domenica 29 novembre 2015

L'Occidente ce l'ha fatta a maccheroncino

“Il tricolore e Les Invalides la Francia torna ai suoi simboli” 
Lo studioso dell’Académie: “La ferita che abbiamo subito ricolloca il nostro Paese sulla ribalta della Storia. Avevamo perso da tempo il senso della collettività”

GUILLAUME PERRAULT
Pierre Nora, l’accademico di Francia che ha diretto l’ambiziosa impresa dei Lieux de mémoire, analizza gli attentati del 13 novembre e l’omaggio nazionale reso alle vittime.


Che posto assume nella nostra storia il dramma del 13 novembre?
«Tra gli attentati mirati di gennaio, contro disegnatori, giornalisti, poliziotti ed ebrei, e le carneficine del 13 novembre, c’è una differenza enorme. Poiché la legge del terrorismo è l’escalation, non possiamo fare a meno di domandarci fin dove si spingerà. Inoltre, gli omicidi di novembre hanno ingigantito ancora di più l’effetto rivelatorio che avevano avuto quelli di gennaio: un faccia a faccia tra una Francia democratica, impegnata nella secolarizzazione, e una minoranza musulmana di cui, per egualitarismo repubblicano, concezione francese della cittadinanza e senso di colpa coloniale, avevamo minimizzato, specie a sinistra, la dimensione specifica, religiosa».
Il Parlamento riunito a Versailles, la commemorazione agli Invalides: scenari e la liturgia del potere sono indispensabili per superare le crisi?
«Versailles e gli Invalides non sono in questo caso dei lieux de mémoire, vale a dire dei luoghi simbolici dell’identità nazionale. Non si contano più le revisioni costituzionali che hanno avuto per scenario Versailles, e succede spesso che cerimonie di omaggio nazionale vengano tenute agli Invalides, luogo puramente militare. In compenso, è vero che gli scenari e la liturgia sono indispensabili per il lutto collettivo e nazionale, come anche per i lutti individuali. Se volessimo evocare un luogo della memoria in tutta la faccenda, io ne vedrei due: il Bataclan, che rappresenta la musica, il ballo, la gioia di vivere, tutto quello che il fondamentalismo musulmano vieta e cerca di sradicare. E Parigi, che continua a irradiare un simbolismo potentissimo. Le stragi non avrebbero avuto la stessa risonanza se non fossero avvenuti qui».
Dopo gli attentati, la Marsigliese ha invaso gli stadi, mentre i colori della bandiera nazionale campeggiano su monumenti, manifesti, social network… «Il ritorno in auge dei simboli nazionali è palese. Lo attesta il numero di bandiere francesi vendute dopo gli attentati. Non possiamo che rallegrarci di vedere questi simboli sottrarsi all’appropriazione della destra e dell’estrema destra. Già la manifestazione all’indomani degli attentati di gennaio era stata caratterizzata dall’apparizione molto spontanea di bandiere tricolori. È molto positivo. In Francia non c’è una religione civile come negli Stati Uniti, ma c’era, può esserci, un culto civico. Peccato che lo si avverta solo di fronte alla catastrofe».
È il ritorno tragico della Storia?
«La Francia dava la sensazione di essersi distaccata dalla grande storia da molto tempo, progressivamente, forse a partire dal 1918. Fra le due guerre, la Francia ha subito solo i contraccolpi della storia scritta da altri: la crisi economica, il comunismo e il nazismo. E le guerre coloniali, per quanto gravi, avevano un profumo di retroguardia storica. Dopo la fine del gollismo e del comunismo, la Francia non è più stata sollevata da grandi cause. L’Europa? Ci abbiamo provato, senza successo. L’ecologia? Anche se il sentimento è penetrato nell’opinione pubblica, non è una causa storica. Finora tutto ha trasmesso la sensazione di un’anemia del senso del collettivo, di un’individualizzazione dello stare insieme, una storia che è diventata un ognun per sé. La ferita collettiva che abbiamo subito ricolloca la Francia sulla ribalta della Storia. A questo ritorno nella Storia non è escluso che contribuisca anche l’arrivo brutale dei migranti: un problema che si trasforma in un fenomeno di una portata storica colossale».
Siamo in guerra contro il terrorismo?
«La parola mi mette a disagio. La guerra implica belligeranti, reciprocità, obiettivi da conseguire, identificazione del nemico. È così anche nelle guerre asimmetriche, come il conflitto israelo-palestinese. In mancanza di un termine più adeguato, la parola “guerra” compatta l’opinione pubblica e definisce quello stato di violenza che ci viene imposto. Quello che mi turba è che questo termine ci fa entrare in una logica che finisce quasi per legittimare quelli che ci fanno la guerra. Ma il terrorismo ispirato dal fondamentalismo islamico nasce ben prima dell’ingranaggio che ha condotto la Francia a bombardare lo Stato islamico. L’interesse dei terroristi è sempre quello di farsi riconoscere come combattenti».
Qual è la risposta adeguata al terrorismo?
«Il mezzo migliore per combattere il terrorismo sarebbe in teoria relativizzare la valutazione dei suoi effetti e fare della sua repressione una battaglia esclusivamente di polizia, invece che una guerra nazionale. Ma è chiaramente impossibile. Democrazie come le nostre sono male attrezzate per rispondere rapidamente alla sfida del terrorismo. Ma fortunatamente sono armate in profondità per riuscire, alla fine, a sconfiggerlo».


Ho previsto il terrore che ha sfregiato Parigi” Nell’ultima avventura del commissario Verhoeven la città viene sconvolta dall’esplosione di bombe collocate da un pazzo Raffaella Silipo  Tuttolibri 29 11 2015


è una preveggenza che mi spaventa». La voce dello scrittore parigino Pierre Lemaitre non ha la solita eco ironica. Il suo ultimo libro, Rosy & John, «terzo capitolo e mezzo» della trilogia di Camille Verhoeven appena uscito da Mondadori, sembra preso pari pari dalle tragiche cronache francesi di questi giorni. La vicenda, raccontata con la consueta tensione attraverso gli occhi dell’iracondo commissario alto un metro e 45, immagina un giovane marginale che dissemina in tutta Parigi una serie di bombe rudimentali ma fin troppo pronte ad esplodere se le autorità non libereranno sua madre, chiusa in carcere con l’accusa di omicidio. La motivazione di John quindi non è religiosa né ideologica, ma la paura in cui piombano la popolazione e le istituzioni, dalla polizia ai giornalisti fino ai politici, è identica a quella provata in questi giorni, così come è identica la «macchina» dei soccorsi. «Non sono affatto soddisfatto di aver avuto ragione - mormora lui - sono rimasto profondamente ferito, come tutti, dagli attentati di venerdì 13 novembre. La differenza fondamentale fra il mio libro e la realtà è la motivazione. John mette le bombe per vendetta personale, non deviato da un fanatismo religioso. Ma gli effetti del terrore sono gli stessi: mostrano in modo spietato la fragilità della nostra vita, l’impotenza della collettività davanti a pochi folli».


