lunedì 2 novembre 2015
L'ultima lezione di Kelsen
Hans Kelsen: Che cos’è la giustizia?, Quodlibet
Risvolto
«Che cos’è la giustizia?» è una di quelle domande alle quali l’uomo «si è
consapevolmente rassegnato a non poter mai dare una risposta
definitiva, ma solo a formulare meglio la domanda stessa». È a questo
compito, e all’esplicitazione dei presupposti della propria filosofia
della giustizia, che Hans Kelsen dedicò, nel 1952, la lezione di congedo
dall’insegnamento che dà il titolo al presente volume. Questo testo,
per molti versi «conclusivo», è preceduto da due lezioni inedite del
1949, qui riunite sotto il titolo complessivo Elementi di teoria pura del diritto,
nelle quali Kelsen s’interroga sull’essenza dei fenomeni giuridici, e
sui problemi epistemologici propri della filosofia del diritto. Chiude
il volume la lezione Politica, etica, diritto e religione, del
1962, in cui si affronta il ruolo che le credenze religiose possono
svolgere nel determinare l’effettività delle norme di un ordinamento
sociale. Grazie anche alla loro natura di lezioni, gli scritti qui
raccolti offrono una summa dell’opera filosofica del grande
pensatore, che si confronta da un lato con l’analisi dei concetti
giuridici fondamentali, dall’altro lato con il quadro metagiuridico
(etico, politico e sociale) nel quale necessariamente si collocano gli
ordinamenti normativi.
Antigone aveva tortoLa donna che vuole seppellire il fratello opponendosi alla norma di Creonte ha attraversato i secoli
Nel Novecento è esploso il caso L’appello al volere divino puà alimentare il fanatismo Ma la difesa delle leggi rischia di sfociare nella tirannia dei valori Soltanto il dialogo consente la convivenza
di Mauro Bonazzi Corriere La Lettura 1.11.15
Uno spettro si aggira per l’Europa ma non è quello del comunismo: è
quello di Antigone, l’eroina del mito, la compagna di chi oppone la
propria coscienza all’oppressione del potere, la resistente. È un mito
che ha attraversato indenne i secoli e che è esploso nel Novecento,
nell’ora dei totalitarismi. Come ad esempio nella pièce di Bertolt
Brecht, che ambientò la tragedia in una Berlino cupa, piena di SS, con i
disertori impiccati per le strade, e Creonte intabarrato in un cappotto
militare. Le due guerre erano state esperienze troppo dure: anche in un
racconto di Marguerite Yourcenar le strade di Tebe tremavano al
passaggio dei carri armati. Le forme di oppressione del resto sono
molteplici: per il pensiero femminista Antigone è la rivendicazione
dell’alterità femminile, irriducibile alle logiche del potere maschile.
Altri avrebbero potuto celebrarla come la giovane che non accetta di
sottostare all’eterno dominio delle vecchie generazioni.
La tragedia di Sofocle, il punto di riferimento per tutte queste
riprese, racconta però una storia meno edificante, se si ha la pazienza
di leggerla.
C’è stata una guerra. Eteocle ha salvato la città sacrificando la vita
in un combattimento mortale con il fratello Polinice, il traditore della
patria. La decisione del nuovo sovrano, Creonte, è prevedibile: il
primo sarà seppellito con tutti gli onori, la memoria del secondo sarà
esecrata con la proibizione che sia seppellito nei confini della città.
Tutti quelli che depongono corone di fiori il 25 aprile capiscono
perché; e con loro il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, quando
decise che il cadavere di Osama Bin Laden fosse gettato in mezzo al mare
per evitare che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggio. I morti
contano.
Ma Antigone rifiuta e seppellisce il fratello. Perché? Dubbi non ce ne
sono. Per Antigone la legge di Creonte non vale nulla: «Questo editto
non Zeus proclamò per me né Giustizia». Il mondo degli uomini, con i
suoi valori e le sue regole, non conta; solo il mondo degli dei conta;
le leggi umane non sono niente rispetto alle «leggi non scritte,
incrollabili, eterne, divine».
Mai una volta, in tutta la tragedia, Antigone fa menzione della guerra
che ha rischiato di distruggere Tebe, la sua città: non è cosa che possa
interessarla. Antigone è «autonoma», alla lettera: si dà le leggi e i
valori (in greco nomos ) da sola (in greco autos ). Nulla può resistere
all’urto delle sue convinzioni: l’universo religioso e il mondo della
città sono separati nettamente.
