martedì 15 dicembre 2015

Sulla genesi del Re Lear e altre faccende shakespeariane

James Shapiro: 1606 - William Shakespeare and the Year of Lear, Faber & Faber

Risvolto
Ten years ago James Shapiro won the Samuel Johnson Prize for his bestseller 1599: A Year in the Life of William Shakespeare. Now, to mark the forthcoming 400th anniversary of Shakespeare's death, comes a compelling look at a no less extraordinary year in his life: 1606.
1606 is an intimate portrait of one of Shakespeare's most inspired moments: the year of King Lear, Macbeth and Antony and Cleopatra.
1606, while a very good year for Shakespeare, was a fraught one for England. Plague returns. There is surprising resistance to the new king's desire to turn England and Scotland into a united Britain. And fear and uncertainty sweep the land and expose deep divisions in the aftermath of a failed terrorist attack that came to be known as the Gunpowder Plot.
James Shapiro deftly demonstrates how these extraordinary plays responded to the tumultuous events of this year, events that in unexpected ways touched upon Shakespeare's own life. By immersing us in Shakespeare's England, 1606 profoundly changes and enriches our experience of his plays, works that continue to speak to us with such immediacy.



Leggere Shakespeare ai tempi del terrorismo
Londra, 1605: un maxi-attentato sventato semina il caos. È l’anno in cui nasce il capolavoro
Re Lear 

SIEGMUND GINZEBERG Repubblica 15 12 2015
Un attentato terroristico clamoroso che, seppur sventato all’ultimo momento, sconvolge una delle più grandi capitali del mondo. Popola gli incubi e le fantasie di tutta l’Europa. Scatena paura, anatemi, cacce ai complici e ispiratori, e ai simboli di un’altra religione, minoritaria nel paese. Sarà l’argomento del giorno per molto tempo. Ne parlano e ne scrivono tutti. Compreso William Shakespeare.
L’anno è il 1605. La città è Londra. I cospiratori volevano far saltare in aria il Parlamento riunito in seduta solenne il 5 novembre, con tutto il governo presente. Avevano affittato un appartamento nelle vicinanze. Avevano scavato un tunnel fino ai sotterranei della Camera dei Lord a Westminster ed erano riusciti ad ammassarvi ben 36 barili di polvere da sparo. I congiurati erano cattolici ultrà. Non dei disperati ma un gruppo di gentiluomini colti, guidati da sacerdoti della Santa romana Chiesa. Il bello è che ce l’avevano non con la protestante Elisabetta I, la regina che aveva fatto la guerra al Papa e alla Spagna cattolica, imprigionato e torturato come agenti del nemico preti e gesuiti, fatto decapitare la cattolica cugina Maria Stuart, ma con Giacomo I che le era succeduto sul trono e che era uno Stuart, e quindi molto più moderato, inizialmente portato a una riconciliazione coi cattolici.
I congiurati erano stati denunciati da una lettera anonima. Quello che doveva dare fuoco alle micce era Guido Fawkes, uno che aveva fatto esperienza militare nelle guerre dei Paesi bassi (la Siria, l’Iraq e l’Ucraina di quei tempi). Fu arrestato subito. Poi partì la caccia a quelli che erano fuggiti in altre parti d’Inghilterra nel vano tentativo di mettere in piedi una rivolta armata. Si diede molto rilievo alla scoperta di arsenali nascosti dove venivano tenute armi e soprattutto simboli dell’altra religione: “crocefissi, calici, e altri aggeggi per celebrare la messa (cattolica)”. Uno solo, un gesuita, un agente segreto del Papa, che era forse il capo della congiura, riuscì ad attraversare la Manica e rifugiarsi sul Continente. Gli altri furono ferocemente torturati perché confessassero, poi processati. Poi nel gennaio 1606 furono impiccati, poi decapitati, poi eviscerati, poi smembrati e squartati e infine bruciati in piazza.
La tremenda ironia della storia fa sì che ancora oggi a Londra si celebri ogni anno, con festa e fuochi d’artificio, il giorno in cui fu sventato il “Complotto delle polveri” (è un po’ il loro 4 o 14 luglio). E che allo stesso tempo Guy Fawkes, e la sua Maschera coi baffetti e il pizzo, siano diventati invece simbolo della protesta contro il potere e le sue macchinazioni.
