Hebdo». Era stata ridotta la protezione alla redazione poco prima del raid di gennaio, nonostante la Francia avesse già iniziato a bombardare le postazioni dell’Is in Iraq. «Nessuno ha previsto una possibile risposta?», si chiede il mio amico Patrick. E aggiunge un ulteriore elemento: sia i fratelli Kouachi — tra gli autori della strage di Charlie Hebdo — che alcuni dei terroristi di venerdì scorso erano schedati dalla polizia francese sulla famosa “lista S” dei sospettati terroristi.
Il potere del terrorismo è la sua natura asimmetrica: la capacità di poche persone di guadagnare un’influenza sugli eventi completamente sproporzionata ai loro numeri. Un terrorista serbo, uccidendo l’arciduca Franz Ferdinand ha iniziato la prima guerra mondiale. Gli otto (per ora) terroristi dell’Is stanno per cambiare la vita ad una nazione di 60 milioni e forse al resto dell’Europa, proprio come i 15 fanatici dell’11 settembre hanno cambiato gli Usa.
Già adesso, sta morendo il sogno della nuova Europa, un continente libero e aperto. I francesi (comprensibilmente) hanno ristabilito i controlli alla frontiera con il Belgio visto che alcuni degli uomini e le armi per gli attacchi di Parigi venivano da lì.
Ricordo un mio viaggio da Parigi in Olanda due anni fa: la piacevole sorpresa di andare dalla capitale francese a Rotterdam su un treno superveloce. Passare per delle terre impregnate dal sangue di innumerevoli guerre europee attraverso i secoli in due ore e mezzo con solo un controllo dei biglietti sembrava un piccolo miracolo. Ma già da quando i terroristi hanno tentato di sparare sul treno Thalys e gli ungheresi e i polacchi si rifiutano di prendere i rifugiati siriani, quel sogno sta finendo.
L’Is, sulla scia delle sue ultime imprese — la bomba in Libano, l’attacco rivendicato contro l’aereo russo in Egitto e gli attacchi di Parigi — sembra una superpotenza mondiale. Ma in realtà è molto più debole di quanto sembri. E ha perso circa il 25 per cento del proprio territorio negli ultimi mesi. Per questo bisogna continuare e intensificare gli attacchi contro l’Is, sostenendo i suoi nemici locali ma evitando una nuova occupazione dell’Iraq e della Siria.
Bisogna applicare le leggi esistenti sul terrorismo, dedicandovi più risorse ma senza stravolgere le nostre democrazie e lo stato di diritto. 

La sicurezza. Otto persone su dieci ritengono che l’attacco non riguardi solo la Francia. “Chiudere le frontiere”
“Gli attentati di Parigi minacciano anche noi” un italiano su due è pronto a cambiare stile di vitadi Ilvo Diamanti Repubblica 20.11.15

Cresce la disponibilità a limitare alcuni diritti, ma non il timore su Islam e immigrati
Il sondaggio è stato realizzato da Demos & Pi per La Repubblica, con il contributo di Intesa Sanpaolo. La rilevazione è stata condotta nei giorni 16-18 novembre 2015 da Demetra. Il campione nazionale intervistato (N=1.010, rifiuti/sostituzioni 9.970) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 3.1%)