In che senso l’Occidente è fragile, Lemaitre?
«La democrazia è altamente permeabile al terrore: in una dittatura o in uno stato di polizia i cittadini sono iper controllati, hanno pochissima libertà personale, e quindi è difficile che si riesca a portare a termine un attentato. La libertà ha un prezzo, vale a dire una diminuzione della sicurezza. Organizzare un attentato non è poi così difficile nelle nostre città, se si è fortemente motivati e pronti a morire: trovare i mezzi tecnici, le armi, è il minore dei problemi. Nella realtà di questi giorni si è vista chiaramente la sproporzione tra la semplicità tragica dell’azione - pochi uomini, due ore di assalto - e il lungo terrore che ha avviluppato la città. La verità è che è troppo facile mettere le bombe». 
La democrazia sarà fragile ma in questi giorni ha reagito bene, non le sembra?
«È vero. Sono piuttosto fiero dei miei concittadini. Siamo sotto choc ma non nel panico, non siamo caduti nel ricatto morale dei terroristi e soprattutto c’è stata molta spontanea solidarietà. Per un uomo di sinistra come me è forse la cosa più importante». 
Lei dov’era al momento dell’attentato?
«A casa mia a Montmartre, un posto tranquillo, protetto, idilliaco, pieno di turisti. Sono scioccato come tutti, ma non voglio parlare di come ho vissuto quei momenti: non sono io il protagonista. Io sono un privilegiato, sono vivo, sto bene, non ho perso nessuno dei miei cari».

Siamo tutti privilegiati, noi occidentali, no?
«No, non tutti. È proprio questo il punto. Nella nostra società, nelle nostre bellissime città, c’è una differenza abissale tra ricchi e poveri, che alimenta la rabbia e la frustrazione di chi sta dalla parte sbagliata: ci sono periferie dove la polizia ha rinunciato a entrare. E i nostri governanti non hanno capito che togliere ogni speranza ai giovani, abbandonare a sé stessi i più poveri, li rende facile preda degli imbonitori fanatici. Siamo seduti su una polveriera, questi terroristi li abbiamo fabbricati noi».
C’è invece chi dice, come il suo collega Michel Houllebecq, che la causa degli attentati sia la poca polizia e le frontiere troppo aperte...
«E sbaglia. Bisogna puntare su una società più giusta, non su maggiore controllo: non ci si può chiudere dietro le frontiere, bisogna aprirsi alla solidarietà. Non è più il tempo di Asterix e del suo orgoglio gallico, ma di costruire una società nuova».
Le bombe che mette il suo protagonista John sono un residuato bellico e lei ha scritto un libro sulla Prima guerra mondiale. Vuole dirci che gli errori del passato continuano ad avere un peso sulla violenza di oggi?
«Purtroppo credo che sia così. L’idea del libro mi è venuta proprio quando ho scoperto che sono ancora moltissimi i residuati bellici nei nostri paesi. Mi sembra un simbolo di quanti residuati di violenza ci portiamo ancora dentro. Il fatto è che dopo le guerre mondiali non abbiamo saputo creare un’Europa solidale e paghiamo l’incapacità di costruire davvero la pace. Pensi solo che nel centenario della Prima guerra l’Europa ha rinunciato a una commemorazione unitaria. Per creare l’Europa non basta l’euro, ci vuole una cultura comune. E questi attentati hanno un sapore amaro di regressione...».



L’allarme di Touraine “Difendersi è giusto ma salviamo le libertà”
intervista di Fabio Gambaro Repubblica 28.11.15

«La Francia non deve diventare Guantanamo». Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. «Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia», ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro,

Nous, sujets humains (Fayard). «Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guntanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili».
Il governo però annuncia deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani...
«E’ certamente grave. E una tale situazione comporta rischi per le libertà dei cittadini. Bisognerà essere molto vigilanti e critici di fronte a tutte le derive possibili, anche facendo appello all’opinione pubblica. Capisco la pressione cui è sottoposto il governo, costretto a mostrarsi fermo per evitare di lasciare spazio al Fronte Nazionale. Ma ciò non significa accettare di rimettere in discussione i principi democratici».
Non crede che questo sia il prezzo da pagare per difendersi?
«La Francia fa bene a difendersi, come fa bene a bombardare l’Is in Siria. Siamo in guerra, quindi dobbiamo reagire militarmente. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola dell’Is, che vorrebbe un nostro intervento delle truppe di terra. In realtà, l’orribile violenza della jihad mira a farci perdere la testa per spingerci a reazioni impulsive, all’interno come all’esterno del paese. Noi non dobbiamo seguirli su questa strada. Come ha detto Hollande nel suo discorso in omaggio delle vittime, dobbiamo combattere i terroristi restando noi stessi, con i nostri valori, la nostra cultura e il nostro attaccamento alla libertà. Occorre esser più efficaci, non meno liberi».
Hollande ha molto insistito sulla fratellanza, un valore in cui oggi i francesi sembrano riconoscersi. E’ importante anche per lei?
«In passato mi sono spesso vergognato del mio paese, ma oggi provo rispetto e tristezza per questa nostra comunità che soffre. Ne sono fiero e sono dunque sensibile allo slancio di fratellanza che attraversa la Francia. Quello del presidente è stato un discorso giusto e equilibrato, lontano da ogni nazionalismo, perché qui non stiamo difendendo la nazione ma la libertà di tutti. Da diversi anni stiamo attraversando una fase di arretramento, siamo disorientati e in crisi. Abbiamo dunque bisogno di rialzarci e di ricominciare a sperare. E oggi, proprio attraverso la prova terribile dei massacri del 13 novembre, e prima quelli di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Casher, noi francesi stiamo ritrovando un po’ di autostima, un po’ di noi stessi. Che forse è il primo passo per poter uscire dalla crisi e ricominciare a guardare avanti. Sono contento che Hollande abbia concluso il suo discorso insistendo sulla gioventù che rappresenta il futuro di tutti noi».
Dalla tragedia può quindi nascere qualche ragione di speranza?
«L’enorme reazione di solidarietà dopo i massacri è forse il segno di un ritorno di quei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza - a cui personalmente aggiungo la dignità - di cui abbiamo più che mai bisogno. Si tratta di valori universali che vengono prima della politica. La reazione dei francesi e il loro omaggio alle vittime ci dicono che l’etica sta al di sopra dell’interesse politico».
A Parigi in questi giorni sventolano tantissime bandiere francesi. E’ la sinistra che si riappropria del patriottismo e di un simbolo che era stato confiscato dalla destra?
«Sì, ma non bisogna dimenticare che la sinistra francese in passato è stata spesso molto nazionalista. Il colonialismo e la guerra d’Algeria sono opera della sinistra. Quindi non ci si deve stupire più di tanto. Naturalmente sono contento che oggi i francesi si ritrovino uniti dietro la bandiera e la marsigliese. Secondo me però non è patriottismo, ma solo amore della libertà e di quei valori che sono di tutti, non solo dei francesi. Anche questo è un segno di una risposta democratica».
Eppure i sondaggi dicono che il Fronte Nazionale cresce. E’ preoccupato?
«Sono inquieto, ma penso che sia anche giusto relativizzare. Dopo tutto quello che è successo, Marine Le Pen guadagna solo un punto o due. Non c’è stato lo smottamento che forse lei sperava. Come pure i francesi non hanno ceduto alla violenza e al razzismo nei confronti del mondo musulmano. Non c’è stato panico, non c’è stata la guerra civile che auspicavano i terroristi. La democrazia per ora ha vinto».