L’ombra del gesto di Antigone si allunga fino a noi. Sarà forse
eccessivo evocare i fanatismi religiosi che insanguinano tanta parte del
mondo. Ma è difficile non pensare a tutte le Kim Davis (l’impiegata
americana finita in carcere per aver rifiutato la licenza matrimoniale a
una coppia di omosessuali) che oppongono la loro fede religiosa alle
leggi dello Stato. O alle posizioni di chi, sull’onda di vicende come
quella del pensionato che ha ucciso un ladro a Vaprio d’Adda, invoca un
diritto assoluto all’autodifesa che sconfina nel farsi giustizia da
soli. Anche questo è Antigone, e non è molto rassicurante, per chi
pensava che simili conflitti fossero ormai un ricordo del passato.
Forse converrebbe togliere a Creonte il cappotto militare e considerare con più attenzione le sue ragioni.
L’obiettivo di Creonte, in fondo, era quello di costruire un mondo in
cui gli uomini potessero convivere. Lo sapeva bene il grande filosofo
del diritto austriaco Hans Kelsen, di cui l’editore Quodlibet ha appena
ripubblicato la lezione di congedo dall’insegnamento, tenuta a Berkeley
nel 1952, Che cos’è la giustizia? . Una domanda vitale per uno che a
Berkeley era arrivato esule, in fuga dal terrore nazista. La giustizia è
il risultato di scelte condivise, che stanno alla base della società
umana, non un’imposizione calata dall’alto.
Era una proposta che ben si confaceva al nuovo mondo democratico che
stava sorgendo dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Gli uomini,
scriveva Kelsen, sono sempre stati dominati dal bisogno di credere in
verità assolute. Ora, finalmente, stavano imparando a liberarsi da
questa ossessione, impossibile da realizzare. Sarebbe bello dividere tra
buoni e cattivi, tra bianchi e neri; nel mondo degli uomini, però,
tutto è più complicato: la giustizia assoluta è «una delle eterne
illusioni dell’umanità» e nessuno può pretendere di possederla. Occorre
imparare la tolleranza per costruire uno spazio comune. Anche Creonte ha
le sue ragioni. La tragedia di Sofocle, però, andava ancora oltre,
sollevava domande ancora più inquietanti.
Le idee di Kelsen costituiscono un valido antidoto contro i fanatismi
che troppo spesso avvelenano la vita in comune degli uomini. Ma riescono
a salvare questo nuovo mondo umano da se stesso, dalla spirale di
violenza che sempre può innescarsi? Sofocle racconta non una, ma due
storie, entrambe tragiche nella loro solitudine: e su entrambe bisogna
riflettere. C’è Antigone, certo, che morirà per il suo gesto di
ribellione, e ancora più per il suo ostinato rifiuto del mondo umano:
Antigone non si oppone soltanto a Creonte; disprezza la sorella, non
parla quasi al fidanzato che per lei si ucciderà.
Ma non c’è solo Antigone. Non meno importante è la parabola di Creonte,
che da buon politico si trasformerà in tiranno, un despota che per
salvare la sua città finirà per distruggerla. Messo di fronte alla sfida
di Antigone, per paura che la disobbedienza di una sola persona possa
riaprire le porte al caos, Creonte s’irrigidisce nella difesa dei valori
della città, diventa intollerante, rifiuta il confronto, si rifugia
nella violenza e finisce per fare il deserto intorno a sé. È una storia
più sfuggente ma anche più interessante per noi. Perché questa
degenerazione dalla politica alla forza? Era inevitabile?
Proprio negli anni in cui Kelsen teneva le sue ultime lezioni a
Berkeley, in Germania si riaffacciava sulla scena il giurista e
politologo Carl Schmitt, dopo un periodo di forzato silenzio dovuto alla
sua compromissione con il regime nazista. Apparentemente era poca cosa,
la partecipazione a un seminario ristretto e la pubblicazione di un
piccolo saggio, La tirannia dei valori . In realtà era una lucidissima
diagnosi di quello che stava succedendo; ed era anche una risposta al
problema di Creonte.
