Dopo gli attentati di Parigi, lei ha scritto su Twitter: «La destra e la sinistra, che hanno seminato la guerra in tutto il mondo contro l’Islam politico, oggi si ritrovano la guerra dell’Islam politico in casa propria». Non le pare di fare il processo alla vittima, anziché al colpevole?
«Il capo dello Stato ha parlato di «atto di guerra». Così pure repubblicani e partito socialista. È già un passo avanti. Poco tempo fa si parlava ancora di gesti di squilibrati, di lupi solitari. Ma quando si tratta di guerra, bisogna riflettere. Ciò che è accaduto il 13 novembre è certamente un atto di guerra, ma in risposta ad altri atti di guerra che hanno preso avvio con la decisione di distruggere l’Iraq di Saddam Hussein, da parte del clan Bush e dei loro alleati, 25 anni fa. La Francia ha fatto parte sin dall’inizio, a eccezione del governo Chirac, della coalizione occidentale che ha dichiarato la guerra a Paesi musulmani come l’Iraq, l’Afghanistan, il Mali, la Libia… questi Paesi non ci minacciavano affatto, ma noi siamo intervenuti a negare la loro sovranità».
Lei pensa davvero che i terroristi siano soldati dell’Islam politico?
«E allora che cosa sono? Se sono tutti schedati come appartenenti ai movimenti dell’islamismo radicale, non si tratta forse dell’Islam politico? Negarlo equivale a chiudere gli occhi. È una cecità colpevole, pericolosamente colpevole. Si tratta ovviamente delle frange radicali e politiche dell’Islam salafita».
La loro radicalizzazione è frutto di una scelta razionale?
«Certamente. È una guerra condotta dall’Islam politico con altrettanto acume dell’Occidente, ma con meno armi o con armi diverse dalle nostre – coltelli e non portaerei, Kalashnikov da 500 euro e non droni da milioni di dollari. Anche loro hanno teologi, ideologi, strateghi, informatici, esperti di tattica militare. Hanno anche i loro soldati, agguerriti e pronti a tutto, invisibili ma presenti in ogni angolo del pianeta. Diverse migliaia di loro vivono in Francia. Hanno una loro precisa visione della storia, cosa di cui noi siamo oggi incapaci, accecati dal nostro materialismo triviale che obbedisce ai trucchi elettorali, alle mafie del denaro, al cinismo economico, alla tirannide dell’attimo mediatico. Il califfato ha manifestato apertamente le sue intenzioni. Ma il nostro rifiuto è colpevole: negar loro il diritto di dire che sono uno stato islamico, ricorrendo alla definizione ipocrita e politicamente corretta di Daesh, trasformarli in barbari, etichettarli come terroristi, tutto questo porta a sottovalutare la loro reale natura, che non merita affatto il nostro disprezzo. Soprattutto se si auspica di raggiungere un giorno una soluzione diplomatica».
Nel suo comunicato di rivendicazione Daesh dice, a proposito delle vittime del Bataclan, che si trattava di «centinaia di idolatri in una festa di perversione». Queste persone non ci odiano innanzitutto per quello che siamo?
«Si tratta di uno scontro di civiltà. Ma l’atteggiamento politicamente corretto in Francia proibisce che ciò venga detto. Faccio notare che anche la Francia possiede «un’identità nazionale», e questa riemerge spesso e volentieri quando l’identità islamica la fa risaltare nel contrasto di questo momento storico. Ma siccome riteniamo ugualmente sconveniente menzionare l’identità francese, per molto tempo non è stato possibile affermare che sì, esiste un modo di vivere all’occidentale che non corrisponde in nulla a quello islamico. I propugnatori del multiculturalismo ammettono che esistono molte culture diverse e tra queste alcune che difendono la musica rock nelle serate festive e altre che le giudicano una «festa della perversione». Le culture hanno tutte lo stesso valore? Sì, dicono i paladini del politicamente corretto. Personalmente, ritengo superiore una civiltà che consente la critica rispetto a una che la vieta e punisce con la morte il minimo dissenso».