“Vietato parlare di Islam” Il filosofo ateo Onfray non pubblica in Francia
Il saggio sul Corano uscirà solo all’estero di Paolo G. Brera Repubblica 28.11.15

Michel Onfray, l’intellettuale francese anarchico e ateo divenuto celebre con il suo Trattato di Ateologia, stavolta ha gettato la spugna e si è chiuso dietro la porta: il suo libro Penser l’Islam uscirà a fine gennaio in tutto il mondo fuorché dove è stato scritto, in Francia. «Nel contesto attuale, qui non è possibile alcun dibattito sereno sull’Islam», dice tramite il suo editore Grasset.

Da giorni lo inseguono le polemiche per un suo tweet reclutato in un video di propaganda dell’Is insieme al suo invito, estrapolato da un’intervista, a «smettere di bombardare i musulmani in tutto il pianeta»: «Destra e sinistra, che hanno seminato a livello internazionale la guerra contro l’Islam politico, raccolgono la guerra dell’Islam a livello nazionale». Era il 14 novembre, all’indomani della strage di Parigi, e appena prima di dare del «cretino» al premier Manuel Valls.
«Le solite strumentalizzazioni, le interpretazioni non mi interessano», replicò all’ondata di proteste che lo travolse bollandolo come «utile idiota» per la causa del terrorismo, e precisò di non avere la minima intenzione di difendere lo Stato islamico. Tant’è, di fronte a quella che chiama «un’isteria» collettiva nei sui confronti, ieri il filosofo ha ammesso a Le Point di provare una «grande fatica»: «Ne ho abbastanza che i miei tweet siano più importanti dei miei libri. Ho deciso di chiudere il mio account Twitter. Voglio tornare alle mie faccende, commentare i commenti non mi interessa».
Celebre per le sue intemerate contro tutte le religioni, che da illuminista ritiene fomentino l’odio, il fanatismo e la mortificazione del corpo e della fisicità, ha concepito il suo nuovo libro - di cui ha sospeso «a tempo indeterminato» la pubblicazione in Francia - come un dialogo-intervista tra lui e la giornalista algerina Asma Kouar. Nel testo c’è una rilettura filosofica del Corano: «Ho esaminato gli hadith e li ho incrociati con le biografie di Maometto per mostrare che in questo corpus esiste materiale per il peggio e per il meglio: il peggio sono le minoranze che agiscono attivamente per la violenza; il meglio è ciò che le maggioranze silenziose praticano privatamente». Poi c’è una lettura politica di questi anni oscuri, e di una politica estera francese che Onfray giudica «islamofoba».


Un Medio Oriente libero e tollerante torniamo al sogno di Lawrence d’Arabia
 Nel Califfato storico convivevano popoli e religioni diverse Il colonialismo costruì Stati artificiali che si sono dissolti e incendiati dal fanatismo. Ma il terrorismo è una formula vuota che si sconfigge togliendogli le ragioni
EDGAR MORIN