Il mondo moderno si era progressivamente emancipato dal peso di princìpi
assoluti, Dio o il Bene, che venivano imposti in modo autoritario.
Benissimo. Il nuovo mondo, il nostro mondo, era quello dei valori, che
gli uomini liberi si danno consapevolmente e responsabilmente.
Benissimo. I valori, però, sono molteplici, relativi, spesso
incompatibili. I valori confliggono. Ma qual è, allora, la validità di
un valore rispetto all’altro? I valori valgono, osservava Schmitt
giocando sull’etimologia della parola, finché valgono: un valore «non è
nulla se non s’impone; la validità deve continuamente essere
attualizzata, cioè essere fatta valere. Chi dice valore vuol far valere e
imporre». «Non appena l’imporre e il far valere diventano una cosa
seria, la tolleranza e la neutralità si ribaltano nel loro opposto, cioè
in ostilità».
In assenza di fondamenti, il rischio è che l’unica legittimità di un
valore consista nella forza di chi lo propone; e il pericolo è che per
farli valere si ricorra alla violenza, ricadendo nel fanatismo, in
opposizioni non negoziabili: la tirannia dei valori, appunto, come
quella descritta nella parabola di Creonte, il politico diventato
tiranno per difendere i valori della comunità dalla sfida di Antigone.
Oggi, questa tirannia si traduce nel conformismo, nell’erigere se stessi
a misura di tutte le cose per paura del confronto con gli altri. Di
fronte alle grandi sfide che si stanno profilando all’orizzonte, è una
situazione ancora più complicata di quella che Creonte ha cercato
vanamente di controllare.
Si ritiene che la modernità sia nata quando la religione è stata
spazzata via e Creonte ha preso il posto di Antigone, confinando le sue
esigenze morali e religiose nello spazio del privato. Ma è una
ricostruzione superficiale, che non rende conto della realtà in cui
viviamo. Piuttosto si dovrebbe riconoscere che tanto Creonte quanto
Antigone hanno ugualmente ragione e ugualmente torto: esprimono punti di
vista legittimi, che possono degenerare in fondamentalismi ugualmente
nocivi. I danni delle varie Antigoni non serve quasi ricordarli; la
scoperta dei tempi più recenti è che neppure Creonte è in grado di
trovare una soluzione ai nostri problemi. Gli opposti estremismi non
portano da nessuna parte. Niente di nuovo sotto il sole: erano gli
stessi problemi di cui si discuteva duemilacinquecento anni fa.
Oggi, ampliando il discorso, si parla del conflitto tra Atene (Creonte) e
Gerusalemme (Antigone), tra la ragione e la rivelazione. Sono due
ordini di senso diversi e inconciliabili, che si combattono sempre senza
mai prevalere. La ragione non può escludere la rivelazione (l’esistenza
di Dio non può essere provata, ma neppure confutata), ma la rivelazione
non può dimostrare se stessa (l’esistenza di Dio non può essere
confutata, ma neppure provata). Una tensione ineliminabile rimane.
A pensarci bene, però, questa tensione non è poi un male, perché ci
costringe alla discussione, impedendoci di cadere in una visione
unilaterale, e dunque dottrinaria, della realtà. Dialogare,
confrontarsi: quello che Antigone e Creonte non sono stati capaci di
fare. Del resto, non è proprio questa tensione che fa la specificità
della nostra civiltà europea ed occidentale? Fino ad oggi, con alti e
bassi, siamo stati capaci di conservare un equilibrio tra queste spinte
divergenti. Non era facile. E domani? Questa è la domanda di Sofocle, a
cui dobbiamo dare una risposta pratica.
La giustizia, fenomeno sociale
Gaetano Pecora Domenicale 15 11 2015
Definire significa anche delimitare: un concetto rimane sfuocato quando manchi un contrario che dall’esterno lo perimetri e lo circoscriva. E dunque, se il contrasto può favorire la precisione dei contorni, che contrasto sia. Per cui, ora che questi inediti ottimamente curati da Paolo Di Lucia e Lorenzo Passerini Glazel verniciano di smalto nuovo il pensiero di Kelsen, è bene partire da lì, proprio da coloro che contro il suo relativismo suonano la belligera tromba dell’Assoluto. Che ha conosciuto mille versioni, ma mai tirato così a lucido come con Papa Ratzinger il quale, senza rotondità diplomatiche, con un tu a per tu aperto e dichiarato, ha misurato tutta la profondità del suo disaccordo con Kelsen (citato per nome e cognome nel discorso al Parlamento tedesco del 2011). Intendiamoci: per un tratto di strada (breve), i due possono anche procedere sincroni e non è detto che il linguaggio del Papa debba per forza riuscire ostico alla sensibilità di Kelsen.