La Francia deve abbandonare la coalizione internazionale in Siria e in Iraq?
«Sono a favore di un ripensamento totale della politica estera francese. Se continueremo a condurre una politica aggressiva contro i Paesi musulmani, questi reagiranno come già stanno facendo. Inviare truppe di terra in Siria equivale a gettare fiumi di benzina sul fuoco. La Francia dovrebbe rinunciare alla sua politica neocoloniale e islamofoba allineata sulle posizioni statunitensi. Dovrebbe ritirare tutte le sue truppe d’occupazione da ogni missione militare. A quel punto sarebbe possibile firmare una tregua tra lo stato islamico e la Francia, e far in modo che i suoi militanti, oggi presenti sul nostro territorio, depongano le armi».
Agli attentati di gennaio era seguito un movimento di unità nazionale. Succederà lo stesso dopo la tragedia del 13 novembre? Oppure lei teme una guerra civile?
«Ci vorrebbe una grande politica, di cui Hollande non è capace: non lo è mai stato e non lo sarà mai in futuro. Ho paura che le organizzazioni di estrema destra, quella vera (non quella che i politicanti strumentalizzano associandola a Marine Le Pen) finiranno per armarsi, si raggrupperanno in milizie e daranno avvio a operazioni di commando, con pestaggi, spedizioni punitive, incendi di moschee e altre azioni criminali per destabilizzare la democrazia».
«C’è tanta frustrazione. Dietro lo scontro religioso si cela la questione sociale»di Francesco Battistini Corriere 19.11.15
«La mia sensazione è che dopo vent’anni niente sia cambiato. Si fanno gli stessi discorsi di Bush dopo l’11 settembre». Tariq Ramadan esce dall’ennesima conferenza ed è quasi senza voce: difficile fare sentire la sua, in queste ore di raffiche e di bombe. Criticato in un certo Occidente, che l’ha spesso considerato troppo morbido coi fondamentalisti. Attaccato da un certo Islam, che non accetta la sua identità di musulmano europeo integrato — è nato in Svizzera e insegna a Oxford — e l’accusa di toccare gl’intangibili valori islamici. Io tocco le menti e non l’Islam, è la sua risposta di sempre: «Ma capisco che questa sia una discussione infinita…».
Sono almeno quindici anni che parliamo d’Islam moderato. Prima della partita della Turchia, in quel minuto di fischi, è stato zittito per sempre?
«Quei fischi non hanno molto a che vedere con questioni religiose. C’è una Turchia che manifesta contro la violenza e la subisce. Ma c’è un Sud del mondo dove ci si chiede: perché si piangono solo i morti di Parigi? E la Siria, il Libano? Perché non si fa un minuto di silenzio anche per loro?«.
Per la verità, un mese fa il minuto c’è stato. E lo stadio ha fischiato anche quello…
«Io non giustifico, sia chiaro. Ma questo non è estremismo: è una frustrazione che affiora. E con cui bisogna fare i conti».
Perché né l’Islam, né l’Occidente hanno prodotto leader capaci d’un dialogo?
«Perché è un contenzioso storico che dura da secoli. Questioni enormi che non si cancellano in tempi brevi. Ma vorrei chiarire: dopo questi attacchi, il problema non è l’integrazione religiosa in Occidente, non è lo scontro fra laicità e religione. In Francia, l’integrazione s’è conclusa da tempo. L’Islam è una religione occidentale ed europea. Il problema è nella giustizia sociale. Una società multietnica si costruisce giorno per giorno, non solo stando uniti nel dramma».
Non starà dicendo che i terroristi sono solo vittime della società?
«Non ho detto questo. È chiaro, c’è un’interpretazione religiosa di questi temi sociali. C’è una grave responsabilità dell’Islam fanatico, l’esigenza di un’autocritica, minoranze che non c’entrano col Corano. Ma questi estremisti vanno più su Internet che nelle moschee. E sia i fondamentalisti, sia i nazionalisti hanno interesse a eludere il problema sociale e a buttarla sullo scontro religioso».
Molti riaprono i libri di Oriana Fallaci e le danno ragione postuma.