Per capire cosa succede nel mondo islamico è necessario avere una cultura storica: senza storia infatti non può esserci alcuna comprensione degli avvenimenti. Bisogna sapere, per esempio, che nell’antico Califfato c’era piena libertà religiosa sia per i cristiani che per gli ebrei, mentre l’intolleranza più cieca riguardava solo il mondo cristiano: basti pensare alle Crociate, all’Inquisizione, alle persecuzioni anti- ebraiche.
In realtà il vero problema del mondo arabo è stata la sua colonizzazione durata secoli, dalla fine del 400 dopo Cristo alla decomposizione dell’Impero ottomano. Da queste macerie nacque un sogno: il sogno di ricostruire e unificare il mondo arabo, il sogno di Lawrence d’Arabia. Un progetto che però si è andato a infrangere contro le mire egemoniche di paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, che per perseguire i propri interessi nazionali in Medio Oriente “crearono” paesi tra loro diversi: la Siria, il Libano, l’Iraq. Ed è stato un peccato, perché una nazione unificata araba avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Questa nazione avrebbe potuto consolidarsi, svilupparsi in un clima di libertà religiosa.
Le cose sono andate diversamente. Prima con la frantumazione in Paesi differenti, ognuno inserito in una differente sfera d’influenza. E poi, molto più recentemente, con gli effetti della strategia americana, con la seconda guerra del Golfo che è servita solo a distruggere lo stato iracheno. Ora da una parte c’è la componente sciita; dall’altra quella curda, decisa a diventare indipendente; e infine quella sunnita.
In questo contesto esplosivo — e con le conseguenze di una serie di fenomeni storici come il fallimento del socialismo arabo, il fallimento delle nuove democrazie, il problema palestinese irrisolto, il sottosviluppo economico e un sentimento diffuso e generalizzato di umiliazione collettiva — si è arrivati alla situazione attuale. In cui perfino nei “laici” Territori occupati la radicalizzazione del conflitto e la disperazione hanno portato a una crescita del potere dei fattori religiosi. A questo punto, serve in primo luogo una risposta di tipo culturale. Dobbiamo introdurre nei nostri paesi l’insegnamento delle religioni, non del cattolicesimo ma di tutte le diversità: perché la religione non è, come pensava Voltaire, un’invenzione della cura, ma, come diceva Karl Marx, è il sospiro della creatura infelice. In altre parole, è l’infelicità umana che alimenta la religione. In secondo luogo, per favorire l’integrazione degli studenti musulmani, bisogna mostrare come la Francia — proprio come l’Italia, o la Spagna — sia in realtà una nazionale multiculturale. In Italia ad esempio non ci sono solo discendenti dei latini, è una nazione composta da popoli diversi, siciliani, piemontesi, trentini. E ci sono molti ebrei. L’Italia insomma non ha una razza unica, ma tante diverse, con lingue diverse che col tempo si sono integrate. È la vera eredità dell’universalismo dell’impero romano. La storia insomma deve aiutare anche i giovani a capire come l’integrazione, nel tempo, sia possibile.
Terzo tema: cosa fare oggi con la parola “terrorismo”? Una parola che in realtà non è quella giusta, perché è vuota. Una parola che non contiene in sé una vera fede, una vera passione, ma solo un mondo dalla realtà rovesciata. Era così anche in fenomeni terroristici di altro tipo, come le Brigate Rosse e l’eversione nera in Italia. Le persone non nascono terroriste, si comincia magari per seguire un qualche ideale di salvezza. Come succede con l’Is: dal disagio storico e sociale si passa a pensare di essere al servizio di Dio. E nel caso degli estremisti islamici, il fuoco, il carburante che alimenta la loro follia è la questione irrisolta del Medio Oriente. Questo fuoco è come un cancro, che fa metastasi ormai nell’intero pianeta. Ecco perché bisogna risolvere una volta per tutte il problema mediorientale. Imponendo la pace a tutti le componenti che alimentano questa guerra civile. È questo l’unico modo per isolare il fanatismo di Daesh e del sedicente Califfato.
Ma come fare? A questo punto, ricostruire l’integrità della Siria e dell’Iraq appare impossibile. L’unica soluzione allora è riprendere, tornare a far vivere il sogno di Lawrence d’Arabia, promuovendo una grande Confederazione del Medio Oriente in cui sia ripristinata la libertà di culto. Se decidiamo che è davvero questo lo scopo da raggiungere, allora possiamo portare avanti una grande coalizione che promuova la pace. Solo così quel concetto vuoto che chiamiamo “terrorismo” potrà essere progressivamente liquidato. Questa è una missione vitale, non solo per i francesi o gli europei, ma per tutta l’umanità.

Jihadismo, regimi e zone grigie
Analisi. L’elementare distinzione tra ‘credo islamico’ e ‘terrorismo islamista’ viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica – espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressividi Marina Calculli, Francesco Strazzari il manifesto 29.11.15
Sgonfiatasi la retorica che ha permeato gli attentati di Parigi e i loro decorsi sicuritari, occorre ripensare ad alcuni problemi di messa a fuoco che la narrazione degli eventi ha generato. Non si tratta tanto di far luce sulla diffusione di sentimenti islamofobi.
Quello che ci preme analizzare è piuttosto il rapporto tra potere e narrazione mediatica, nel gioco di specchi amplificato dalla forza comunicativa che la violenza terrorista esercita nella società dell’informazione e per cui lo scomparso René Girard avrebbe parlato di ‘crisi mimetica’ e ‘capro espiatorio’. Più precisamente, colpisce il modo in cui la vulgata mediatica esoneri da un rendiconto delle responsabilità politiche gli effettivi detentori di queste ultime – i governanti e le loro alleanze – dirottando i meccanismi di attribuzione della colpa su un credo religioso, un insieme presunto di ‘valori’, una civiltà aliena.
Nello spazio comunicativo ci si mette ad incalzare i turbamenti di coscienza dei ‘musulmani’, accusati di mimetizzarsi in una ‘zona grigia’: uomini e donne rei di non di non dissociarsi da una violenza cui mai si sono associati o persino di non schierarsi con i ‘coraggiosi leader arabi’ impegnati nella guerra al terrore.
Curiosamente, questa eloquenza che si accanisce verso il basso, fin sui più vulnerabili (i rifugiati in fuga dai tagliagola), fa da contraltare all’afasia nell’incalzare l’altra ‘zona grigia’, quella costituita delle linee di alleanza e intervento dei governi occidentali nella regione di guerra.
Così l’elementare distinzione tra ‘credo islamico’ e ‘terrorismo islamista’ viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica – espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressivi.
A ben guardare, repressione di stato e islamismo radicale rappresentano due facce della stessa medaglia, lungo una traiettoria che dagli anni 50–60 fino ad oggi ha permesso a quei regimi di disintegrare il carattere pluralistico delle società (ben più articolato negli anni 40 e 50) attraverso il monopolio di partiti nazionalisti e la soppressione di tutte le forme di dissenso: la sinistra, i liberali, l’Islam politico. E’ in questo solco che l’islamismo radicale si afferma e poi prolifera in organizzazioni violente fino alla creazione di al-Qaeda negli anni 90: l’obiettivo rimane la creazione di un contropotere che vendichi le società mediorientali colpendone i brutali governanti.
Eppure, contrariamente al comune sentire, i network jihadisti faticano a mobilitare una forte base sociale, marchio – anzi – della loro debolezza. Persino l’ossessione anti-occidentale che oggi pervade il verbo jihadista nasce e si sviluppa come conseguenza dell’appoggio dell’Occidente ai regimi repressivi. E’ infatti solo con l’11 settembre 2001 che si rompe una tradizione di terrorismo introspettivo, essenzialmente volto a modificare le società musulmane piuttosto che attaccare direttamente l’Occidente.
Ma, divenuta ‘globale’, la cosiddetta ‘minaccia islamista’ fornisce un ulteriore pretesto ai tradizionali regimi autoritari per attrarre aiuti finanziari e militari da parte degli alleati-patroni occidentali, già compratori di risorse naturali ed esportatori di armamenti, in nome di una più efficace collaborazione nella ‘guerra al terrore’: di fatto una più disinvolta repressione del dissenso politico, di cui l’islamismo radicale rappresenta solo una parte. Ne deriva un paradosso che alimenta tanto il potere quanto il contropotere: più efficiente e brutale si fa la macchina della repressione, più nelle carceri avvampa il fuoco della ‘vendetta sacra’, più cresce il numero dei convertiti.
Questo circolo vizioso non si spezza neanche con le rivolte arabe del 2011: dopo una breve finestra di esitazione nel sostegno incondizionato ai regimi autoritari, la logica di potenza si ricolloca nel solco della non-interferenza. Dai reami del Golfo fino all’Egitto di al-Sisi, è tutto un fiorire di relazioni commerciali e partite strategiche, mentre gli attivisti spariscono, i ‘nemici dello stato’ mandati a morte, i dissidenti esibiti impiccati agli elicotteri.
C’è poi una più recente congiuntura che marca l’ultima evoluzione del jihadismo, accompagnandola fino alla nascita del sedicente Stato Islamico (SI): la guerra in Iraq, la repressione nei campi di detenzione statunitense, la distruzione del tessuto sociale iracheno su cui gli attuali vertici dello SI, sopravvissuti alla surge statunitense, riescono nel loro progetto di potere: riconquistare il favore dei notabili sunniti che avevano loro voltato le spalle, ma che, opportunamente pasciuti, vengono messi a fronteggiare un potere centrale percepito come sempre più ostile. Avviene così la transizione da un network impalpabile ad un esercizio di sovranità su un territorio.
Oggi sono trentamila i combattenti accorsi a prestare lealtà ad al-Baghdadi: un numero impressionante in termini assoluti, ma esiguo in termini relativi, se si vuole misurare l’effettivo potere militare del Califfato come ‘minaccia globale’. Se poi si indaga sul suo potere di attrazione politica, occorre ricordare la lunga pletora di episodi di micro-resistenza al potere islamista nella zona nord e centro-orientale della Siria (non quella delle milizie armate dai governi occidentali, né delle milizie sciite finanziate dall’Iran), passata del tutto inosservata alla stampa occidentale. Senza dimenticare che il regime siriano, nelle due amnistie proclamate da Bashar al-Asad, ha aperto le celle di centinaia di jihadisti, immediatamente accorsi a rimpolpare i ranghi dello SI.
Mentre nelle prigioni di Asad continuano ad essere torturati gli intellettuali e i dissidenti laici, l’obiettivo malcelato del regime siriano in lotta per la sua stessa sopravvivenza, è quello di (ri)produrre una vecchia dicotomia concettuale indirizzata all’Occidente che guarda al mondo arabo dopo la sua effimera primavera: la convinzione spuria per cui il Medio Oriente sia in grado di produrre regimi autoritari garanti dell’ordine o poteri islamisti e retrogradi. Nella speranza, ovviamente, che le cancellerie occidentali ritornino a guardare a Damasco come guardano oggi al Cairo del generale al-Sisi: un luogo di potere utile a garantire la loro sicurezza.
Le società europee ferite dalla strage di Parigi e impossibilitate, nello stato d’emergenza, ad articolare risposte politiche collettive, si chiudono in casa a guardare grottesche trasmissioni in cui ci si domanda ossessivamente se esista un Islam moderato e cosa si celi nelle menti dei musulmani europei. Resta, cioè, rimossa la reale questione: quel nesso intimo tra regimi repressivi e proliferazione del terrorismo stesso. Fuori dai riflettori giacciono le molte analisi che tracciano il filo tra la deriva carceraria e l’esplosione del fenomeno SI.
Fuori da ogni cono di luce mediatico muoiono le attese tradite di un’intera generazione di attivisti laici. Eppure nel Cairo del generalissimo al-Sisi saltare in aria per un attacco kamikaze preoccupa forse meno che essere prelevati a forza di notte da incappucciati per essere fagocitati da una cella. Se il legame fra autoritarismo e terrorismo islamista fosse davvero esplorato, dovremmo forse ammettere quanto inutile sia affrontare l’uno senza l’altro: una mossa evidentemente troppo costosa in termini economici e strategici.
Di certo più costosa che andare a bombardare il Califfato e le popolazioni da esso assoggettate – le stesse che hanno cercato di resistere a Bashar al-Asad, allo Stato Islamico, alle nostre bombe e ai nostri fili spinati. 