Ai retroscena, ai postumi, e soprattutto all’impatto che l’avvenimento ebbe sulla psiche dei contemporanei, e sulla cultura dell’epoca, a partire dal suo massimo esponente, è dedicato buona parte di un libro fresco di stampa di James Shapiro, 1606: William Shakespeare and the Year of Lear (Faber & Faber 2015). Quello fu l’anno in cui Skakespeare completò la prima versione del Re Lear (e probabilmente scrisse anche il Macbeth e mise in scena l’Antonio e Cleopatra). Fu per lui uno dei periodi più produttivi. Il nuovo re e sua moglie erano molto più interessati al teatro di quanto lo fosse stata Elisabetta. Assunsero la compagnia di Shakespeare a corte. Gli diedero una livrea rossa e uno stipendio. E in effetti ci sarebbero state più rappresentazioni di opere di Shakespeare nei tre anni di regno di Giacomo I che durante l’intero lunghissimo regno di Elisabetta. Ma la cosa più straordinaria è come Shakespeare sia riuscito a lavorare alle dipendenze del Re senza per questo divenirne servo.
Certo non poteva più permettersi battute come quella su Hotspur che «mi ammazza sei o sette dozzine di scozzesi a colazione » nella prima parte dell’Enrico IV. E neanche di contraddire apertamente le narrazioni ufficiali sulla politica corrente. Ma è quasi incredibile come sia riuscito a convogliare anche in quegli anni, un profondo sospetto sugli abusi del potere, l’orrore per gli orrori della sua epoca (di cui era testimone diretto) e, insieme, l’immancabile profonda prospezione nei meandri della natura umana.
Il Lear, indipendentemente dalle circostanze in cui è maturato e che vengono dottamente evocate in questo libro, è un’opera colossale che scava e intreccia gli aspetti più oscuri e reconditi del potere, della trasmissione del potere, del passaggio e dei conflitti tra generazioni, tra padri e figli, delle ambizioni, delle illusioni e delle delusioni umane. Se ne è scritto e discusso forse più di qualsiasi altra tragedia di Shakespeare. È stato interpretato, reinterpretato, riscritto in tutti i modi immaginabili. Shakespeare stesso ne fece due versioni diverse. Che si concludono pure in modo diverso. In una non si intravvede scampo. Nell’altra c’è un barlume, sia pure fioco, di speranza: «Voi ora governate questo regno e curate le ferite dello Stato”». In entrambe, il nuovo potente intervenuto a rimettere a posto le cose dice: «Al peso di questi tristi tempi si deve obbedire; dire quel che sentiamo, non quello che dovremmo dire. I vecchi hanno sofferto di più. Noi che giovani siamo, mai così tanto vedremo, né così tanto vivremo ». Non è solo fine della tragedia, è una profezia della fine del mondo. In qualche versione le figlie muoiono tutte, ma Lear sopravvive: torna il vecchio a raddrizzare le cose. Nella versione di Edward Bond (che risale agli anni Settanta, in questi giorni portata in scena da Lisa Ferlazzo Natoli al Teatro India di Roma), anziché morire di crepacuore stringendo la salma dell’unica figlia che non lo aveva tradito, a Lear sparano mentre sta cercando di picconare il Muro che lui stesso aveva iniziato a costruire.
Il testo di Bond è molto diverso da quello di Shakespeare. E questo lo rende in qualche modo più “datato” dell’originale, profetico se si vuole rispetto alla caduta del Muro di Berlino, ma più legato a conflitti ideologici del secolo scorso a cui poi sono subentrati altri conflitti. Eppure la bella regia della Natoli, che ha avuto il coraggio di accorciare Bond, e la bravura degli attori, rimediano egregiamente all’inconveniente. Abbonda la violenza: esecuzioni sommarie, stupri, occhi cavati dalle orbite, sgozzamenti, ferri da calza infilati nel cervello attraverso le orecchie, un’autopsia sanguinolenta. Forse troppo: ma questo è puro Bond, così come puro Shakespeare nell’anno del terrorismo, e anche puro notiziario di attualità quotidiana dei giorni nostri.