«Sono le reazioni di chi cade nella trappola della divisione. Di chi non guarda alla grande maggioranza dei musulmani che oggi s’oppone a questa violenza. I francesi di confessione musulmana non hanno problemi coi valori dell’umanesimo. Il problema, non solo dei musulmani, è che la Francia non sostiene i valori che ci tengono uniti. Non lo fa in Siria, in Iraq, con le petromonarchie del Golfo. Il loro problema non è la laicità: è l’esercizio del potere. Non bisogna cadere nelle strumentalizzazioni di chi ha interesse a dividere».
L’Europa comincerà ad affrontare in modo autonomo le questioni mediorientali?
«Quel che vedo è il contrario del buon senso. Hollande sfodera la stessa politica di Bush: bombarda. Qual è la sua visione europea sulla Siria? Non c’è: E sul conflitto israelo-palestinese? Non c’è. La politica europea entra in un momento di disimpegno di quella americana. Però manca d’una visione internazionale. È in piena contraddizione con se stessa. Chi sono i francesi? Quelli che sostenevano la democrazia dei popoli e contemporaneamente Ben Ali o Gheddafi? È questo che nel mondo musulmano non si riesce a capire. Non è possibile appellarsi ai valori dell’umanesimo universale, quando ci si occupa di casa propria, e nello stesso tempo agire in questo modo se si va sulla scena internazionale».
Putin ce l’ha, una strategia?
«Di sicuro. Si è mosso in anticipo, fa pesare il suo grande ruolo. Fa il suo gioco».
È arrivato il momento di tenersi Assad, rimpiangendo Gheddafi e tutti gli altri?
«Il primo responsabile del terrorismo in Siria è Assad. Se ne deve andare. Non si può stare né coi terroristi, né con lui».
E poi?
«E poi ci dev’essere una transizione democratica. Come s’è fatto altre volte nella storia e con altri Paesi. Non è facile, lo capisco, ma è l’unica strada».
Come si vive in Siria ai tempi del Califfato? Il destino di Raqqa, capitale dell’Isis bombardata da russi e francesi, racconta una storia emblematica della guerra siriana che racchiude prima la paura per la repressione esercitata dal regime di Bashar Assad, poi le speranze sollevate dall’avanzata dei ribelli e infine il cupo terrore imposto da al- Baghdadi. Ma la sorte di Raqqa descrive anche quanto sarà complicato sradicare i jihadisti, sempre che si trovi l’accordo per farlo.
Il 6 marzo 2013 Raqqa era un città in festa che accoglieva gli insorti sventolando bandiere.
Per Assad la sconfitta era stata umiliante: questa città di 200mila abitanti, 160 km a Est di Aleppo, era il primo capoluogo regionale a cadere in mano ai ribelli con un’offensiva che aveva visto schierate fianco a fianco le milizie dell’Esercito libero siriano (Els) e quelle di Jabhat al-Nusra. La gioia per la liberazione della città si trasformò in timore quando le brigate Els vennero cacciate dai salafiti di al-Nusra, affiliati di al-Qaeda e fedeli a una versione radicale dell’Islam. I salafiti di Jabhat al-Nusra pensavano di avere in pugno la situazione: si erano liberati dell’Els, formazione sostenuta anche dalla Turchia che includeva dai disertori dell’esercito di Assad ai laici agli islamisti. L’Els veniva presentato alle conferenze internazionali come il braccio armato dei “moderati” ma stava già perdendo seguaci. In realtà moderati e laici non hanno mai controllato nulla, tanto meno avevano un ruolo i politici siriani che si facevano pagare dagli occidentali i conti degli hotel a cinque stelle.
Anche la conquista di Raqqa dei salafiti si era rivelata un’illusione. Bivaccavano con le bandoliere a tracolla nelle caserme abbandonate dai militari del regime e avevano issato le bandiere nere del monoteismo di al-Qaeda sulle antiche rovine della porta di Baghdad e sulla Qalat di Jabar sulla sponda sinistra dell’Eufrate, fortificazione fascinosa anche se meno imponente di quella di Aleppo.
