lunedì 2 novembre 2015

Praxis e poiesis secondo Paolo Virno

L’idea di mondo
Paolo Virno: L’idea di mondo Intel­letto pub­blico e uso della vita, Quod­li­bet, pp. 199, euro 16,50

Risvolto

Piccolo vademecum di un materialismo poco incline al pentimento e alla dissimulazione, questo libro raccoglie tre saggi avvinghiati l’uno all’altro come fratelli siamesi. Il primo, Mondanità, cerca di chiarire (con e contro Kant e Wittgenstein) che cosa significa la semplice parola “mondo”, con la quale indichiamo il contesto percettivo e storico in cui si svolge la nostra esistenza. Come bisogna intendere espressioni consuete quali “stare al mondo”, “il corso del mondo”, “gente di mondo”? Il secondo saggio, Virtuosismo e rivoluzione, è un minuscolo trattato politico: propone un insieme di concetti (moltitudine, esodo ecc.) in grado di affrontare la tempesta magnetica che ha messo fuori gioco le bussole cui si è affidata, dal Seicento in poi, la riflessione sulla sfera pubblica. Il terzo saggio, L’uso della vita, è l’enunciazione stenografica di un programma di ricerca sulla nozione di uso. Che cosa facciamo di preciso quando utilizziamo un martello, un lasso di tempo, un enunciato ironico? Ma, soprattutto, in che cosa consiste quell’uso di sé, della propria stessa vita, che sta alla base di tutti gli altri usi? Una ricerca in tre tappe in cui filosofia del linguaggio, antropologia e teoria politica si passano con naturalezza il testimone.


L’uso della vita dove si intrecciano lavoro e azione 
Filosofia. Una proposta di Paolo Virno per riarticolare sempre e di nuovo le forme dell’azione, muovendo dalla capacità recitativa propria dell’uomo: ciò che gli rende possibile pensare sé come un altro e un altro come sé 