La matrice religiosa e le ragioni politiche
di Giuseppe Galasso Corriere 29.11.15
Terrorismo o guerra? La questione non è di parole. Altrimenti sarebbe facile osservare che il terrorismo è, a suo modo, una guerra, e che la guerra pratica anch’essa, a suo modo, il terrore. Ma nell’alternativa fra guerra e terrorismo c’è di mezzo, a dirimere la questione, la politica. Non è un caso che il terrorismo sia nato come strumento soprattutto di lotta sociale o di protesta politica all’interno di determinati spazi politico-istituzionali, e che come tale abbia assunto le forme conosciute dalla metà del Novecento in poi. La differenza di fine dà luogo certamente a differenze notevoli di merito, anche se il metodo ne appare identico. Il terrorismo irlandese per l’indipendenza di quel paese è altro dal terrorismo della Raf (Rote Armee Fraktion) in Germania o delle Brigate Rosse in Italia; il terrorismo basco è altro dai vari terrorismi della cosiddetta «strategia della tensione». Ma alla fine il metodo finisce col contare più dello scopo.
La guerra è, invece, da sempre un conflitto armato che decide delle questioni di potenza e di interesse tra opposte entità politiche. Quando la lotta sociale o ogni altro conflitto assumono i caratteri della guerra, vuol dire che le parti in causa si sono trasformate in entità politiche del tipo che comunemente diciamo Stati, quale che sia la forma che tali entità assumono. Null’altro oltre la potenza e l’interesse determina la guerra? Non c’è anche, ad esempio, l’ideologia, la religione, la classe, la razza? Certo, può esservi. La guerra comporta sempre una dimensione ideologica, che può essere religiosa, ma poi, alla resa dei conti, anche questi i conflitti si risolvono in questioni di potenza o di interesse.
La guerra si può, quindi, anche definire un confronto più generale, un confronto tendenzialmente totale, anche quando nasce come locale o settoriale e viene mantenuto come tale; ed è nota, infatti, l’estrema facilità con la quale conflitti ritenuti parziali e locali si sono trasformati in conflitti generali. È il caso della guerra che l’Isis ha iniziato con l’Occidente. Qui c’entra ben poco l’Islam. Qui si tratta dell’Isis, così come l’11 settembre 2001 si trattava non dell’Islam, ma di Al Qaeda. Ossia di potenze, sui generis, che combattono una guerra di potenza contro l’Occidente. E, come si vede, anche partendo di distinzioni che possono apparire speciose, o superflue, o inutili, come quella fra guerra e terrorismo, si può poi giungere a qualche conclusione di innegabile pregnanza pratica.
Dopo di che parliamo pure dell’Europa ipocrita, colpevole o di qualsiasi altra referenza, ma non dimentichiamo la realtà del conflitto in atto. E poiché anche le guerre non sono affatto sempre le stesse, e bisogna guardarsi dal combattere la guerra di oggi coi criteri dell’ultima guerra di ieri, ne nasce anche la difficoltà, oggi, di individuare strategie e tattiche idonee alle nuove circostanze. Quelle adottate contro Al Qaeda non sono state molto brillanti. 