Raqqa aveva una vecchia storia, densa di significato per il mondo musulmano, molto più di quanto apparisse dalla sua anonima periferia. Città ellenistica, romana e bizantina, era stata conquistata assieme a tutta la Siria dal califfo Omar. Ma la cosa più importante agli occhi degli islamisti è che nel periodo abbaside diventò per 13 anni, dal 796 all’809, la capitale di fatto del Califfato di Harun al Rashid, l’ispiratore delle “Mille e una Notte”
In una posizione strategica per tagliare la strada ai militari di Assad sulla strada di Aleppo, Raqqa per la sua storia faceva gola non solo ai salafiti che avevano già imposto alla popolazione locale una versione della legge islamica di stampo medioevale con pubbliche decapitazioni.
Era già cominciata l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che in poco tempo cacciò i salafiti di Jabhat al-Nusra consolidando il suo dominio sulla città con la forza e l’intimidazione, attaccando, catturando e mandando a morte sia i combattenti dell’opposizione sia i manifestanti pacifici. Alcuni video dell’epoca mostrano le crocifissioni e i miliziani che sparano sulla folla mentre si ribella ai jihadisti.
Fu a Raqqa che arrivò nel luglio 2013 il gesuita italiano Padre Paolo dall’Oglio. Secondo alcuni attivisti si era recato nella sede dell’Isis per tentare di incontrare il leader Abu Bakr al-Baghdadi. L’obiettivo era chiedere una tregua negli scontri con le milizie curde e avere informazioni sulla sorte di alcuni sacerdoti e giornalisti rapiti. E fu a Raqqa che di lui si persero le ultime tracce certe.
Nel gennaio 2014 l’Isis aveva conquistato completamente Raqqa trasformando la Siria e l’Iraq in un unico campo di battaglia, da lì a pochi mesi avrebbe catturato la città irachena Mosul, dove al-Baghadi proclamò il 29 giugno il Califfato, per poi impadronirsi dei pozzi petroliferi siriani di Dayr el Zhor. Colui che guida il Califfato, un iracheno di Samarra allievo del qaedista Abu Musab Zarqawi, era riuscito a sfruttare il caos siriano e iracheno unendo le forze jihadiste a quelle degli ex ufficiali e seguaci del Baath di Saddam Hussein. Un’avanzata che aveva saputo sfruttare le cause della rivolta della minoranza sunnita in Iraq contro gli sciiti e quella della maggioranza sunnita siriana contro il regime alauita di Assad.
Di Raqqa al-Baghdadi aveva fatto la sua capitale governata nella morsa della sharia, a colpi di frusta e di sermoni applicati dalla Hisba, la polizia religiosa, ma anche con la distribuzione gratuita di cibo e bevande alla popolazione. Un rudimentale welfare state che insieme a saccheggi, estorsioni e rapimenti, ha imposto la zakat, la tassa religiosa del 10% sui redditi. Da qui al-Baghdadi avrebbe ordinato la strage di Parigi, spegnendo le luci della Tour Eiffel ma anche quelle di una capitale che dopo Harun Rashid, il vero Califfo delle Mille e una Notte, era piombata per secoli ai margini della storia.
QUANDO ho sentito il presidente francese François Hollande e i maggiori politici francesi ripetere che dopo la strage terroristica di Parigi la Francia è “in guerra” era difficile non pensare all’11 settembre. E non andare con la mente alla risposta dell’allora presidente George W. Bush, a quella “guerra al terrore” che ci ha portati prima in Afghanistan e poi in Iraq. Proprio l’invasione dell’Iraq ha destabilizzato la regione portando, tra altre cose, la nascita di Is.
Dopo Parigi anche qui a New York assisto a scene che richiamano, sia pure in scala minore, ciò che accadde dopo l’11 settembre. Vedo due giovani americani che hanno dipinto i colori della bandiera francese sotto i loro occhi, come se stessero piangendo lo spirito nazionale francese. Molti ricordano la risposta francese agli attacchi alle torri gemelle (“Nous sommes tous américains”) e oggi rispondono nello stesso modo. Dimenticano ciò che accadde quando la Francia espresse tutte le proprie riserve all’invasione dell’Iraq, fino al punto di ribattezzare le “French fries”, le patatine fritte, “Freedom fries”, in risposta alle critiche francesi.