Shakespeare cronista a teatro
Uno studio di James Shapiro evidenzia la tempestività del Bardo nel reagire ai fatti dell’epoca: come nel 1606 un anno tragico per l’Inghilterra, ma per lui magicodi Masolino D’Amico La Stampa 17.12.15
Con una di quelle audaci sovrapposizioni di comico e tragico che avrebbero sconcertato epoche successive più ligie alle presunte esigenze del decoro, subito dopo che Macbeth ha orrendamente assassinato il suo sovrano Shakespeare fa rompere un allucinato silenzio da colpi sonoramente bussati al portone del castello di Inverness, e quindi dal chiassoso arrivo di un portiere ubriaco che si accinge a rispondere. Costui chiacchiera a ruota libera, paragonandosi al portiere dell’inferno che deve accogliere un altro dannato. «Chi sarà questa volta?» dice più o meno. «Toh, un cavillatore che giurava su tutti i piatti della bilancia, che ha commesso tradimenti in nome di Dio...».
La parola per cavillatore, che tornerà più volte nelle farneticazione del portiere, è «equivocator», termine dotto e raro fino al 1606 - l’anno in cui Macbeth fu scritto - ma diventato di uso comune in seguito al clamorosissimo processo degli attentatori della Congiura delle Polveri, scoperta il 5 novembre dell’anno prima. Gentiluomini cattolici che volevano riportare il Paese nelle braccia della Chiesa di Roma avevano progettato un colpo ancora più devastante dell’attentato islamico alle torri gemelle, immagazzinando 36 barili di polvere da sparo nelle cantine del Parlamento col progetto di farli esplodere nel corso di una seduta plenaria. In un colpo solo sarebbero stati eliminati il re, suo figlio Enrico e tutto il governo.
Il complotto fu scoperto in tempo, e i responsabili, processati senza diritto alla difesa agli inizi del 1606. Con loro fu condannato anche il gesuita Henry Garnet, accusato non di complicità ma solo di aver messo mano a un trattatello anonimo di 66 pagine che fu rinvenuto all’Inner Temple, scuola di avvocatura londinese. Il trattatello insegnava la cosiddetta «equivocation», detta anche riserva mentale, ovvero i trucchi con cui i gesuiti spiegavano come mentire sotto giuramento: sovversione imperdonabile in tempi in cui l’affidabilità dei testimoni era fondamentale.
Dopo un lungo silenzio
Per questo reato Garnet fu condannato allo stesso supplizio dei congiurati, ossia a essere prima brevemente impiccato, quindi, tolto dal cappio ancora vivo, lentamente castrato, eviscerato, e finalmente squartato e decapitato. Quando fu sulla forca, alcuni seguaci irriducibili riuscirono tuttavia a tirarlo per i piedi e a farlo morire velocemente.
Il richiamo all’«equivocator» non è certo la sola spia sulla tempestività dei drammi di Shakespeare. 1606 - William Shakespeare and the Year of Lear (Faber & Faber), il nuovo studio di James Shapiro dopo quello relativo all’anno in cui il Bardo scrisse l’Amleto, ne contiene a dozzine. Il 1606 fu un anno tragico per l’Inghilterra, anche se magico per il Bardo, che dopo un lungo periodo di quasi silenzio - in tre anni aveva scritto solo Misura per misura e Timone d’Atene, questo in collaborazione - licenziò Re Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra (tutti e tre interpretati da Richard Burbage: quale altro primattore al mondo ha mai avuto un’occasione simile?).
Il fatto era che, a differenza di Elisabetta, il nuovo re aveva la passione del teatro. Uno dei suoi primi provvedimenti dopo l’accessione nel 1603 era stato di ufficializzare la compagnia di Shakespeare come King’s Men: e un’antica ditta di Londra conserva ancora la pergamena che le ordina di consegnare a Shakespeare e ai suoi otto compagni quattro iarde e mezza di stoffa rossa perché si facciano le livree con cui comparire a Corte. Ci fu quindi una pressante richiesta di lavori nuovi, e nello scriverli certamente il drammaturgo fu stimolato dall’aria inquieta che circolava.
Gli interessi del nuovo re
Figlio di Maria Stuarda che Elisabetta aveva fatto giustiziare, il re di Scozia chiamato al trono d’Inghilterra tentò subito di unificare, oltre alla corona, i due regni, e per suo ordine nacque la nuova bandiera, lo Union Jack. Shapiro calcola che nella produzione di Shakespeare sotto Elisabetta le parole «English» e «Englishness» capitino 350 volte, contro solo 39 sotto Giacomo, mentre «Britain» compare solo due volte nei drammi elisabettiani contro 29 in quelli successivi. E Lear è un sovrano della Gran Bretagna che si mette nei guai proprio per avere diviso quello che era unito (già nel 1599 Giacomo aveva scritto un trattato contro la divisione dei regni).
Sia qui sia nel successivo Macbeth, ambientato in Scozia e dove figurano antenati dello Stuart - discendente dalla progenie di Banquo, cui le streghe hanno profetizzato il trono - sono parecchi richiami agli interessi del re, studioso di demonologia (dal fondamentale trattato di Samuel Harsnett contro le Egregie Imposture Papiste, 1603, Shakespeare prende molti termini e nomi di diavoli) ed esperto di stregoneria. Malgrado questi omaggi, non necessariamente espliciti, l’anno che Giacomo aveva iniziato con splendidi festeggiamenti continuò con una serie di delusioni.
L’opinione popolare si rivelò violentemente contraria alla vagheggiata unione, che il Parlamento sabotò e finalmente fece fallire. A luglio poi scoppiò la peste - i teatri furono chiusi, come avveniva quanto i morti superavano la trentina settimanale - e il flagello continuò a crescere costringendo la Corte a lasciare Londra, dove tornò assai mogia solo a novembre. Quando i reali poterono concedersi uno svago teatrale per le festività, il 26 dicembre, toccò loro Re Lear; e non sappiamo quanto ne fossero rallegrati. La storia era famosa e tutti sapevano che finiva bene, ma Shakespeare la cambiò, facendo morire sia il sovrano sia sua figlia in modo così crudele che nella seconda metà del secolo, con un nipote di Giacomo sul trono, questa conclusione fu riscritta in una versione edulcorata che poi avrebbe continuato a tenere le scene fino al 1835. 

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