Due scenari per il nostro futuro Sulle conseguenze del terrore
di Luca Ricolfi Il Sole 29.11.15
Che cosa cambierà nelle nostre vite?
È una domanda che ci facciamo in molti, dopo l’attentato di Parigi. Credo che per tentare una risposta si debbano distinguere almeno due scenari possibili. Nello scenario A (il meno negativo), nei prossimi anni si registrano attentati relativamente rari, non concentrati in un singolo Paese, e il terrorismo costituisce un problema soprattutto perché i media amplificano le comprensibili paure della gente. Nello scenario B (il peggiore) gli attentati sono frequenti, diffusi, con alcuni Paesi occidentali nettamente più esposti di altri.
Nello scenario A (il meno drammatico), sono soprattutto cinque le conseguenze che mi pare ragionevole attendersi.
Un (modesto) rallentamento della crescita, dovuto alla contrazione del commercio internazionale e dei flussi turistici.
Un rallentamento del processo di trasferimento della sovranità dagli stati nazionali alle entità sovranazionali;
Un rafforzamento politico della maggior parte dei governi nazionali in carica.
Un aumento della spesa e dell’indebitamento pubblico, con lievi effetti sui tassi di interesse sui titoli di stato;
Un qualche restringimento delle nostre libertà e dei nostri diritti, come la privacy, la libertà di movimento, le garanzie nel processo, la possibilità di controllare il potere politico e amministrativo.
Ben più radicali, invece, appaiono i cambiamenti che è lecito attendersi nello scenario B, quello nel quale gli attentati sono frequenti. La differenza è che, in questo secondo scenario, a cambiare non sarebbero solo le condizioni esterne della nostra vita, ma anche la nostra testa, la nostra cultura, ovvero i nostri modi di affrontare la vita e guardare il mondo.
Se gli attentati non sono diretti verso obiettivi militari, istituzionali o simbolici (come nel terrorismo classico, compreso quello delle Brigate Rosse negli anni ’70), ma si indirizzano contro persone normali, colte nei gesti della vita quotidiana, e in più lo fanno con elevata frequenza, allora nelle nostre menti non può non verificarsi una sorta di “salto quantico”. È il salto dalla percezione di un rischio astratto e remoto a quella di un rischio concreto e, per così dire, in servizio permanente effettivo, ovvero sempre e comunque in agguato. Di un simile salto io stesso ho un ricordo piuttosto vivido, risalente agli anni ’70 e ’80: quando il terrorismo ebbe a mostrare il suo volto “stragista”, dalla Banca dell’Agricoltura al treno Italicus, dalla strage di Piazza della Loggia a quella della stazione di Bologna, molti di noi cessarono di vivere il pericolo terrorista come un’eventualità teorica (la classica tegola in testa, che può capitare a chiunque in qualsiasi momento), per sentirlo invece come una possibilità reale e molto concreta, capace di modificare piani di vita e stati d’animo, ad esempio in occasione di un viaggio o della partecipazione ad un evento pubblico.
Ma quali sarebbero, oggi, le conseguenze dello scenario B?
Sul piano politico-culturale, non sembra azzardato immaginare un ritorno in grande stile di politiche isolazioniste, supportate dal consenso popolare. È molto verosimile che, a fronte di una presenza costante del terrorismo nella nostra vita quotidiana, si affermi l’idea che i danni della globalizzazione siano (per noi) maggiori dei suoi vantaggi, e che sia saggio non interferire nella vita di altri popoli, indipendentemente dal fatto che tale interferenza significhi campagne militari, ingerenze umanitarie, scambi commerciali, circolazione delle persone. Altrettanto verosimile è l’ipotesi che, di qui a qualche anno, vedano una larga diffusione modelli di protezione di tipo privato, sia in chiave anti-terroristica, sia in chiave anti-criminalità. Se lo Stato non si dimostrasse capace di garantire elevati standard di sicurezza, non è difficile immaginare che cresca la percentuale di privati cittadini armati (ed autorizzati ad usare le armi) e si affermino agenzie ispirate alle più diverse esperienze, da quella di Israele a quelle di autodifesa comunitaria.
Infine, last but not least, le conseguenze economiche. Nello scenario B, quello di attentati ad alta frequenza, quel che ci si può attendere non è solo un crollo del turismo estero, una drastica riduzione degli scambi commerciali, un ulteriore rallentamento della crescita delle società avanzate. Quel che non mi sento di escludere è un sostanziale cambiamento di politiche, specie in Europa.
Uno di essi è puramente ipotetico, e potrebbe consistere in un lento abbandono della filosofia mercantilista oggi dominante, con conseguente passaggio da modelli di crescita trainata dalla domanda estera, a modelli di crescita sostenuta dalla domanda interna.
Un altro cambiamento, in parte connesso al precedente, è invece già in atto in molti Paesi europei, e potrebbe subire una pericolosa accelerazione ove a prevalere fosse lo scenario B. Tale cambiamento consiste, in sostanza, nella rinuncia di fatto al risanamento dei conti pubblici, e in un ricorso crescente all’indebitamento. È quello che l’Italia sta già facendo con la Legge di stabilità (largamente finanziata in deficit), e con l’invocazione della “clausola migranti” non già per alleggerire la pressione fiscale sulle imprese (abbassamento dell’aliquota Ires), bensì per finanziare nuove spese, presentate come strategiche per la lotta al terrorismo.
Si tratta di un gioco alquanto scoperto, e decisamente pericoloso. Già così, ovvero senza clausola migranti, è assai dubbio che il nostro rapporto debito-Pil, che quest’anno toccherà il massimo storico, cominci a diminuire nell’anno che verrà. La promessa di una riduzione del rapporto debito-Pil nel 2016 poggia su piedi d’argilla: la previsione di una crescita del Pil reale dell’1,6% (formulata prima degli attentati di Parigi) non sconta il previsto rallentamento dell’economia mondiale; la scommessa su un tasso di inflazione dell’1% appare ottimistica alla luce della dinamica attuale dell’inflazione (fra lo 0,2% e lo 0,3%); la dinamica del debito pubblico, secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, resta superiore a quella necessaria per ridurre il rapporto debito/Pil, anche nell’ipotesi che il Pil reale e il livello dei prezzi crescano ai ritmi auspicati dal governo.
Così stando le cose, il rischio è che la lotta al terrorismo inneschi una catena di eventi ben poco rassicurante. I governi chiedono all’Europa il permesso di fare più deficit per pagare le spese militari, il rafforzamento della sicurezza interna, la gestione dei migranti, la “cultura” in chiave anti-terrorista (?!). La crescita rallenta, già solo come conseguenza del minore interscambio commerciale. I conti pubblici peggiorano. I Paesi più indebitati (Grecia, Italia, Portogallo) tornano nel mirino dei mercati. I tassi di interesse sul debito pubblico ricominciano a salire, appesantendo ulteriormente i conti dei Paesi più vulnerabili.
Non è difficile immaginare il finale di questa storia: il debito aggiuntivo che i nostri governi contraggono oggi sarà, in un modo o nell’altro, pagato dai giovani e dalle generazioni future. Forse, anziché elargire un bonus di 500 euro a chi oggi compie 18 anni (uno degli ultimi annunci di Renzi), meglio sarebbe preoccuparsi di evitare a quei medesimi giovani di trovarsi, fra qualche anno, a doverlo restituire con gli interessi. 


