Pierre Nora, l’accademico di Francia che ha diretto l’ambiziosa impresa dei Lieux de mémoire, analizza gli attentati del 13 novembre e l’omaggio nazionale reso alle vittime.
Sgonfiatasi la retorica che ha permeato gli attentati di Parigi e i loro decorsi sicuritari, occorre ripensare ad alcuni problemi di messa a fuoco che la narrazione degli eventi ha generato. Non si tratta tanto di far luce sulla diffusione di sentimenti islamofobi.
Quello che ci preme analizzare è piuttosto il rapporto tra potere e narrazione mediatica, nel gioco di specchi amplificato dalla forza comunicativa che la violenza terrorista esercita nella società dell’informazione e per cui lo scomparso René Girard avrebbe parlato di ‘crisi mimetica’ e ‘capro espiatorio’. Più precisamente, colpisce il modo in cui la vulgata mediatica esoneri da un rendiconto delle responsabilità politiche gli effettivi detentori di queste ultime – i governanti e le loro alleanze – dirottando i meccanismi di attribuzione della colpa su un credo religioso, un insieme presunto di ‘valori’, una civiltà aliena.
Nello spazio comunicativo ci si mette ad incalzare i turbamenti di coscienza dei ‘musulmani’, accusati di mimetizzarsi in una ‘zona grigia’: uomini e donne rei di non di non dissociarsi da una violenza cui mai si sono associati o persino di non schierarsi con i ‘coraggiosi leader arabi’ impegnati nella guerra al terrore.
Curiosamente, questa eloquenza che si accanisce verso il basso, fin sui più vulnerabili (i rifugiati in fuga dai tagliagola), fa da contraltare all’afasia nell’incalzare l’altra ‘zona grigia’, quella costituita delle linee di alleanza e intervento dei governi occidentali nella regione di guerra.
Così l’elementare distinzione tra ‘credo islamico’ e ‘terrorismo islamista’ viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica – espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressivi.
A ben guardare, repressione di stato e islamismo radicale rappresentano due facce della stessa medaglia, lungo una traiettoria che dagli anni 50–60 fino ad oggi ha permesso a quei regimi di disintegrare il carattere pluralistico delle società (ben più articolato negli anni 40 e 50) attraverso il monopolio di partiti nazionalisti e la soppressione di tutte le forme di dissenso: la sinistra, i liberali, l’Islam politico. E’ in questo solco che l’islamismo radicale si afferma e poi prolifera in organizzazioni violente fino alla creazione di al-Qaeda negli anni 90: l’obiettivo rimane la creazione di un contropotere che vendichi le società mediorientali colpendone i brutali governanti.
Eppure, contrariamente al comune sentire, i network jihadisti faticano a mobilitare una forte base sociale, marchio – anzi – della loro debolezza. Persino l’ossessione anti-occidentale che oggi pervade il verbo jihadista nasce e si sviluppa come conseguenza dell’appoggio dell’Occidente ai regimi repressivi. E’ infatti solo con l’11 settembre 2001 che si rompe una tradizione di terrorismo introspettivo, essenzialmente volto a modificare le società musulmane piuttosto che attaccare direttamente l’Occidente.
Ma, divenuta ‘globale’, la cosiddetta ‘minaccia islamista’ fornisce un ulteriore pretesto ai tradizionali regimi autoritari per attrarre aiuti finanziari e militari da parte degli alleati-patroni occidentali, già compratori di risorse naturali ed esportatori di armamenti, in nome di una più efficace collaborazione nella ‘guerra al terrore’: di fatto una più disinvolta repressione del dissenso politico, di cui l’islamismo radicale rappresenta solo una parte. Ne deriva un paradosso che alimenta tanto il potere quanto il contropotere: più efficiente e brutale si fa la macchina della repressione, più nelle carceri avvampa il fuoco della ‘vendetta sacra’, più cresce il numero dei convertiti.
Questo circolo vizioso non si spezza neanche con le rivolte arabe del 2011: dopo una breve finestra di esitazione nel sostegno incondizionato ai regimi autoritari, la logica di potenza si ricolloca nel solco della non-interferenza. Dai reami del Golfo fino all’Egitto di al-Sisi, è tutto un fiorire di relazioni commerciali e partite strategiche, mentre gli attivisti spariscono, i ‘nemici dello stato’ mandati a morte, i dissidenti esibiti impiccati agli elicotteri.