Luca Illetterati Manifesto 1.11.2015, 6:56 

«La vita è pra­xis, non poie­sis», dice Ari­sto­tele in un passo famoso della Poli­tica. Entrambe, pra­xis e poie­sis, sono per lui modelli di azione che carat­te­riz­zano la forma di vita degli ani­mali umani. La poie­sis ha come pro­prio fine la pro­du­zione di un oggetto che, una volta arri­vato a esi­stere, è qual­cosa di altro e di estra­neo rispetto all’attività che lo ha pro­dotto. Un letto, un com­pu­ter, una casa, giunto il ter­mine del pro­cesso che li ha rea­liz­zati, godono, in qual­che modo, di una vita pro­pria: non dipen­dono più dal fale­gname, dall’assemblatore, dall’architetto, dal mura­tore che li hanno por­tati a essere ciò che sono. Più radi­cal­mente, l’oggetto esi­ste solo quando l’azione fina­liz­zata alla sua pro­du­zione trova il pro­prio ter­mine. Fin­ché l’azione pro­duce non c’è ancora l’oggetto e quando l’oggetto è rea­liz­zato l’azione viene meno. 
La pra­xis, invece, è secondo Ari­sto­tele quella azione che trova il pro­prio fine in se stessa, che si com­pie svol­gen­dosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo com­pi­mento in un oggetto. Il fare musica, per ripren­dere un esem­pio ari­sto­te­lico che poi Hei­deg­ger uti­liz­zerà come pro­prio nei suoi corsi uni­ver­si­tari, non si rea­lizza in un fine esterno: il suo com­pi­mento è già nello stesso fare musica. Una vita che si rea­lizza in un pro­dotto altro da sé è una vita del tutto alie­nata, espro­priata di se stessa: come il fare musica, appunto, la vita trova com­pi­mento nell’essere vis­suta bene e non si acquieta una volta giunta al risul­tato, alla rea­liz­za­zione di uno scopo esterno. Smet­tere di agire è, per la vita, smet­tere di essere se stessa: equi­vale alla morte.
È soprat­tutto gra­zie a Han­nah Arendt e attra­verso i suoi scritti che que­sta clas­sica distin­zione tra pra­xis e poie­sis è stata ripor­tata al cen­tro della discus­sione filo­so­fica nel secolo scorso. La sua riat­tua­liz­za­zione con­sente infatti alla filo­sofa tede­sca di sve­lare e deco­struire il pen­siero poli­tico dell’occidente e in par­ti­co­lare quello moderno. Essendo rivolta alla costru­zione delle con­di­zioni che con­sen­tono la legit­ti­ma­zione del governo, dun­que alla ela­bo­ra­zione delle mito­lo­gie che reg­gono la legit­ti­mità dello Stato (lo Stato di natura hob­be­siano, la volontà gene­rale rous­seauiana, tutte le forme di con­trat­tua­li­smo e neo con­trat­tua­li­smo) la teo­ria poli­tica è un fare piut­to­sto che un agire, è una poie­sis piut­to­sto che una praxis. 
L’idea di fondo che attra­versa tutta la scienza poli­tica moderna è quella di un fare fina­liz­zato alla costru­zione di una casa den­tro la quale si possa vivere pro­tetti e sicuri. Ma si tratta di un costruire, appunto, non di un agire, che per sua essenza è sem­pre insi­curo, sem­pre espo­sto al peri­colo. Il modello greco, insomma, serve a Han­nah Arendt – come scrive Ales­san­dro dal Lago nella sua intro­du­zione a Vita activa, uno dei grandi capo­la­vori filo­so­fici della seconda metà del Nove­cento – per por­tare alla luce e all’evidenza l’espropriazione moderna della poli­tica, la ridu­zione della poli­tica a tec­nica, a cal­colo fina­liz­zato, ad ammi­ni­stra­zione dei molti a opera dei pochi. Una espro­pria­zione della poli­tica, che è in qual­che modo, e coe­ren­te­mente con la distin­zione di Ari­sto­tele, anche una espro­pria­zione della vita. 
Fare chia­rezza su que­sti con­cetti è un buon pre­sup­po­sto per affron­tare l’ultimo lavoro di Paolo Virno, L’idea di mondo Intel­letto pub­blico e uso della vita (Quod­li­bet, pp. 199, euro 16,50), che riprende nelle sue due prime parti un pre­ce­dente lavoro pub­bli­cato nel 1994 per mani­fe­sto­li­bri e aggiunge un capi­tolo, L’uso della vita, che costi­tui­sce – scrive l’autore – «l’enunciazione ste­no­gra­fica, scan­dita da tesi peren­to­rie, di un pro­gramma di ricerca ancora da rea­liz­zare». Ma è anche un pen­siero del pre­sente, uno sguardo acuto e mai nostal­gico nei con­fronti del tempo che siamo.