Oggi, la gran parte degli americani che eleggono Parigi come prima destinazione all’estero riconoscendone la supremazia culturale, vivono l’eccidio del weekend scorso come una perdita personale.
Ne sono anche testimone diretto: ricevo molte mail accorate di americani che sanno che ho vissuto a Parigi: mi scrivono per chiedermi se i miei amici francesi sono sani e salvi e per esprimere tutto il loro sgomento. Si sentono così coinvolti che una mia amica arrivata da Parigi non ha potuto fare a meno di notare che «quasi, quasi degli attacchi si parla più qui che a Parigi».
Con la tendenza molto americana di affrontare le cose in chiave religiosa ha spopolato per strada e in Rete lo slogan “Prayfor-Paris”. Rispedito al mittente, con un’affermazione di laicismo, da uno degli illustratori di Charlie Hebdo. Ma questa impronta religiosa nel leggere i fatti di Parigi è molto radicata. Mi è capitato di leggere anche commenti come questo: «La gente si disputa la realtà di Dio ma Satana ha dimostrato certamente la sua esistenza e i suoi propositi sanguinari ». La partecipazione emotiva, anche fuori dalle grande città è molto forte. Su alcune televisioni locali campeggia a caratteri cubitali lo slogan “Guerra al terrore”.
L’interrogativo prevalente a tutti i livelli è: cosa si può fare?
Tanto più che l’offensiva terroristica cade in piena campagna elettorale sia in Francia che negli Stati Uniti.
In Francia, Hollande propone di riscrivere la costituzione, dando più poteri allo Stato, mentre Sarkozy, che vorrebbe tornare al potere, propone di chiudere delle moschee e mettere dei braccialetti elettronici agli estremisti islamici.
In America, l’ex-candidato repubblicano del 2012, Mitt Romney, dice che bisogna invadere la Siria, mentre alcuni candidati hanno detto che gli Usa dovrebbero accogliere solo profughi di origine cristiana e non quelli islamici. Vari governatori repubblicani hanno detto che non apriranno le porte ai rifugiati siriani (ignorando che sono le prime vittime dell’Is). Il palazzinaro- candidato Donald Trump ha rivendicato: «Quando ho detto di bombardare le installazioni di petrolio controllate dall’Is hanno riso, oggi lo stanno facendo».
Solo Dominique de Villepin, ministro degli esteri francese al momento della crisi irachena ha avvertito il pericolo per la Francia di entrare nella sindrome da guerra: «Se una banda di assassini fanatici vi dichiara guerra non vuole dire che bisogna cadere nella trappola di fare altrettanto».
Un mio amico francese, tra l’altro molto vicino ai socialisti francesi, mi dice che Hollande e il suo governo, cercano di sviare l’attenzione dai propri errori, notando non a caso che «non c’è stata nessuna inchiesta parlamentare dopo la strage a Charlie Hebdo». Era stata ridotta la protezione alla redazione poco prima del raid di gennaio, nonostante la Francia avesse già iniziato a bombardare le postazioni dell’Is in Iraq. «Nessuno ha previsto una possibile risposta?», si chiede il mio amico Patrick. E aggiunge un ulteriore elemento: sia i fratelli Kouachi — tra gli autori della strage di Charlie Hebdo — che alcuni dei terroristi di venerdì scorso erano schedati dalla polizia francese sulla famosa “lista S” dei sospettati terroristi.
Il potere del terrorismo è la sua natura asimmetrica: la capacità di poche persone di guadagnare un’influenza sugli eventi completamente sproporzionata ai loro numeri. Un terrorista serbo, uccidendo l’arciduca Franz Ferdinand ha iniziato la prima guerra mondiale. Gli otto (per ora) terroristi dell’Is stanno per cambiare la vita ad una nazione di 60 milioni e forse al resto dell’Europa, proprio come i 15 fanatici dell’11 settembre hanno cambiato gli Usa.