I protagonisti Omicidi politici e voglia d’impero Erdogan-Putin rivali fotocopia

Il sultano e e lo zar sono troppo simili per poter andare d’accordo. Entrambi nostalgici del loro grande passato Quello ottomano e quello russo Il loro codice di comportamento, interno e internazionale, è la legge del taglione Non bisogna essere Freud per intuire che non possono amarsi due populisti e nazionalisti
Il leader turco Recep Tayyip Erdogan ha commentato ieri il delitto dell’avvocato dei diritti umani Tahir Elçi definendolo gelidamente un “incidente che mostra quanto sia nel giusto la Turchia nella sua lotta determinata contro il terrorismo curdo”di Paolo Garimberti Repubblica 29.11.15

SONO la fotocopia uno dell’altro, Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Vladimirovic Putin. Troppo uguali, caratterialmente e politicamente, per andare d’accordo. Troppo arroganti e fieri per mostrare cedimenti, ancor meno pentimenti.
Leggiamo che cosa ha detto Erdogan per tentare di smorzare la tensione dopo l’abbattimento del Sukhoi SU-24 russo: «Vorremmo che non fosse successo, ma è successo. Spero che una cosa del genere non accada più». Come se si fosse trattato di uno sfortunato caso del destino in una partita comunque sporca. Manca vistosamente la parola dispiacere per la morte di un essere umano, ancorché militare, ancorché combattente. Figurarsi le scuse, parola ignota al lessico di Erdogan. Come a quello di Putin, peraltro: un sultano e uno zar non si scusano.
Il loro codice di comportamento, interno e internazionale, è la legge del taglione. Alla gelida dichiarazione di Erdogan Putin ha risposto ufficializzando, con la firma di un decreto, una rappresaglia che era già in atto: un boicottaggio economico della Turchia. Il Cremlino si intende benissimo di queste cose, le ha provate a lungo con l’Ucraina, anche prima di annettersi la Crimea e invadere il Donbass con militari travestiti da miliziani volontari senza insegne e stellette.
Ieri l’assassinio, ancora avvolto in una nuvola di mistero, dell’avvocato Tahir Elci, il capo degli avvocati curdi di Diyarbakir, già imprigionato il mese scorso per aver sostenuto che il Pkk non è un’organizzazione terroristica, ha aggiunto un tocco di sinistra criminalità politica a questo gioco degli specchi. Morì misteriosamente, a due passi dal Cremlino, il 27 febbraio di quest’anno, anche Boris Nemtsov, uno dei più irriducibili oppositori di Putin. Per mano di un “sicario”, dissero gli inquirenti moscoviti. Le proteste di piazza (a Mosca i funerali furono una manifestazione politica, ieri a Istanbul ci sono stati incidenti) non hanno scalfito l’imperturbabilità dei poteri politici. Putin si dolse dell’omicidio di Nemtsov con molta misura, quasi con fastidio. Come ha fatto ieri Erdogan dopo la morte di Elci: lo ha chiamato «questo incidente ». Un sultano e uno zar non hanno pietà per i loro avversari politici. E non se ne curano: ci pensano “altri” a sistemarli.
Quando non sono “sicari” destinati a restare anonimi, sono i giudici a fare da longa manus del potere. In Russia finì in galera Mikhail Khodorkhovskij, il magnate del gas che si era messo di traverso con la forza della sua immensa ricchezza ai giochi di Putin; e poi, dentro e fuori, tra carcere e arrestri domiciliari, toccò ad Aleksej Navalny.
In Turchia, appena due giorni fa, i giudici hanno incriminato Can Dundar, il direttore del quotidiano Cumhuriyet, e il capo dell’ufficio di Ankara, accusandoli di terrorismo e di spionaggio. È lo stesso giornale che a maggio aveva documentato i giochi ambigui di Erdogan in Siria, fotografando tra l’altro le forniture di armi ai ribelli turkmeni, gli stessi che, guarda caso, hanno sparato ai piloti russi del Sukhoi abbattuto mentre scendevano con il paracadute. Basta ricordare l’uccisione di Anna Politkovskaja, nel 2006, per sottolineare che i giornalisti indipendenti sono poco graditi in Russia come in Turchia, che peraltro oggi è ancora più illiberale della Russia secondo la classifica di Reporter senza frontiere.
Una fotografia del novembre 2005 mostra Erdogan, Putin e Silvio Berlusconi (l’unico oggi fuori servizio effettivo) con la mani incrociate, come i vincitori su una coppa appena conquistata, alla cerimonia per il gasdotto Blue Stream. Era il suggello di quella che sembrava un’amicizia, umana oltre che politica, destinata a durare a lungo e cementata da una solidissima cooperazione economica.
Ancora a dicembre Erdogan aveva srotolato il tappeto rosso per la visita di Putin nel suo nuovo palazzo presidenziale da 600 milioni di dollari ad Ankara. In realtà gli interessi economici nascondevano quella che un diplomatico turco, che aveva assistito ai colloqui tra i due, aveva definito «una forte antipatia reciproca ».
In fondo non bisogna essere Freud per intuire che non possono amarsi due populisti, nazionalisti, nostalgici degli Imperi che furono (il Russo e l’Ottomano), marziali nella testa e maschilisti nel “body language”, forti di consensi popolari che non sono minimamente scalfiti dalla loro scarsa propensione per la democrazia (i sondaggi danno Putin trionfante ad ogni rilevazione, così come le elezioni del 1 novembre hanno dato a Erdogan una chiara e netta maggioranza).
La Siria ha aggiunto all’antipatia personale una rivalità politica, che è diventata acuta nel momento in cui, dopo i tragici eventi parigini, Erdogan ha visto un progressivo cambiamento di umori e di linea, da parte di governi ma anche dei maggiori osservatori di politica internazionale, nei confronti dell’intervento militare di Putin contro gli islamisti di Daesh. E certo non ha migliorato i rapporti il duro intervento di Putin al tavolo del recente G20, proprio a Antalya in Turchia, quando ha accusato alcuni dei Paesi seduti attorno al tavolo di finanziare e armare i macellai dell’Is. Non si pecca di eccesso di malizia, o di dietrologia, a pensare che l’abbattimento del Sukhoi sia un incidente cercato, perfino desiderato. «Alla fine della fiera - ha scritto proprio Aleksej Navalny nel suo blog - sono entrambi soddisfatti. E’ solo un peccato per il pilota. Per che cosa è morto?». 