È così ad esempio quando proprio nell’occasione tedesca il Pontefice afferma che «un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma – aggiunge – il successo è subordinato al criterio della giustizia». Questo è concetto che si può facilmente riformulare con le parole di Kelsen, per il quale le regole del diritto sono valide, ossia sono obbligatorie, se e finché sono inserite in un complesso di norme che non è sistematicamente disatteso e che invece è rispettato, se non sempre, almeno nella più parte dei casi. Per Kelsen, una norma è valida, cioè obbligatoria, quando si inscrive in un ordinamento che è complessivamente efficace (che ha «successo», direbbe Ratzinger). Ora, una volta subordinata l’obbligatorietà all’efficacia dell’ordinamento, si dà il caso che Kelsen – certo, pure lui – ha avuto ben chiaro che un ordinamento è tanto più efficace quanto più è giusto. Per dirla con le sue parole: «Se esaminiamo i motivi per cui gli uomini obbediscono il diritto, troviamo nelle loro menti … l’idea della giustizia». Esattamente come nel magistero ratzingeriano, anche qui il «giusto» decide della efficacia e quindi di rimbalzo della validità del diritto. Già: ma che cos’è giusto?
Ora sì che cominciano gli affanni. Per Ratzinger la giustizia poggia su di un dato oggettivo e come tale fisso e immutabile (la natura umana); per Kelsen, la «natura umana» è termine tremendamente, inaccettabilmente generico e polisemico e quello che è naturale per me può non esserlo per te, sicché svaporando questa (presunta) oggettività, la giustizia è né più né meno che una comunanza di soggettività; per lui cioè è giusto quel che in un certo momento una determinata comunità di soggetti considera tale. Ecco, la comunità. È qui che Kelsen, rientrando un po’, arrotonda le punte del suo relativismo sulla lamina della sapienza sociologica: qui, quando mette in penitenza l’idea che pure gli fu cara in anni risalenti allorché la scelta tra il giusto e l’ingiusto, egli la commetteva alla discrezionalità e comunque all’espansione emotiva dell’individuo (dell’individuo singolo, intendiamo?).
Ora no, non più: quando Kelsen dice – e lo dice nella sua ultima, bellissima, lezione universitaria - che «un sistema positivo di valori non è una creazione arbitraria di un individuo isolato» e che «ogni sistema di valori … e la stessa idea di giustizia, è un fenomeno sociale», quando Kelsen dice così, di fatto rivede al ribasso le sue precedenti acquisizioni. Nel senso che i valori rimangono, sì, sempre relativi; ma ora è la società che li seleziona, ed è la società – per il tramite della famiglia e della scuola – che li inietta nelle coscienze dei singoli plasmandoli e predisponendoli al bene (recte: a ciò che in un dato momento si considera bene). Con la conseguenza che forgiate così le personalità degli umani (specie degli umani-fanciulli), a un certo punto le norme della morale e i principi della giustizia, divengono per essi una specie di seconda natura, di fatti che non è abitudine discutere, precisamente come non si suole discutere il freddo della neve o il calore del sole. Agli occhi di un osservatore esterno lo statuto di quelle regole non cambia: relative erano e relative restano. Muta invece la prospettiva, diremo così, «interna», di chi cioè vivendo all’interno della collettività le sperimenta non come opinioni volatili e passeggere ma come credenze inconcusse e perentorie. Pensate quale labirintico intreccio di condizioni contrastanti: sapere, dall’esterno, che i nostri valori sono poco più che ipotesi senza fondamento e poi, dall’interno, trattarle con tutti i riguardi dovuti alle certezze. Labirintico e spaesante viluppo che, a volte, costringe la mente in una specie di mezz’ombra ambigua. A volte. Altre volte, però, lampeggia come per ricordarci che è precisamente questo il titolo di nobiltà della nostra condizione: «rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare: ecco ciò che distingue un uomo civile da un barbaro» (Berlin).
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