I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno emozionato e coinvolto anche noi. In Italia. Non si tratta di un effetto preterintenzionale. Al contrario. La scelta dei luoghi, delle vittime, la stessa rappresentazione dei massacri rivelano una evidente intenzione – e capacità – di colpire “nel mucchio”. Molti bersagli “umani”. Molti giovani. Ma anche di lanciare messaggi. Di trasferire paure, inquietudini, ben oltre i confini di Parigi e della Francia. Fino a noi. Paese confinante. Dove ha sede il Vaticano. Dove i flussi migratori dal Nord Africa continuano, incessanti. Lo conferma il sondaggio condotto da Demos per Repubblica, nei giorni scorsi. Certo, la maggioranza degli intervistati (50%) vede negli attentati una “punizione” contro la Francia, colpevole di partecipare ai bombardamenti in Siria e in Iraq. Più di quanti (40%) lo considerano, invece, un avvertimento, contro luoghi e riti del consumismo occidentale. Tuttavia, oltre 8 italiani su 10 ritengono che questo attacco non abbia implicazioni solamente “francesi”. Ma riguardi, al contrario, anche noi.
Oltre metà delle persone (intervistate) ammette di sentirsi preoccupata per l’eventualità di atti terroristici. Con un aumento di 14 punti, nell’ultimo anno, e di circa 20 rispetto al 2010. Gli effetti sul clima d’opinione risultano evidenti. Anzitutto, sul piano dell’in-sicurezza, che appare diffusa.
Componenti ampie della popolazione (meglio: del campione) pensano, infatti, che oggi convenga adottare comportamenti prudenti. Più che in passato. In particolare, il 46% ritiene opportuno evitare di partecipare a manifestazioni ed eventi pubblici. Il 43%: di viaggiare all’estero. Il 38%: di prendere l’aereo. Si tratta, perlopiù, di persone più anziane e meno istruite. Che, comunque, sono meno disponibili a mobilitarsi e hanno minore confidenza “con il mondo”. Ma il segnale è chiaro. L’insicurezza sta penetrando nella società. E spinge le aree “periferiche” – dal punto di vista sociale ma anche territoriale (i piccoli comuni di provincia e le banlieue metropolitane) a chiudersi in casa. A guardare gli altri con diffidenza. Quasi 4 persone su 10, infatti, oggi percepiscono gli immigrati come “un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”. E si rivolgono all’Islam con atteggiamento diffidente. La scia di sangue lasciata dalle aggressioni criminali avvenute a Parigi, dunque, è arrivata fin qui. E ha alimentato, presso gli italiani, l’inquietudine. Ha allargato le distanze, meglio, il distacco fra noi e gli altri. Percepiti come possibili minacce. Nemici.
Così, il trattato di Schengen, che ha “aperto” le frontiere, reso più facili le comunicazioni e i movimenti personali, diviene un problema. Un rischio. E insieme alle porte di casa diventiamo più disponibili a chiudere anche le frontiere. Anche se “temporaneamente”. È un provvedimento auspicato dal 56% degli intervistati.
Al tempo stesso, come avviene quando la paura penetra fra noi, diventiamo meno esigenti, sotto il profilo dei diritti e delle nostre libertà. Così, oltre 9 italiani su 10 si dicono disponibili ad aumentare la sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso telecamere. Mentre quasi la metà di essi (per la precisione: il 46%) vorrebbe rendere più facile alle autorità il controllo sulle nostre comunicazioni. Dalla posta elettronica alle telefonate. Quasi 20 punti in più, rispetto al 2009. In altri termini, i fatti di Parigi hanno accentuato la sindrome d’assedio, cresciuta negli anni della crisi. Alimentata dalla globalizzazione che ci espone, emotivamente, a ogni evento drammatico, che avvenga altrove. Anche lontano. È come se fosse qui. A maggior ragione quando si tratta di una “città esemplare”, come Parigi. Destinazione degli itinerari da tutto il mondo. Per motivi turistici, di studio e di lavoro. Tanto più da qui. Dall’Italia. Affacciata ai confini. Per questo colpire Parigi significa colpire l’Europa, di cui è il centro. Un Centro strategico e attraente. Per questo colpire Parigi ha un impatto rilevante, sui nostri sentimenti. Per questo rischia di diventare un ostacolo, ulteriore, alla costruzione europea. All’integrazione politica, culturale.
Eppure, evidenziare quanto gli attentati di Parigi abbiano cambiato il nostro modo di guardare gli altri e noi stessi, non basta. Potrebbe perfino essere deviante. Se non aggiungessimo che, nonostante tutto, la paura non è sfociata in panico. La diffidenza non è degenerata in distacco, segregazione.
La percezione negativa nei confronti dell’Islam, come religione e comunità, infatti, non ha cambiato misura, nell’ultimo anno. Nonostante tutto. E oltre 7 italiani su 10 pensano che le responsabilità delle violenze di Parigi siano da attribuire a una “frazione di integralisti”. Solo una minoranza le riconduce all’Islam, come tale. L’insicurezza suscitata dall’immigrazione, inoltre, è elevata. Ma non è cresciuta molto, negli ultimi mesi. Rispetto allo scorso giugno è perfino calata. Ed molto più bassa, in confronto all’autunno 2007, quando la campagna mediale preparava quella elettorale. Scandita – e decisa dalle “paure”.
Ci muoviamo, dunque, in una terra instabile, lungo il confine mobile fra diverse destinazioni. Diverse soluzioni. Marcate da diversi livelli di in-sicurezza, apertura e - reciprocamente - chiusura. Verso le altre persone, le altre religioni. Verso gli altri Paesi. E ciò tende a estremizzare i sentimenti personali, i rapporti con gli “altri”, ma anche gli orientamenti politici. Così, si allargano gli spazi per gli “imprenditori politici della paura”. Che fanno dell’insicurezza e della sfiducia una risorsa da investire sul mercato politico. Insieme alla disponibilità verso i controlli. Sui comportamenti degli altri, ma anche sulle nostre relazioni. Sulla nostra vita personale. Da “sorvegliati speciali”, a tempo pieno. Si tratta di capire se l’unica strada possibile sia questa. Rassegnarsi a uno “stato di emergenza” permanente. Fino a diventare ostaggi di se stessi. Di noi stessi.
Significherebbe cedere alla logica del terrore. In fondo, arrendersi ai terroristi. 