C’è uno Stato Islamico che ha già vinto: l’Arabia Saudita 
L’Occidente non può combattere Daesh e nello stesso tempo stringere la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai regnanti wahabiti
KAMEL DAOUD 30 11 2015
Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l’Arabia Saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira.
Il wahabismo, un radicalismo messianico nato nel Diciottesimo secolo, spera di ristabilire un fantomatico califfato basato sul deserto, un libro sacro e due luoghi santi, Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si caratterizza per un rapporto surreale con la donna, la preclusione dei territori sacri ai non musulmani e leggi religiose spietate. Ciò si traduce nell’odio ossessivo contro l’immagine e la rappresentazione, quindi l’arte, ma anche il corpo, la nudità e la libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l’Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica. Le generazioni estremiste più giovani del cosiddetto mondo arabo non erano nate come jihadiste. Erano incubate nella Fatwa Valley, una sorta di Vaticano islamico con un’industria immensa che produce teologi, leggi religiose, libri, politiche editoriali e campagne media aggressive.
Si potrebbe ribattere: l’Arabia Saudita stessa non è un possibile bersaglio di Daesh? Sì, focalizzarsi su questo significherebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero da cui dipende la sua stabilità — e anche, sempre di più, la sua precarietà. I reali sauditi sono costretti in una trappola perfetta: indeboliti dalle leggi di successione che incoraggiano il ricambio, si aggrappano a legami ancestrali tra il re e i predicatori. Il clero saudita produce l’islamismo che minaccia il Paese legittimando al contempo il regime. Bisogna vivere nel mondo arabo per capire l’immenso potere dei canali televisivi religiosi di trasformare la società raggiungendo i suoi anelli più vulnerabili: famiglie, donne, aree rurali. La cultura islamica è diffusa in molti Paesi — Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania. Ci sono migliaia di giornali islamici e autorità religiose che impongono una visione unitaria del mondo, le tradizioni e l’abbigliamento in pubblico, le leggi statali e i costumi sociali che ritengono contaminati.
Vale la pena leggere certi giornali islamici per constatare le loro reazioni agli attacchi di Parigi. L’Occidente è rappresentato come una terra di “infedeli”. Gli attacchi sono il risultato dei massacri contro l’islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici dei secolari e degli ebrei. La questione palestinese è associata alla devastazione dell’Iraq e al ricordo del trauma coloniale, ed è confezionata in un discorso messianico volto a sedurre la massa. Quei discorsi vengono diffusi all’interno della società mentre, esternamente, i leader politici mandano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica si accompagna alla negazione delle aree oscure dell’Arabia Saudita da parte dell’Occidente.
Questo ci fa diffidare delle altisonanti dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra non può che essere miope, in quanto mira all’effetto piuttosto che alla causa. Dato che Daesh è anzitutto una cultura, non una milizia, come si fa a evitare che le generazioni future si uniscano al jihadismo se rimane intatta l’influenza della Fatwa Valley e del suo clero, della sua cultura e della sua immensa industria editoriale?
La cura della malattia è dunque semplice? È difficile. L’Arabia Saudita rimane un alleato dell’Occidente in numerosi scacchieri mediorientali. È preferita all’Iran, a quel triste Daesh. Ed è qui la trappola. La negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Il jihadismo è denunciato come il flagello del secolo senza considerare cosa l’abbia creato o sostenuto. In questo modo si salvano le facce ma non le vite.
Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo apparato religioso- industriale. Finché non si comprende questo, si possono vincere le battaglie, ma si perderà la guerra. I jihadisti saranno uccisi, solo per rinascere nelle generazioni future e crescere sugli stessi libri. Gli attacchi di Parigi hanno nuovamente evidenziato questa contraddizione, ma questa, come è accaduto dopo l’11 settembre, rischia di essere cancellata dalle nostre analisi e coscienze.

“Ridicolo dare la colpa del terrore a una fede” 
Lo scrittore respinge qualsiasi legame tra religione e violenza “Criminalizzare è un errore”
«Dire che quello che è successo a Parigi sia stato provocato da una religione è solo una brutta caricatura». Emmanuel Carrère, uno degli scrittori francesi più amati anche in Italia, nel suo ultimo libro, Il Regno (pubblicato come gli altri da Adelphi), ha affrontato in maniera personalissima, autobiografica, il tema del rapporto col Cristianesimo. E forse anche per questo, nell’intervista rilasciata al giornale cileno La Tercera, tiene a sottolineare come qualsiasi fede, compresa quella islamica, non implichi né cieco fanatismo, né odio verso l’altro. Ma prima ancora del giudizio, viene il racconto di quell’infernale venerdì 13: «La mia prima reazione — rivela — è stata di accertarmi dov’erano in quel momento i miei figli, i miei amici. E devo confessare che ho subito dopo ho provato un certo piacere egoista, a scoprire che a nessuno di loro era accaduto nulla». Anche se, precisa, «questo non ha diminuito la mia costernazione e il mio orrore nei confronti della strage».
E dopo le emozioni, per lo scrittore è giunto — come per tutti — il tempo della riflessione. In primo luogo, sul fronte politico: «Credo che Hollande si stia comportando relativamente bene, tenendo conto che la sua posizione è la più difficile: proteggere i propri cittadini, senza sapere se si può riuscire a farlo; o decidere di fare la guerra senza sapere fino a che punto volerla fare». Quanto alle cause di questa catena di terrore che investe la Francia, e non solo, Carrère ha le idee chiare: «Non sono religioso, ma credo che le convinzioni religiose non vadano associate in nessun caso a episodi come questo. La religione è un fattore importante nella vita di tanta gente che nulla ha a che fare con azioni del genere. Criminalizzare la fede, qualsiasi fede, è del tutto sbagliato».

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