Già adesso, sta morendo il sogno della nuova Europa, un continente libero e aperto. I francesi (comprensibilmente) hanno ristabilito i controlli alla frontiera con il Belgio visto che alcuni degli uomini e le armi per gli attacchi di Parigi venivano da lì.
Ricordo un mio viaggio da Parigi in Olanda due anni fa: la piacevole sorpresa di andare dalla capitale francese a Rotterdam su un treno superveloce. Passare per delle terre impregnate dal sangue di innumerevoli guerre europee attraverso i secoli in due ore e mezzo con solo un controllo dei biglietti sembrava un piccolo miracolo. Ma già da quando i terroristi hanno tentato di sparare sul treno Thalys e gli ungheresi e i polacchi si rifiutano di prendere i rifugiati siriani, quel sogno sta finendo.
L’Is, sulla scia delle sue ultime imprese — la bomba in Libano, l’attacco rivendicato contro l’aereo russo in Egitto e gli attacchi di Parigi — sembra una superpotenza mondiale. Ma in realtà è molto più debole di quanto sembri. E ha perso circa il 25 per cento del proprio territorio negli ultimi mesi. Per questo bisogna continuare e intensificare gli attacchi contro l’Is, sostenendo i suoi nemici locali ma evitando una nuova occupazione dell’Iraq e della Siria.
Bisogna applicare le leggi esistenti sul terrorismo, dedicandovi più risorse ma senza stravolgere le nostre democrazie e lo stato di diritto.
“Gli attentati di Parigi minacciano anche noi” un italiano su due è pronto a cambiare stile di vitadi Ilvo Diamanti Repubblica 20.11.15
Cresce la disponibilità a limitare alcuni diritti, ma non il timore su Islam e immigrati
Il sondaggio è stato realizzato da Demos & Pi per La Repubblica, con il contributo di Intesa Sanpaolo. La rilevazione è stata condotta nei giorni 16-18 novembre 2015 da Demetra. Il campione nazionale intervistato (N=1.010, rifiuti/sostituzioni 9.970) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 3.1%)
I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno emozionato e coinvolto anche noi. In Italia. Non si tratta di un effetto preterintenzionale. Al contrario. La scelta dei luoghi, delle vittime, la stessa rappresentazione dei massacri rivelano una evidente intenzione – e capacità – di colpire “nel mucchio”. Molti bersagli “umani”. Molti giovani. Ma anche di lanciare messaggi. Di trasferire paure, inquietudini, ben oltre i confini di Parigi e della Francia. Fino a noi. Paese confinante. Dove ha sede il Vaticano. Dove i flussi migratori dal Nord Africa continuano, incessanti. Lo conferma il sondaggio condotto da Demos per Repubblica, nei giorni scorsi. Certo, la maggioranza degli intervistati (50%) vede negli attentati una “punizione” contro la Francia, colpevole di partecipare ai bombardamenti in Siria e in Iraq. Più di quanti (40%) lo considerano, invece, un avvertimento, contro luoghi e riti del consumismo occidentale. Tuttavia, oltre 8 italiani su 10 ritengono che questo attacco non abbia implicazioni solamente “francesi”. Ma riguardi, al contrario, anche noi.
Oltre metà delle persone (intervistate) ammette di sentirsi preoccupata per l’eventualità di atti terroristici. Con un aumento di 14 punti, nell’ultimo anno, e di circa 20 rispetto al 2010. Gli effetti sul clima d’opinione risultano evidenti. Anzitutto, sul piano dell’in-sicurezza, che appare diffusa.