C’è poi una più recente congiuntura che marca l’ultima evoluzione del jihadismo, accompagnandola fino alla nascita del sedicente Stato Islamico (SI): la guerra in Iraq, la repressione nei campi di detenzione statunitense, la distruzione del tessuto sociale iracheno su cui gli attuali vertici dello SI, sopravvissuti alla surge statunitense, riescono nel loro progetto di potere: riconquistare il favore dei notabili sunniti che avevano loro voltato le spalle, ma che, opportunamente pasciuti, vengono messi a fronteggiare un potere centrale percepito come sempre più ostile. Avviene così la transizione da un network impalpabile ad un esercizio di sovranità su un territorio.
Oggi sono trentamila i combattenti accorsi a prestare lealtà ad al-Baghdadi: un numero impressionante in termini assoluti, ma esiguo in termini relativi, se si vuole misurare l’effettivo potere militare del Califfato come ‘minaccia globale’. Se poi si indaga sul suo potere di attrazione politica, occorre ricordare la lunga pletora di episodi di micro-resistenza al potere islamista nella zona nord e centro-orientale della Siria (non quella delle milizie armate dai governi occidentali, né delle milizie sciite finanziate dall’Iran), passata del tutto inosservata alla stampa occidentale. Senza dimenticare che il regime siriano, nelle due amnistie proclamate da Bashar al-Asad, ha aperto le celle di centinaia di jihadisti, immediatamente accorsi a rimpolpare i ranghi dello SI.
Mentre nelle prigioni di Asad continuano ad essere torturati gli intellettuali e i dissidenti laici, l’obiettivo malcelato del regime siriano in lotta per la sua stessa sopravvivenza, è quello di (ri)produrre una vecchia dicotomia concettuale indirizzata all’Occidente che guarda al mondo arabo dopo la sua effimera primavera: la convinzione spuria per cui il Medio Oriente sia in grado di produrre regimi autoritari garanti dell’ordine o poteri islamisti e retrogradi. Nella speranza, ovviamente, che le cancellerie occidentali ritornino a guardare a Damasco come guardano oggi al Cairo del generale al-Sisi: un luogo di potere utile a garantire la loro sicurezza.
Le società europee ferite dalla strage di Parigi e impossibilitate, nello stato d’emergenza, ad articolare risposte politiche collettive, si chiudono in casa a guardare grottesche trasmissioni in cui ci si domanda ossessivamente se esista un Islam moderato e cosa si celi nelle menti dei musulmani europei. Resta, cioè, rimossa la reale questione: quel nesso intimo tra regimi repressivi e proliferazione del terrorismo stesso. Fuori dai riflettori giacciono le molte analisi che tracciano il filo tra la deriva carceraria e l’esplosione del fenomeno SI.
Fuori da ogni cono di luce mediatico muoiono le attese tradite di un’intera generazione di attivisti laici. Eppure nel Cairo del generalissimo al-Sisi saltare in aria per un attacco kamikaze preoccupa forse meno che essere prelevati a forza di notte da incappucciati per essere fagocitati da una cella. Se il legame fra autoritarismo e terrorismo islamista fosse davvero esplorato, dovremmo forse ammettere quanto inutile sia affrontare l’uno senza l’altro: una mossa evidentemente troppo costosa in termini economici e strategici.
Di certo più costosa che andare a bombardare il Califfato e le popolazioni da esso assoggettate – le stesse che hanno cercato di resistere a Bashar al-Asad, allo Stato Islamico, alle nostre bombe e ai nostri fili spinati.
di Giuseppe Galasso Corriere 29.11.15
Terrorismo o guerra? La questione non è di parole. Altrimenti sarebbe facile osservare che il terrorismo è, a suo modo, una guerra, e che la guerra pratica anch’essa, a suo modo, il terrore. Ma nell’alternativa fra guerra e terrorismo c’è di mezzo, a dirimere la questione, la politica. Non è un caso che il terrorismo sia nato come strumento soprattutto di lotta sociale o di protesta politica all’interno di determinati spazi politico-istituzionali, e che come tale abbia assunto le forme conosciute dalla metà del Novecento in poi. La differenza di fine dà luogo certamente a differenze notevoli di merito, anche se il metodo ne appare identico. Il terrorismo irlandese per l’indipendenza di quel paese è altro dal terrorismo della Raf (Rote Armee Fraktion) in Germania o delle Brigate Rosse in Italia; il terrorismo basco è altro dai vari terrorismi della cosiddetta «strategia della tensione». Ma alla fine il metodo finisce col contare più dello scopo.