L’Europa e il dilemma della faccia feroce
di Adriana Cerretelli Il Sole 20.11.15
Chi non ricorda i feroci attacchi dei benpensanti europei a George W. Bush, il presidente liberticida autore del Patriot Act che, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, ha posto limiti alle libertà personali in nome del superiore imperativo di tutela della sicurezza nazionale?
E chi, tra di loro, non ha glorificato Edward Snowden il “vendicatore” dei diritti civili calpestati, l’uomo che due anni fa ha smascherato i segreti della sorveglianza della Nsa, l’Agenzia Usa per la sicurezza nazionale?
Oggi, a torto o a ragione, c’è chi ritiene che quelle rivelazioni hanno fatto il gioco dell’Isis. Almeno in tre modi: rendendo noto l’uso delle tecnologie telecom per individuare i sovversivi del Profeta, scatenando in Occidente la rivolta dei cittadini inconsapevoli contro le violazioni del diritto alla privacy e, infine, scoraggiando così raccolta dati e scambio di informazioni tra le diverse strutture nazionali di intelligence, ammalatesi di diffidenza reciproca per paura di ritrovarsi a loro volta “denudate”.
Sia come sia, dopo l’ennesima carneficina, questa volta a Parigi, torna di attualità il vecchio dilemma: tra libertà e sicurezza chi deve prevalere? La risposta in teoria sarebbe molto semplice: la libertà individuale finisce quando diventa licenza o mette in pericolo la sicurezza collettiva. Nei fatti, nell’era del grande fratello, i confini si fanno più labili e confusi, come dicono il caso Snowden, il sacro totem della libertà della rete, i dubbi sul futuro dei sistemi di criptazione.
La minaccia terroristica che aleggia su tutta l’Ue comincia intanto a scuotere molte coscienze, radicate convinzioni e resistenze. Tanto che l’Europa sembra lentamente incamminarsi sulla stessa strada che tanto ha esecrato quando a imboccarla fu l’America di George W. Bush dopo gli oltre 3.000 morti delle Torri Gemelle.
Ironia vuole che sia la Francia socialista, la stessa che ai tempi di Mitterrand offriva asilo sicuro ai terroristi italiani, a farsi portatrice della linea più dura: controlli a tappeto alle frontiere esterne, cittadini Ue compresi. La Svezia socialdemocratica di Stefan Lofven propone l’adozione, come negli Usa, del passaporto biometrico per entrare nello spazio Schengen. Mentre l’Olanda del democristiano Mark Rutte, nella speranza di dormire sonni più tranquilli, auspica la ritirata su una mini-Schengen.
Evidentemente non si arrende nemmeno davanti a una guerra difficile, subdola e che riguarda tutti, il tarlo delle divisioni europee. Il nemico terrorista si muove dentro e fuori dalle frontiere e sfrutta anche l’emergenza rifugiati per farsi largo. Sono 10mila i foreign fighters nell’Ue, 5mila con training in Siria, avverte Europol, e sono tutti cittadini europei.
Resta da vedere quali decisioni concrete produrrà oggi l’ennesima riunione straordinaria dei ministri Ue di Interni e Giustizia. Controlli immediati, sistematici e coordinati alle frontiere esterne, più cooperazione tra intelligence e scambi di dati, regole più severe sugli acquisti di armi, tracciabilità obbligatoria dei pagamenti online: ma quante di queste misure saranno davvero adottate e non, come al solito, solo annunciate? L’Europa non ama fare la faccia feroce e condanna quella degli altri. Questo lusso però ormai potrebbe costarle troppo caro: l’appeasement davanti al terrore equivale alla resa incondizionata. 

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