Componenti ampie della popolazione (meglio: del campione) pensano, infatti, che oggi convenga adottare comportamenti prudenti. Più che in passato. In particolare, il 46% ritiene opportuno evitare di partecipare a manifestazioni ed eventi pubblici. Il 43%: di viaggiare all’estero. Il 38%: di prendere l’aereo. Si tratta, perlopiù, di persone più anziane e meno istruite. Che, comunque, sono meno disponibili a mobilitarsi e hanno minore confidenza “con il mondo”. Ma il segnale è chiaro. L’insicurezza sta penetrando nella società. E spinge le aree “periferiche” – dal punto di vista sociale ma anche territoriale (i piccoli comuni di provincia e le banlieue metropolitane) a chiudersi in casa. A guardare gli altri con diffidenza. Quasi 4 persone su 10, infatti, oggi percepiscono gli immigrati come “un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”. E si rivolgono all’Islam con atteggiamento diffidente. La scia di sangue lasciata dalle aggressioni criminali avvenute a Parigi, dunque, è arrivata fin qui. E ha alimentato, presso gli italiani, l’inquietudine. Ha allargato le distanze, meglio, il distacco fra noi e gli altri. Percepiti come possibili minacce. Nemici.
Così, il trattato di Schengen, che ha “aperto” le frontiere, reso più facili le comunicazioni e i movimenti personali, diviene un problema. Un rischio. E insieme alle porte di casa diventiamo più disponibili a chiudere anche le frontiere. Anche se “temporaneamente”. È un provvedimento auspicato dal 56% degli intervistati.
Al tempo stesso, come avviene quando la paura penetra fra noi, diventiamo meno esigenti, sotto il profilo dei diritti e delle nostre libertà. Così, oltre 9 italiani su 10 si dicono disponibili ad aumentare la sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso telecamere. Mentre quasi la metà di essi (per la precisione: il 46%) vorrebbe rendere più facile alle autorità il controllo sulle nostre comunicazioni. Dalla posta elettronica alle telefonate. Quasi 20 punti in più, rispetto al 2009. In altri termini, i fatti di Parigi hanno accentuato la sindrome d’assedio, cresciuta negli anni della crisi. Alimentata dalla globalizzazione che ci espone, emotivamente, a ogni evento drammatico, che avvenga altrove. Anche lontano. È come se fosse qui. A maggior ragione quando si tratta di una “città esemplare”, come Parigi. Destinazione degli itinerari da tutto il mondo. Per motivi turistici, di studio e di lavoro. Tanto più da qui. Dall’Italia. Affacciata ai confini. Per questo colpire Parigi significa colpire l’Europa, di cui è il centro. Un Centro strategico e attraente. Per questo colpire Parigi ha un impatto rilevante, sui nostri sentimenti. Per questo rischia di diventare un ostacolo, ulteriore, alla costruzione europea. All’integrazione politica, culturale.
Eppure, evidenziare quanto gli attentati di Parigi abbiano cambiato il nostro modo di guardare gli altri e noi stessi, non basta. Potrebbe perfino essere deviante. Se non aggiungessimo che, nonostante tutto, la paura non è sfociata in panico. La diffidenza non è degenerata in distacco, segregazione.
La percezione negativa nei confronti dell’Islam, come religione e comunità, infatti, non ha cambiato misura, nell’ultimo anno. Nonostante tutto. E oltre 7 italiani su 10 pensano che le responsabilità delle violenze di Parigi siano da attribuire a una “frazione di integralisti”. Solo una minoranza le riconduce all’Islam, come tale. L’insicurezza suscitata dall’immigrazione, inoltre, è elevata. Ma non è cresciuta molto, negli ultimi mesi. Rispetto allo scorso giugno è perfino calata. Ed molto più bassa, in confronto all’autunno 2007, quando la campagna mediale preparava quella elettorale. Scandita – e decisa dalle “paure”.
Ci muoviamo, dunque, in una terra instabile, lungo il confine mobile fra diverse destinazioni. Diverse soluzioni. Marcate da diversi livelli di in-sicurezza, apertura e - reciprocamente - chiusura. Verso le altre persone, le altre religioni. Verso gli altri Paesi. E ciò tende a estremizzare i sentimenti personali, i rapporti con gli “altri”, ma anche gli orientamenti politici. Così, si allargano gli spazi per gli “imprenditori politici della paura”. Che fanno dell’insicurezza e della sfiducia una risorsa da investire sul mercato politico. Insieme alla disponibilità verso i controlli. Sui comportamenti degli altri, ma anche sulle nostre relazioni. Sulla nostra vita personale. Da “sorvegliati speciali”, a tempo pieno. Si tratta di capire se l’unica strada possibile sia questa. Rassegnarsi a uno “stato di emergenza” permanente. Fino a diventare ostaggi di se stessi. Di noi stessi.