La guerra è, invece, da sempre un conflitto armato che decide delle questioni di potenza e di interesse tra opposte entità politiche. Quando la lotta sociale o ogni altro conflitto assumono i caratteri della guerra, vuol dire che le parti in causa si sono trasformate in entità politiche del tipo che comunemente diciamo Stati, quale che sia la forma che tali entità assumono. Null’altro oltre la potenza e l’interesse determina la guerra? Non c’è anche, ad esempio, l’ideologia, la religione, la classe, la razza? Certo, può esservi. La guerra comporta sempre una dimensione ideologica, che può essere religiosa, ma poi, alla resa dei conti, anche questi i conflitti si risolvono in questioni di potenza o di interesse.
La guerra si può, quindi, anche definire un confronto più generale, un confronto tendenzialmente totale, anche quando nasce come locale o settoriale e viene mantenuto come tale; ed è nota, infatti, l’estrema facilità con la quale conflitti ritenuti parziali e locali si sono trasformati in conflitti generali. È il caso della guerra che l’Isis ha iniziato con l’Occidente. Qui c’entra ben poco l’Islam. Qui si tratta dell’Isis, così come l’11 settembre 2001 si trattava non dell’Islam, ma di Al Qaeda. Ossia di potenze, sui generis, che combattono una guerra di potenza contro l’Occidente. E, come si vede, anche partendo di distinzioni che possono apparire speciose, o superflue, o inutili, come quella fra guerra e terrorismo, si può poi giungere a qualche conclusione di innegabile pregnanza pratica.
Dopo di che parliamo pure dell’Europa ipocrita, colpevole o di qualsiasi altra referenza, ma non dimentichiamo la realtà del conflitto in atto. E poiché anche le guerre non sono affatto sempre le stesse, e bisogna guardarsi dal combattere la guerra di oggi coi criteri dell’ultima guerra di ieri, ne nasce anche la difficoltà, oggi, di individuare strategie e tattiche idonee alle nuove circostanze. Quelle adottate contro Al Qaeda non sono state molto brillanti.
di Luca Ricolfi Il Sole 29.11.15
Che cosa cambierà nelle nostre vite?
È una domanda che ci facciamo in molti, dopo l’attentato di Parigi. Credo che per tentare una risposta si debbano distinguere almeno due scenari possibili. Nello scenario A (il meno negativo), nei prossimi anni si registrano attentati relativamente rari, non concentrati in un singolo Paese, e il terrorismo costituisce un problema soprattutto perché i media amplificano le comprensibili paure della gente. Nello scenario B (il peggiore) gli attentati sono frequenti, diffusi, con alcuni Paesi occidentali nettamente più esposti di altri.
Nello scenario A (il meno drammatico), sono soprattutto cinque le conseguenze che mi pare ragionevole attendersi.
Un (modesto) rallentamento della crescita, dovuto alla contrazione del commercio internazionale e dei flussi turistici.
Un rallentamento del processo di trasferimento della sovranità dagli stati nazionali alle entità sovranazionali;
Un rafforzamento politico della maggior parte dei governi nazionali in carica.
Un aumento della spesa e dell’indebitamento pubblico, con lievi effetti sui tassi di interesse sui titoli di stato;
Un qualche restringimento delle nostre libertà e dei nostri diritti, come la privacy, la libertà di movimento, le garanzie nel processo, la possibilità di controllare il potere politico e amministrativo.
Ben più radicali, invece, appaiono i cambiamenti che è lecito attendersi nello scenario B, quello nel quale gli attentati sono frequenti. La differenza è che, in questo secondo scenario, a cambiare non sarebbero solo le condizioni esterne della nostra vita, ma anche la nostra testa, la nostra cultura, ovvero i nostri modi di affrontare la vita e guardare il mondo.
Se gli attentati non sono diretti verso obiettivi militari, istituzionali o simbolici (come nel terrorismo classico, compreso quello delle Brigate Rosse negli anni ’70), ma si indirizzano contro persone normali, colte nei gesti della vita quotidiana, e in più lo fanno con elevata frequenza, allora nelle nostre menti non può non verificarsi una sorta di “salto quantico”. È il salto dalla percezione di un rischio astratto e remoto a quella di un rischio concreto e, per così dire, in servizio permanente effettivo, ovvero sempre e comunque in agguato. Di un simile salto io stesso ho un ricordo piuttosto vivido, risalente agli anni ’70 e ’80: quando il terrorismo ebbe a mostrare il suo volto “stragista”, dalla Banca dell’Agricoltura al treno Italicus, dalla strage di Piazza della Loggia a quella della stazione di Bologna, molti di noi cessarono di vivere il pericolo terrorista come un’eventualità teorica (la classica tegola in testa, che può capitare a chiunque in qualsiasi momento), per sentirlo invece come una possibilità reale e molto concreta, capace di modificare piani di vita e stati d’animo, ad esempio in occasione di un viaggio o della partecipazione ad un evento pubblico.