Uno dei nuclei del ragio­na­mento di Paolo Virno riguarda pro­prio l’agire. O, meglio, riguarda una dif­fi­coltà pro­fonda rela­tiva a un agire – l’agire poli­tico – che è diven­tato sem­pre più enig­ma­tico e inat­tin­gi­bile, fino a risol­versi in un quella sorta di para­lisi che è uno dei tratti più carat­te­ri­stici dell’esperienza con­tem­po­ra­nea. Enig­ma­tico e inat­tin­gi­bile, per­ché le demar­ca­zioni nette tra l’agire pro­pria­mente detto (la pra­xis), il lavoro (la poie­sis) e l’esperienza del puro pen­siero intesa come soli­ta­ria e per­lo­più invi­si­bile (l’episteme), non sono più in grado, secondo Virno, di ren­dere conto dell’esperienza con­creta della vita con­tem­po­ra­nea. I con­fini di que­ste diverse forme dell’agire sono diven­tati porosi e, piut­to­sto che lamen­tare la con­fu­sione o guar­dare con fasti­dio il pre­sente rivol­gen­do­gli un nostal­gico distacco, vale la pena ripen­sare l’azione pro­prio a par­tire da que­ste ibri­da­zioni, pren­dendo sul serio, senza la pre­tesa di rimet­tere le cose a posto, l’infiltrazione reci­proca della sfera dell’agire e di quella del lavoro. 
Anzi, secondo Virno, il tratto carat­te­ri­stico della con­tem­po­ra­neità sarebbe non tanto la ridu­zione della poli­tica a pro­du­zione, come rite­neva Han­nah Arendt, quanto l’acquisizione dei carat­teri pro­pri dell’azione poli­tica da parte del lavoro, il quale assorbe in sé que­gli ele­menti di impre­ve­di­bi­lità, di crea­ti­vità, di capa­cità di ini­ziare qual­cosa di nuovo che nella clas­si­fi­ca­zione ari­sto­te­lica (e arend­tiana) appar­te­ne­vano solo alla pra­xis. All’interno di que­sto pae­sag­gio mutato, il modello di azione pro­po­sto da Virno è quello dell’esodo, che non va inteso come rinun­cia all’azione, quanto – ver­rebbe da dire – come azione di rinun­cia e di rifiuto, come una defe­zione di massa dallo Stato, come azione in grado di fon­dare una Repub­blica che si è con­ge­data dall’ordinamento sta­tale. Un’azione, dun­que, che è innan­zi­tutto nega­tiva: non nel senso di una sem­plice quanto stru­men­tale oppo­si­zione, ma piut­to­sto come disob­be­dienza, come capa­cità di met­tere in que­stione la stessa facoltà di coman­dare dello Stato. 
Que­sta teo­ria dell’azione, che pre­tende di avere i tratti di una «teo­ria poli­tica di là da venire», si con­nette in modo inte­res­sante con il discorso che Virno, nell’ultimo e più recente capi­tolo del suo libro, dedica all’uso della vita. Il con­cetto di uso è ciò che sta alle spalle, secondo l’autore, tanto del lavoro e della pro­du­zione quanto dell’azione. Nell’uso, infatti, pra­xis e poie­sis risul­tano intrec­ciate, ibri­date e indi­stin­gui­bili. Ne è esem­pio l’architrave di tutti gli usi, ovvero l’uso di sé, l’uso cioè che il vivente umano fa della vita. L’uso della vita pre­sup­pone infatti un vivente – l’uomo, appunto – che è in qual­che modo distac­cato da sé, che vive in modo essen­ziale l’esperienza del non sen­tirsi a casa pro­pria, che non coin­cide, cioè, mai inte­gral­mente con la vita che egli stesso è. Solo su que­sta base è pos­si­bile qual­cosa come l’uso della vita. E sem­pre solo su que­sta base, su que­sta non ade­renza di sé a sé, assu­mono corpo le isti­tu­zioni, assume senso qual­cosa come il noi. 
In que­sto senso la vita è allo stesso tempo l’attività che usa e l’oggetto usato; ovvero ancora: ciò che è oggetto di cura nella cura di sé, ma anche la stessa cura. In que­sto senso, l’uso di sé non è uno spa­zio mistico che si apre quando si smette di agire, quando ci si è por­tati al di là tanto del lavoro, quanto dell’azione. L’uso di sé è sem­mai ciò a par­tire da cui assu­mono invece senso azione e lavoro, ciò a par­tire da cui è neces­sa­rio ripar­tire sem­pre di nuovo per ripen­sare quell’ibridazione di lavoro e azione che costi­tui­sce il pro­prio dell’esperienza con­tem­po­ra­nea. Vale a dire che la que­stione non è tanto quella di una feli­cità che si pone al di là di qual­siasi ope­ro­sità (sia essa poli­tica o pro­dut­tiva) quanto la neces­sità di riar­ti­co­lare sem­pre di nuovo le forme dell’azione, muo­vendo dalla capa­cità reci­ta­tiva che è pro­pria dell’uomo: la capa­cità di essere, insieme, sé e l’altro da sé, di pen­sare sé come un altro e un altro come sé.

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