Significherebbe cedere alla logica del terrore. In fondo, arrendersi ai terroristi.
di Adriana Cerretelli Il Sole 20.11.15
Chi non ricorda i feroci attacchi dei benpensanti europei a George W. Bush, il presidente liberticida autore del Patriot Act che, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, ha posto limiti alle libertà personali in nome del superiore imperativo di tutela della sicurezza nazionale?
E chi, tra di loro, non ha glorificato Edward Snowden il “vendicatore” dei diritti civili calpestati, l’uomo che due anni fa ha smascherato i segreti della sorveglianza della Nsa, l’Agenzia Usa per la sicurezza nazionale?
Oggi, a torto o a ragione, c’è chi ritiene che quelle rivelazioni hanno fatto il gioco dell’Isis. Almeno in tre modi: rendendo noto l’uso delle tecnologie telecom per individuare i sovversivi del Profeta, scatenando in Occidente la rivolta dei cittadini inconsapevoli contro le violazioni del diritto alla privacy e, infine, scoraggiando così raccolta dati e scambio di informazioni tra le diverse strutture nazionali di intelligence, ammalatesi di diffidenza reciproca per paura di ritrovarsi a loro volta “denudate”.
Sia come sia, dopo l’ennesima carneficina, questa volta a Parigi, torna di attualità il vecchio dilemma: tra libertà e sicurezza chi deve prevalere? La risposta in teoria sarebbe molto semplice: la libertà individuale finisce quando diventa licenza o mette in pericolo la sicurezza collettiva. Nei fatti, nell’era del grande fratello, i confini si fanno più labili e confusi, come dicono il caso Snowden, il sacro totem della libertà della rete, i dubbi sul futuro dei sistemi di criptazione.
La minaccia terroristica che aleggia su tutta l’Ue comincia intanto a scuotere molte coscienze, radicate convinzioni e resistenze. Tanto che l’Europa sembra lentamente incamminarsi sulla stessa strada che tanto ha esecrato quando a imboccarla fu l’America di George W. Bush dopo gli oltre 3.000 morti delle Torri Gemelle.
Ironia vuole che sia la Francia socialista, la stessa che ai tempi di Mitterrand offriva asilo sicuro ai terroristi italiani, a farsi portatrice della linea più dura: controlli a tappeto alle frontiere esterne, cittadini Ue compresi. La Svezia socialdemocratica di Stefan Lofven propone l’adozione, come negli Usa, del passaporto biometrico per entrare nello spazio Schengen. Mentre l’Olanda del democristiano Mark Rutte, nella speranza di dormire sonni più tranquilli, auspica la ritirata su una mini-Schengen.
Evidentemente non si arrende nemmeno davanti a una guerra difficile, subdola e che riguarda tutti, il tarlo delle divisioni europee. Il nemico terrorista si muove dentro e fuori dalle frontiere e sfrutta anche l’emergenza rifugiati per farsi largo. Sono 10mila i foreign fighters nell’Ue, 5mila con training in Siria, avverte Europol, e sono tutti cittadini europei.
Resta da vedere quali decisioni concrete produrrà oggi l’ennesima riunione straordinaria dei ministri Ue di Interni e Giustizia. Controlli immediati, sistematici e coordinati alle frontiere esterne, più cooperazione tra intelligence e scambi di dati, regole più severe sugli acquisti di armi, tracciabilità obbligatoria dei pagamenti online: ma quante di queste misure saranno davvero adottate e non, come al solito, solo annunciate? L’Europa non ama fare la faccia feroce e condanna quella degli altri. Questo lusso però ormai potrebbe costarle troppo caro: l’appeasement davanti al terrore equivale alla resa incondizionata.
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