Ma quali sarebbero, oggi, le conseguenze dello scenario B?
Sul piano politico-culturale, non sembra azzardato immaginare un ritorno in grande stile di politiche isolazioniste, supportate dal consenso popolare. È molto verosimile che, a fronte di una presenza costante del terrorismo nella nostra vita quotidiana, si affermi l’idea che i danni della globalizzazione siano (per noi) maggiori dei suoi vantaggi, e che sia saggio non interferire nella vita di altri popoli, indipendentemente dal fatto che tale interferenza significhi campagne militari, ingerenze umanitarie, scambi commerciali, circolazione delle persone. Altrettanto verosimile è l’ipotesi che, di qui a qualche anno, vedano una larga diffusione modelli di protezione di tipo privato, sia in chiave anti-terroristica, sia in chiave anti-criminalità. Se lo Stato non si dimostrasse capace di garantire elevati standard di sicurezza, non è difficile immaginare che cresca la percentuale di privati cittadini armati (ed autorizzati ad usare le armi) e si affermino agenzie ispirate alle più diverse esperienze, da quella di Israele a quelle di autodifesa comunitaria.
Infine, last but not least, le conseguenze economiche. Nello scenario B, quello di attentati ad alta frequenza, quel che ci si può attendere non è solo un crollo del turismo estero, una drastica riduzione degli scambi commerciali, un ulteriore rallentamento della crescita delle società avanzate. Quel che non mi sento di escludere è un sostanziale cambiamento di politiche, specie in Europa.
Uno di essi è puramente ipotetico, e potrebbe consistere in un lento abbandono della filosofia mercantilista oggi dominante, con conseguente passaggio da modelli di crescita trainata dalla domanda estera, a modelli di crescita sostenuta dalla domanda interna.
Un altro cambiamento, in parte connesso al precedente, è invece già in atto in molti Paesi europei, e potrebbe subire una pericolosa accelerazione ove a prevalere fosse lo scenario B. Tale cambiamento consiste, in sostanza, nella rinuncia di fatto al risanamento dei conti pubblici, e in un ricorso crescente all’indebitamento. È quello che l’Italia sta già facendo con la Legge di stabilità (largamente finanziata in deficit), e con l’invocazione della “clausola migranti” non già per alleggerire la pressione fiscale sulle imprese (abbassamento dell’aliquota Ires), bensì per finanziare nuove spese, presentate come strategiche per la lotta al terrorismo.
Si tratta di un gioco alquanto scoperto, e decisamente pericoloso. Già così, ovvero senza clausola migranti, è assai dubbio che il nostro rapporto debito-Pil, che quest’anno toccherà il massimo storico, cominci a diminuire nell’anno che verrà. La promessa di una riduzione del rapporto debito-Pil nel 2016 poggia su piedi d’argilla: la previsione di una crescita del Pil reale dell’1,6% (formulata prima degli attentati di Parigi) non sconta il previsto rallentamento dell’economia mondiale; la scommessa su un tasso di inflazione dell’1% appare ottimistica alla luce della dinamica attuale dell’inflazione (fra lo 0,2% e lo 0,3%); la dinamica del debito pubblico, secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, resta superiore a quella necessaria per ridurre il rapporto debito/Pil, anche nell’ipotesi che il Pil reale e il livello dei prezzi crescano ai ritmi auspicati dal governo.
Così stando le cose, il rischio è che la lotta al terrorismo inneschi una catena di eventi ben poco rassicurante. I governi chiedono all’Europa il permesso di fare più deficit per pagare le spese militari, il rafforzamento della sicurezza interna, la gestione dei migranti, la “cultura” in chiave anti-terrorista (?!). La crescita rallenta, già solo come conseguenza del minore interscambio commerciale. I conti pubblici peggiorano. I Paesi più indebitati (Grecia, Italia, Portogallo) tornano nel mirino dei mercati. I tassi di interesse sul debito pubblico ricominciano a salire, appesantendo ulteriormente i conti dei Paesi più vulnerabili.
Non è difficile immaginare il finale di questa storia: il debito aggiuntivo che i nostri governi contraggono oggi sarà, in un modo o nell’altro, pagato dai giovani e dalle generazioni future. Forse, anziché elargire un bonus di 500 euro a chi oggi compie 18 anni (uno degli ultimi annunci di Renzi), meglio sarebbe preoccuparsi di evitare a quei medesimi giovani di trovarsi, fra qualche anno, a doverlo restituire con gli interessi.
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